Un giudice del Tribunale di Pisa ha dichiarato illegittima la delibera dello Stato di emergenza sanitaria approvata dal governo Conte bis il 31 gennaio 2020 nonché il Decreto Legge n. 6 del 23 febbraio dello scorso anno e i conseguenti Dpcm dell’8 e 9 marzo 2020 che decretarono il lockdown prima nelle Zone rosse e poi in tutto il territorio nazionale.
La vicenda risale al marzo dello scorso anno e riguarda due uomini di origini marocchine, uno imputato di resistenza a pubblico ufficiale ed entrambi denunciati per aver violato il Dpcm che imponeva “di non uscire da casa se non per ragioni di lavoro, salute o necessità”. Nonostante le disposizioni sanitarie, i due erano infatti stati sorpresi circolare a bordo di uno scooter a Cascina, in provincia di Pisa, opponendosi con la forza ai controlli dei carabinieri.
Con sentenza n. 419 del 17 marzo 2021, il giudice monocratico Lina Manuali ha assolto con formula piena l’uomo denunciato per la sola violazione delle disposizioni del Dpcm firmato da Giuseppe Conte “perché il fatto non sussiste”. Tra le motivazioni del verdetto, pubblicate a fine giugno, il magistrato spiega che “solo un atto avente forza di legge e non un atto amministrativo, come è il Dpcm, può porre limitazioni a diritti e libertà costituzionalmente garantiti”.
In primis, il Tribunale rileva “l’illegittimità” della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, che dichiarava lo Stato di emergenza sanitaria, “per essere stata emessa in violazione dell’art. 78” (della Costituzione). Come scrive la giudice Manuali, “tra i poteri del Consiglio dei Ministri non rientra quello di dichiarare lo Stato di emergenza sanitaria“, che spetta invece al Parlamento.
È questo il punto centrale su cui si basa la sentenza del Tribunale di Pisa, da cui conseguirebbe l’illegittimità dei Dpcmdel governo Conte, almeno i primi firmati nel marzo del 2020. “A fronte della illegittimità della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, devono reputarsi illegittimi tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”.
Tra questi anche il Decreto Legge n. 6 del 23 febbraio 2020, sulla cui base sono stati emessi i Dpcm, che conferiva “ampi poteri e con delega generica al Presidente del Consiglio”. Al premier, rimarca il giudice onorario, veniva così “delegato il potere di attuare misure restrittive, molto ampio e senza indicazione di alcun limite, nemmeno temporale, con compressione di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, quali la libertà di movimento e di riunione; il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, anche in forma associata; il diritto alla scuola; e il diritto alla libertà di impresa“.
“Tutto ciò non con legge ordinaria, ma con un decreto del Presidente del Consiglio”, che in quanto atto amministrativo non può comprimere diritti garantiti da quella sezione della Carta che non potrebbe essere modificata nemmeno con la procedura di revisione costituzionale prevista in Parlamento.
Inoltre, sottolinea la sentenza in relazione all’inviolabilità della libertà personale come sancita dall’art. 13 della Costituzione citando eminenti costituzionalisti e altri tribunali intervenuti sul tema, “l’obbligo di permanenza domiciliare”, che “configura una fattispecie restrittiva della libertà personale”, “può essere irrogata solo dal Giudice con atto motivato nei confronti di uno specifico soggetto, sempre in forza di una legge che preveda casi e modi”.
Non solo. In quanto atto amministrativo, i Dpcm dovevano anche essere motivati in maniera specifica e non con generici richiami ad altri atti (per lo più non consultabili), come previsto dalla Legge n. 241/1990, secondo cui “la motivazione (di ogni atto amministrativo – ndr) deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze di un’istruttoria”.
Il Tribunale ha sì riconosciuto la validità della motivazione dei decreti firmati da Conte, che si richiamavano però solo in modo generico ai verbali del Comitato tecnico-scientifico (Cts), che lo stesso governo aveva secretato. “In sostanza, è stata posta in essere tutta una situazione che di fatto non ha consentito la disponibilità stessa degli atti di riferimento, posti a base del provvedimento, con consequenziale invalidità dello stesso”.
Insomma, secondo Manuali, i Dpcm dell’8 e 9 marzo 2020 sono illegittimi perché non adeguatamente motivati e poiché solo il Parlamento (e non il Governo né tantomeno il Presidente del Consiglio) poteva proclamare lo Stato di emergenza sanitaria e soltanto l’autorità giudiziaria poteva imporre limitazioni così stringenti ai diritti dei cittadini.
Ovviamente, la sentenza non avrà effetti sui provvedimenti adottati e sui successivi, non essendo in vigore in Italia un regime di common law, in cui vige il principio di stare decisis per cui i precedenti giudiziari risultano vincolanti e operano come fonte di diritto.