Il “Congresso delle famiglie” di Verona ha lasciato forti segni nel dibattito pubblico, soprattutto sui social. Il tema dell’aborto è stato tra i più discussi (come non ricordare il gadget a forma di feto di gomma distribuito dai “pro- vita a tutti i costi”). Sulla sponda opposta, si trovano invece le donne che rivendicano la propria libertà di autodeterminarsi in relazione al proprio corpo, e quindi il diritto a vivere l’aborto nel pieno delle loro facoltà.
Se per molte questa rappresenta una scelta non certo fatta a cuor leggero, bensì ponderata e sofferta, c’è poi chi si dichiara apertamente felice di aver intrapreso questo percorso, e in nome di questa consapevolezza (per molti percepita come leggerezza) richiede il massimo del rispetto sociale.
È così che mi sono imbattuto in “IVG, ho abortito e sto benissimo”, un blog nato ad ottobre 2018 da un’idea di Federica di Martino (psicologa) e Lisa Canitano (ginecologa), alle quali si è poi aggiunto Alessandro Matteucci (ostetrico).
Questo spazio è una pagina Facebook che, riprendendo il francese “IVG je vais bien merci”, vuole proporre una contro-narrazione sui temi dell’aborto e sulla retorica che spesso investe le donne che ricorrono a questa pratica, secondo cui l’interruzione volontaria di gravidanza sia sempre un’esperienza dolorosa e traumatica. Ho deciso così di fare due chiacchiere con Federica di Martino, una delle fondatrici del blog.
C’era necessità di dare voce alle donne che hanno abortito riappropriandoci di una narrazione attualmente relegata all’aspetto legislativo (dibattito sulla 194) e medicale (non a caso si parla sempre meno di aborto e sempre più di IVG). Spesso le donne che abortiscono si sentono giudicate e colpevolizzate, abbiamo così pensato di raccogliere le nostre esperienze per sottolineare come l’aborto sia un’esperienza soggettiva, quindi non unicamente dolorosa, e come non ci si debba sentire in colpa se non si provano rimpianti e ripensamenti.
Noi vogliamo fermarci un passo indietro e dire che l’aborto è un’esperienza e basta: bella, brutta, liberatoria, triste… ma nessuno può parlare al nostro posto e dirci come dobbiamo sentirci, e soprattutto nessuno può giudicarci per le nostre scelte.
All’interno del blog e della pagina Facebook cerchiamo di fare informazione corretta sui temi che riguardano la contraccezione e l’IVG, cercando di scardinare le fake news che vogliono creare terrorismo psicologico e aumentare il senso di colpa. Il titolo della pagina è forte, infatti ha creato molto scalpore, ma il nostro non è un diktat bensì una speranza e un’alternativa.
Ci sono donne che stanno benissimo, altre che si possono aprire alla possibilità di stare bene insieme ad altre donne e attraverso la lettura di racconti di vita per capire che non sono sole, che il dolore non è il loro destino e che se si sceglie in maniera consapevole di non volere un figlio in quel momento c’è una ragione che va sempre rispettata e tutelata.
La situazione in Italia è abbastanza critica, i dati ministeriali lo confermano: il tasso di obiettori oscilla intorno al 70 per cento, con picchi del 90 per cento (come in Molise) mentre l’accesso all’aborto è sempre più complesso, sia per il chirurgico che per il farmacologico, ancora assente in molti ospedali d’Italia e non in regime di day hospital (pratica che rallenta i tempi e le procedure, già di per sé abbastanza lunghi visto che in Italia sono obbligatori sette giorni di riflessione nonostante una donna possa essere già fermamente convinta della propria scelta).
Molte donne sono così costrette a migrazioni intra ed extra regionali per abortire nei tempi previsti e questo non risponde alla piena applicazione della 194. Come dimostrato da numerose ricerche internazionali, i traumi post-aborto non sono ricollegabili all’aborto in sé quanto al peso dello stigma sociale e alla mancanza di accesso libero e gratuito ai servizi.
Il clima culturale è di caccia alle streghe per l’aborto e per tutte le pratiche di autodeterminazione sui corpi delle donne. Molte ci scrivono di aver incontrato personale medico e sanitario che le ha fatte sentire colpevoli e giudicate, cosa che quotidianamente la società ci porta a fare, accogliendoci soltanto se colpevoli e traumatizzate: anche questo è uno stigma sociale e per questo il nostro impegno consiste nell’offrire una visione differente.
La nostra pagina è molto attiva e interattiva, ci scrivono quotidianamente per raccontarci storie o segnalare articoli e video da condividere. È bello poter dire che questa è una pagina che costruiamo insieme alle persone che collaborano con noi perché sanno che così potranno aiutare e sostenere altre persone. In prevalenza ci scrivono molte più donne, ma non sono mancati uomini che ci hanno offerto il proprio sostegno, così come non sono mancati uomini che ci hanno aspramente giudicate e osteggiate.
Comprendiamo che il tema del blog sia duro da digerire ed elaborare per alcuni, ma c’è anche chi ci ha ringraziato e continua a farlo perché non si sente più sola ed emarginata dalla nostra cultura dominante.
L’assetto patriarcale domina il nostro sistema culturale, che proprio nella possibilità di esistere come donne e non come madri vede uno dei suoi punti più critici. In molti ci parlano dell’uso dei profilattici, ed è corretto: ma se si rompono che succede? Dovremmo promuovere prima di tutto l’educazione sessuale nelle scuole ma questo non avviene.
L’aborto e la contraccezione sono due strumenti e non due contrapposizioni, se una donna vive senza senso di colpa l’aborto non vuol dire che sia “leggera” o “irresponsabile”, né che confonde la contraccezione con l’aborto. Semmai, che ha due strumenti a disposizione per potersi auto-determinare e scegliere responsabilmente se essere o non essere madre in quel preciso momento della sua vita.
Snellire le pratiche di accesso all’aborto aiuterebbe le donne a non sentirsi colpevoli. Dobbiamo ricordarci che non stiamo commettendo un reato, e dobbiamo uscire da un isolamento forzato a cui la nostra società troppo spesso ci costringe.
Rispondiamo che per partorire ci vogliono nove mesi e che non tutte vogliono farlo, ma soprattutto che noi donne non siamo forni, incubatrici e macchine riproduttive.
Due le storie che mi hanno più colpita. La prima riguarda una donna che ha avuto un aborto terapeutico in Germania, un’esperienza dolorosa perché relativa a un figlio desiderato e voluto ma grazie a una rete familiare e sanitaria comprensiva è riuscita a dire “sto bene”. La seconda riguarda una donna che ancora non sta bene, che ha voluto condividere con noi la sua storia ringraziandoci per non essersi sentita giudicata e dicendoci che aveva trovato sostegno e forza dalle altre storie lette.
Non giudicate, sentitevi liberi di raccontare e condividere. Non siete sbagliate voi ma la società che vi giudica e vi fa sentire troppe volte colpevoli. Noi siamo dalla vostra parte e facciamo il tifo per voi.
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“Vi racconto l’inferno delle donne argentine, costrette a morire a causa degli aborti clandestini”