Charlie Gard è morto nella sera di venerdì 28 luglio 2017 in una struttura per malati terminali di Londra.
Al bambino di appena undici mesi era stata diagnosticata la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale. Un male molto raro che finora ha colpito solamente 16 bambini in tutto il mondo e che causa un progressivo indebolimento muscolare.
La salute di Charlie per oltre cinque mesi è stata al centro di una battaglia legale tra i genitori del bambino, intenzionati a salvargli la vita in tutti i modi, e i medici dell’Ospedale di Great Ormond Street, dove era ricoverato a Londra.
La storia di Charlie ha fatto il giro del mondo. Politici, bioeticisti, rappresentanti religiosi si sono mossi per dire la loro, per offrire aiuto, assistenza, consulenza e – qualche volta – per tentare di trasformare la vicenda in un caso politico.
Per giorni e giorni, i giornali hanno seguito ogni risvolto di una battaglia che ha portato – inevitabilmente – a domandarsi sul senso più profondo della vita. Soprattutto perché in questo caso particolare la diatriba etica e scientifica gravitava intorno a una vita appena cominciata.
Ma se la cronaca di questa storia ha assunto talvolta contorni quasi morbosi e insani, viene da chiedersi: a cosa è valso tutto questo?
Quanto e cosa ci resterà della contesa che alla fine ci ha trovato tutti un po’ perdenti?
Se le dichiarazioni sulla vita di Charlie sono rimbalzate da un punto all’altro del globo, qualche dovere nei suoi confronti – come cronisti e come lettori – ce l’abbiamo anche noi.
Il dovere di evitare che tutta questa storia cada nel dimenticatoio. Il dovere, inoltre, di trovare dentro di noi un posto adeguato per Charlie. Un posto che mantenga i contorni di dignità e rispetto per una vita che si è spenta.
Perché se forse un senso c’è in questa triste storia è quello di aver instillato in noi il seme del dubbio, il dilemma del limite che ciclicamente torna a farci visita, quando domande molto più grandi di noi si pongono sul nostro cammino.
Per Charlie non esiste una verità, non esiste un postulato al cui cospetto potersi inchinare.
“Non voglio avere ragione, spero però che si capisca perché sono convinta che qualunque atteggiamento ideologico non ben documentato o che comunque non parta dal porsi domande sia quanto meno pericoloso in questo ambito. Perché un atteggiamento sincero, realista, ben documentato e aperto alla realtà e alla verità (che non possediamo mai fino in fondo) potrebbero portarci a conclusioni inaspettate”, spiegava una dottoressa cattolica in un suo lungo commento.
Le foto di quel bimbo stretto tra i due genitori vengono a bussare prepotentemente alla nostra porta, chiedendoci: può la filosofia sfidare la medicina? Può la riflessione etica confrontarsi con il progresso scientifico?
Il dialogo sulla scelta tra la vita e la morte di un essere umano che non può autodeterminare le proprie volontà non può certo ridursi a una scissione tra coloro che si ergono a difensori della vita umana e coloro che considerano la libertà l’unico principio fondante sul quale basare ogni decisione.
La sopravvivenza artificiale per molti è contro natura; ma non si sopravvive artificialmente anche con un by-pass, un rene artificiale, un trapianto o una chemio? Fin dove è lecito forzare il corso naturale della vita e accogliere l’intervento della tecnica, quali sono i confini inviolabili fra il naturale e l’artificiale?
D’altro canto preferire il vivere male alla morte non è anch’esso figlio di un feticismo della vita?
Se non vogliamo trasformare la storia di Charlie in un inutile feticcio polveroso, dobbiamo continuare a porci queste domande, a leggere ciò che si è detto e scritto, e a riflettere sul valore della possibilità che ci è data di poter spingere il nostro pensiero oltre i limiti che crediamo di aver individuato, tentando di spostarli sempre più avanti, oltre quell’orizzonte che ora ci è dato di vedere.