Per capire cosa significhi questo voto nel Pd, bisogna riavvolgere il nastro a dieci giorni fa. Tutti i grandi opinionisti avevano già (anticipatamente) proclamato la sconfitta del suo segretario, già individuato il suo sostituto (Stefano Bonaccini), già spiegato per filo e per segno che dopo una sconfitta così terribile come quella che si profilava (5 a 1) nelle regionali non c’era altra via che questa: dimettersi e consegnare la leadership al suo erede naturale. Ed era così suggestivo, questo coro, che lo stesso erede designato, Bonaccini a questa favola ci aveva pure aveva creduto, lasciandosi sfuggire una risposta che era un manifesto programmatico: facciamo rientrare gli esuli che sono fuori dal partito (a suo dire Matteo Renzi e Pierluigi Bersani) restauriamo l’immagine del Pd per tornare a “prima” di Zingaretti. Cioè al Renzismo, magari senza Renzi. Facciamo cadere questo governo innaturale che gli elettori non vogliono.
Che il segretario corresse dei rischi enormi era vero: giocava “fuori casa”, ovvero con candidati che (per ovvi motivi cronologici) nella maggior parte dei casi non aveva scelto lui, e aveva una doppia minaccia che lo stringeva a tenaglia: da un lato quella alla sua destra, con la nascita di liste, promosse da Italia Viva, che avevano l’obiettivo proclamato non di vincere loro, ma di far perdere il Pd. Dall’altro alla sua sinistra, dove gli alleati del M5s si baloccavano ancora in una illusione “autonomista”, nell’idea, cioè, che se avessero fatto da soli avrebbero potuto fare meglio. Il Pd di Zingaretti, dunque, si ritrovava in campo con una linea di prospettiva (far crescere l’alleanza di governo), ma – per dirla con Goffredo Bettini – sostanzialmente si ritrovava anche solo, a difenderla, dalle tentazioni “restauratrici” dei suoi alleati.
Bastava un passo falso, dunque, e la tenaglia rischiava di chiudersi: le regionali potevano diventare il successo di chi nel M5s sognava un ritorno al tripolarismo contro i suoi stessi compagni al governo, e potevano diventare un successo di chi dentro e fuori dal PD sognava uno spostamento dell’asse a destra, ma potevano addirittura dare una doppia indicazione in queste due direzioni, premiando sia gli autonomisti grillini, sia i guastatori di Italia Viva. Invece, il segnale è stato tutto diverso: anche se abbandonato quasi ovunque dal suo alleato, il Pd ha tenuto dappertutto (con la sola eccezione delle Marche). E anche se, come abbiamo visto, era già pronto il piano per far rientrare i renziani, ci hanno pensato gli elettori ad azzerare quella opzione politica.
Il disegno di Renzi era a geometria variabile e prevedeva tre diverse scommesse in un solo voto: 1) in alcune regioni, vedi la Puglia e la Liguria, come abbiamo visto, far perdere Emiliano e Sansa. 2) In altre regioni – vedi la Campania – essere determinanti per la vittoria. In altre 3) vedi la Toscana, mostrare i muscoli e costruire un successo vetrina da usare a livello nazionale per dire: quando giochiamo sul serio andiamo a due cifre. È andata esattamente nel modo opposto: dove il centrosinistra perde non è certo per l’effetto di un successo di Italia viva (vedi Liguria), dove vince (vedi Campania) il partito di Renzi è poco più che un orpello che prende più o meno come una lista civica di politiconi del sud. Dove vince a sorpresa – vedi Puglia – il povero Scalfarotto prende un risultato (1.1% la lista, 1,5% il candidato) che avrebbe esaminato con il microscopio elettronico. Dove vince respingendo il tentativo spallata di Salvini (vedi la Toscana) Italia viva rappresenta un ottavo dei voti del Pd.
Ecco perché dopo questi verdetti politici, Zingaretti incassa la doppia sconfitta dei due progetti alternativi al suo. Anche dentro il M5s questo voto rappresenta una dura lezione, simboleggiata dal voto sulla candidata pugliese: si diceva che sarebbe arrivata al 15-20% (e così la vittoria di Raffaele Fitto sarebbe stata matematica), e si è fermata al 10, con il suo serbatoio elettorale completamente “svuotato” da Emiliano. Non dal voto disgiunto, su cui i dirigenti “autonomisti” avevano lanciato l’allarme, ma direttamente dal voto utile: per non non far vincere la destra – cioè – cambio anche il mio voto di lista. Era quindi, come si vede, la prova più difficile per la segreteria del Pd, il primo grande test dopo la nascita del governo giallorosso, l’ultima battaglia in difesa.
Forse si può dire che Zingaretti abbia finito ieri la sua “fase uno”. Ma adesso, forte di questi risultati, deve aprire la sua fare due. Il che significa mettere in prima linea quelli che sono andato a votarlo fin dalle primarie, aprire alla società civile, liberarsi dai veti cadaverici delle correnti, e anche dal peso di condizionamento dei renziani che sono rimasti acquattati nella sua maggioranza, ma che erano pronti a pugnalarlo alla prima occasione. Adesso che ha sconfitto i nemici esterni, il leader del Pd deve usare questo risultato per passare alla sua fase due, cambiare lo stanco corpaccione, azzerare le rendite dei vecchi notabili, costruire un partito che sia più periferie, Greta e Ocasio-Cortez, e meno Ztl, Guerini, Lotti e Hillary Clinton.
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