Il dibattito sul consumo del sale e del suo impatto sulla salute va avanti da molto tempo ed è ancora aperto: il sale fa male o fa bene? La discussione non si è ancora conclusa, nemmeno nel mondo della scienza.
Per decenni i funzionari della sanità pubblica hanno spinto le persone ad assumere meno sale per arrivare a una diminuzione del rischio di malattie cardiache.
Tante anche le opinioni contrarie a sostegno della tesi che non ci sia nessuna prova concreta che colleghi direttamente l’assunzione di sale alle malattie cardiache.
Quello che risolverebbe il dibattito una volta per tutte è uno studio controllato: assegnare una dieta povera di sale ad alcune persone e sorvegliarle per anni, registrando non solo i cambiamenti a breve termine della pressione sanguigna, ma anche nel lungo termine. Cercando di capire una volta per tutte se esiste davvero una correlazione tra il consumo di sale e gli attacchi di cuore.
Questo è ciò che l’Institute of Medicine, oggi National Academy of Medicine, sta cercando di fare. Il gruppo di scienziati ha infatti suggerito alla fine di una conferenza medica del 2013 una ricerca legata all’assunzione di sale.
Nel maggio del 2017, Daniel Jones, un ricercatore dell’Università del Mississippi Medical Center, ha convocato un gruppo di studio per capire la fattibilità di uno studio controllato randomizzato sul consumo di sale.
Lo stesso Jones crede che i dati attuali sostengano sufficientemente un legame tra sale e malattie cardiache, ma ritiene che questo studio possa portare a ottenere delle prove più forti che potrebbero a loro volta fornire la spinta per politiche volte a limitare il sale negli alimenti trasformati.
Per potere concretizzare questa ricerca i gruppi hanno esaminato le loro opzioni di ricerca. La migliore realizzata finora sull’assunzione di sale e sull’ipertensione proviene da studi sull’alimentazione a breve termine, vale a dire test in cui i ricercatori somministrano i pasti ai pazienti per diverse settimane. Ma nutrire i pazienti di un test per gli anni necessari allo sviluppo delle malattie cardiache sarebbe troppo costoso.
Oltre a un problema legato ai costi bisognerebbe valutare anche quanti volontari seguirebbero una dieta blanda per così tanti anni. Quindi il team scientifico ha considerato le persone che sono già sottoposte a un regime alimentare contollato.
Le case di cura sono state escluse perché gli anziani non possono essere sottoposti a una dieta a basso consumo di sale.
I militari sono stati esclusi dalla ricerca perché solitamente sono molto giovani e in forma, questo significa che ci vorrebbe troppo tempo perché le malattie cardiache si manifestino.
L’unica soluzione era il carcere, il gruppo di ricercatori ha infatti pubblicato un editoriale sulla rivista scientifica Hypertension dove propone di studiare diete a basso contenuto di sodio usando come cavie i detenuti.
Jones ha dichiarato che è attualmente in trattativa con una società di gestione di carceri private per condurre uno studio pilota iniziale.
L’intenzione è quella di pubblicare la ricerca proposta per avviare un dibattito anche sulla miriade di preoccupazioni, etiche e logistiche, che derivano dalla conduzione di ricerche nelle carceri.
La ricerca nelle carceri ha una storia lunga e controversa: “Fino agli inizi degli anni ’70”, scrisse il professore di diritto Lawrence Gostin, “RJ Reynolds, Dow Chemical, l’esercito americano e importanti compagnie farmaceutiche hanno condotto un’ampia varietà di ricerche sui prigionieri: una popolazione prigioniera, vulnerabile e facilmente accessibile “.
Gli anni Settanta hanno portato ad audizioni del Congresso sulle protezioni per soggetti umani e l’approvazione del National Research Act, entrambi stimolati da proteste pubbliche.
I detenuti sono ora considerati una popolazione vulnerabile, come i bambini, le donne incinte e le persone affette da disturbi mentali che richiedono protezioni speciali nella ricerca.
“Il consenso è qualcosa di molto diverso nell’ambiente carcerario”, afferma Marc Morjé Howard, direttore dell’Iniziativa carceri e giustizia a Georgetown, che Jones ha anche consultato sulle idee preliminari per lo studio sull’assunzione di sale.
I prigionieri che partecipano a uno studio lo fanno per poter accedere all’assistenza sanitaria o perché ritengono di doverlo fare per rimanere nelle grazie degli ufficiali correttivi.
Il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti limita la ricerca finanziata a livello federale nelle carceri a cinque categorie:
1) studio dell’incarcerazione o comportamento criminale;
2) studio delle carceri come istituzioni;
3) studio di condizioni che colpiscono in modo sproporzionato i detenuti come la tossicodipendenza o l’epatite;
4) ricerca epidemiologica su prevalenza e fattori di rischio di malattia;
5) ricerca che possa aiutare i prigionieri a studiare.
Lo studio sull’assunzione di sale, afferma Jones, rientra nell’ultima categoria.
I risultati potrebbero servire a informare sul consumo di sale sia la popolazione in generale che le persone che vengono nutrite nelle carceri.
Lo studio pilota sarà finanziato privatamente, ma sperano di trovare anche dei finanziamenti federali per uno studio più ampio in diverse prigioni.
I singoli prigionieri non sceglieranno il menu che viene offerto – non hanno il controllo sui menu della prigione, dice Jones – ma possono decidere se vogliono che i loro dati vengano raccolti per lo studio.
Paul Wright, il fondatore del Centro per la difesa dei diritti umani, ha messo in dubbio il fatto che uno studio sull’assunzione di sale possa effettivamente avvantaggiare i detenuti.
Anche i detenuti non sono del tutto rappresentativi della popolazione generale, il che potrebbe rendere più difficile generalizzare i loro dati.
La gran parte dei detenuti sono uomini e persone di colore, che hanno fatto uso di droghe, a volte portatori di HIV e epatite C.
Non sono quindi la popolazione ideale per uno studio sulla salute, ma sono gli unici disponibili, sempre se decidono di acconsentire alla ricerca.
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