Le principali cause di morte degli esseri umani all’inizio del ventesimo secolo sono state le malattie infettive. Nel 1918 si diffuse la “Grande Influenza“, soprannominata anche “spagnola”, che uccise migliaia di persone e si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo.
La stima delle vittime dell’epidemia globale è stata di circa 50 milioni.
A quel tempo né i ricercatori medici e né le autorità sanitarie compresero che la causa della pandemia del 1918 era proprio un virus. Oggi, un secolo dopo, la morte per infezione è molto meno comune, e questo grazie anche all’evoluzione delle tecnologie e delle competenze mediche.
Ma ancora oggi, cent’anni dopo, gli specialisti delle malattie infettive temono che possano ancora sorgere altre malattie virali che non saremo in grado di controllare.
I virologi, attraverso diversi studi, hanno dimostrato che i virus persistono tuttora nelle popolazioni animali. Comprendendo questo i ricercatori medici possono essere più preparati a valutare, a prevedere e a rispondere quando un’infezione si riversa sull’uomo.
Fino agli anni Trenta del secolo scorso, l’influenza spagnola era erroneamente considerata un’infezione batterica, comunemente attribuita al batterio Haemophilus influenzae.
L’Haemophilus influenzae è un batterio patogeno a sé stante e potrebbe aver contribuito pesantemente al bilancio delle vittime della pandemia del 1918, ma in molti dei casi più gravi si è tratta di un’infezione secondaria e non la causa di origine delle vittime.
Solo più tardi i ricercatori iniziarono a identificare le particelle virali e il nascente campo medico della virologia aveva iniziato a identificare la cause di queste malattie nelle piante e negli animali.
Il primo virus che gli scienziati sono stati in grado di vedere a occhio nudo quando nel 1931 inventarono il microscopio è stato il virus del mosaico del tabacco. Questo virus, altamente infettivo, si trasmette per contatto e si manifesta con la formazione di macchie gialle o verdi sulle foglie della pianta del tabacco.
Quelle del mosaico del tabacco sono state le prime formazioni virali ad essere osservate dall’uomo: usando esperimenti di filtrazione su foglie di tabacco infette, gli scienziati del tempo riuscirono a dimostrare che il mosaico del tabacco è causato da un agente infettivo di dimensioni inferiori a quelle di un batterio.
La risposta, a quanto pare, risiede almeno in parte nell’ingenuità della gente sulla relazione tra animali, ambiente e malattie umane. Nel 1918, il veterinario JS Koen identificò una malattia molto simile all’influenza nei suini.
Ma solo nel 1931 il ricercatore Richard Shope identificò un agente filtrabile, più piccolo dei batteri, come causa della malattia nei maiali e dimostrò la trasmissione di un virus influenzale.
Nel 2005, attraverso una combinazione di investigazione e sequenziamento del genoma virale, Jeffrey Taubenberger e un team di ricercatori hanno messo insieme la sequenza genetica del virus mortale del 1918 usando virus raccolti dai cadaveri di soldati e altri corpi conservati nel permafrost artico.
Sono stati in grado di collegare le origini e l’evoluzione della pandemia del 1918 con i virus che circolano in altri animali, in particolare quelli degli uccelli e dei maiali esaminati dal Dr. Koen.
Proprio come era stato attestato per altre epidemie, le origini della pandemia del 1918 sono rintracciabili in natura.
L’intuizione critica che condusse al lavoro di ricostruzione del virus del 1918 era arrivata negli anni ’70: guidati dalla determinazione del virologo Rob Webster, i ricercatori hanno capito che i virus dell’influenza trovano la propria origine nel mondo naturale, e in particolare, negli uccelli acquatici.
In questi ultimi e in altri animali, i virus dell’influenza sono in grado di replicarsi e si trasmettono nei nuovi ospiti. Questo ciclo, comune in molti patogeni, è una parte importante del modo in cui il virus viene mantenuto in natura e spiega come gli animali possono essere un serbatoio per nuovi virus influenzali che possono causare malattie umane.
Gli uccelli fungono da riserva per una vasta varietà di virus influenzali a cui tutte le principali pandemie umane fanno risalire la loro origine.
Le persone erano per lo più inconsapevoli del fatto che, contemporaneamente alla pandemia influenzale del 1918, i maiali erano malati. La consapevolezza che il virus dell’influenza ha origine negli animali selvatici ha influenzato il modo in cui gli scienziati studiano l’influenza.
Ora è noto che il 60 per cento delle malattie infettive umane è stata diffuso dagli animali. Negli ultimi vent’anni, tale consapevolezza ha portato a maggiori sforzi nella sorveglianza dell’influenza in tutto il mondo e all’identificazione di numerosi altri virus influenzali che minacciano la salute pubblica.
L’insorgere delle malattie infettive nell’uomo trova quindi la sua origine nell’ambiente circostante e, in particolare modo, negli animali che ci circondano.
Leggi l'articolo originale su TPI.it