“Ho scelto io di chiamarmi Mazen, quando mi sono riappropriato di me. Questa parola, in arabo, ha vari significati, ma indica anche la prima pioggia che bagna il deserto”. Trentun anni e un italiano quasi perfetto, Mazen si accende una sigaretta dopo l’altra mentre racconta la sua storia: intersessuale transgender, è oggi considerato un punto di riferimento per gli attivisti transfemministi di Bologna, pur essendo in Italia da soli cinque anni.
Nato a Tripoli, in Libia, per anni ha militato per i diritti civili nel suo Paese. Dopo vari arresti e “troppi compagni assassinati”, nel 2015, è costretto a fuggire. Nascosto sotto un pesante burqa, scappa in Egitto. Poi, arriva in Italia dove, nel 2017, ottiene la protezione internazionale.
“Quando mi chiedono di parlare di transfemminismo – dice Mazen – non posso che raccontare anche la mia storia. Alla nascita mi è stato attribuito il sesso femminile. Quando a 13 anni non mi cresceva il seno, mi hanno costretto ad assumere ormoni femminili. Solo in seguito sono stato libero di essere chi ero. Una transizione inversa, in parte avvenuta anche qui in Italia, dove mi sono sottoposto ad alcune operazioni. Nel mezzo, ci sono stati abusi, violenze e lunghi periodi nelle carceri libiche. La mia colpa? Combattere il patriarcato e pretendere il rispetto che merito come essere umano”.
Abbattere il patriarcato. Rovesciare il sistema eterosessista. Per alcuni giovani millennial si tratta di slogan da far stampare su una maglietta, per i transfemministi è invece una ragione di vita. Troppo spesso grossolanamente confuso con altri movimenti o semplicemente ignorato dai media, il transfemminismo è un fenomeno che riprende e sostiene molte delle classiche istanze del femminismo. Tra queste, quelle sul controllo del corpo e sulla violenza di genere, che estende anche a persone LGBTQI+.
Il risultato è una militanza portata avanti da un gruppo misto e che, spesso, diventa una parte inscindibile del femminismo stesso, configurandosi come uno dei nuovi femminismi. Due movimenti che viaggiano in parallelo, individuando nella società patriarcale l’origine tanto della violenza contro le donne quanto contro i membri della comunità LGBTQI+. Un’alleanza sancita anche dal manifesto di “Non una di meno“, il principale movimento femminista italiano.
Ma se c’è chi guarda al transfemminismo e al femminismo come a due facce della stessa medaglia, c’è anche chi rifiuta questo accostamento. “Alcune femministe – afferma Mazen – escludono le persone transgender dalla loro lotta e accusano le persone trans di godere comunque di privilegi maschili. Che dire? Queste femministe sono in realtà delle grandi maschiliste!”.
Gli attivisti transfemministi le definiscono TERF (trans exclusionary radical feminists). Si tratta di femministe che, di fatto, rifiutano in tutto o in parte il concetto di intersezionalità, ossia l’idea che le identità sociali e, di conseguenza, le diverse discriminazioni siano tra loro sovrapposte e connesse. Inoltre, accusano le persone transgender di rubare spazio alle “vere donne”. Un’espressione con cui loro includono solo persone cui il sesso femminile è stato attribuito alla nascita.
“Certo, la presenza delle Terf ha rallentato la lotta, ma ci ha anche dato il vantaggio di riflettere su alcune nostre mancanze. Quest’ostacolo permette agli attivisti di fermarsi a riflettere, sviluppare le proprie ragioni in modo più razionale, approfondire, esplorare e, infine, essere più forti “. A parlare è Porpora Marcasciano, figura storica di riferimento del movimento transfemminista in Italia. Presidente del MIT (Movimento Identità Trans), non ricorda il momento esatto in cui è diventata attivista. Forse lo era già sin da bambina, in quel paesino della provincia beneventana da cui è andata via per arrivare a Napoli, Roma e poi Bologna.
Ma a chi pensa che l’attivismo significhi semplicemente far parte di un’associazione si rivolge in modo molto brusco: “Molte associazioni italiane dovrebbero fare un mea culpa. A partire dagli anni ‘80, hanno delegato la lotta ai politici, portandola in Parlamento. Questo, insieme all’influenza della Chiesa, ha messo nell’ombra temi importanti, connessi all’ambito dei diritti umani. E, infatti, al momento non abbiamo alcuna tutela contro l’omotransfobia“.
Non è un caso, sostiene Porpora, se l’Italia è al primo posto in Europa per omicidi a sfondo transfobico. Secondo il Trans Murder Monitoring, sono 42 i casi avvenuti tra il 2008 e il settembre 2020. Un dato enormemente sottostimato, in quanto tiene conto solo dei casi registrati, ossia che assumono un certo clamore nazionale. Molte volte, infatti, gli omicidi a sfondo transfobico cadono in un dimenticatoio generale e non è possibile nemmeno averne conoscenza per poi conteggiarli.
Numeri allarmanti, ma che appaiono addirittura esigui se paragonati a quelli di altre zone del pianeta: nello stesso periodo, gli omicidi a sfondo transfobico registrati negli Stati Uniti sono stati 271, in Brasile 1.520. Una strage silenziosa che è imputabile all’assenza di una tutela legislativa per le persone transgender, ma anche alla mancanza di cultura e informazione.
Ne sono convinte Carmen e Ottavia, attiviste transfemministe, che si raccontano su Skype in collegamento dalla loro casa di Paestum. “Dove sono cresciuta, non c’erano libri né molte storie da raccontare che non fossero di degrado”. Carmen Ferrara, 26 anni, è una persona non binaria, ossia non si riconosce nella classica distinzione tra uomo e donna. Nata e cresciuta nelle case popolari di Pollena Trocchia, in provincia di Napoli, racconta di aver subito, da adolescente, violenze sessuali e di aver trovato nell’attivismo il proprio riscatto.
“Presentazioni di libri, musica e cultura mi hanno fatto conoscere un mondo nuovo – racconta Carmen – Un mondo in cui, se ti informi e conosci, non puoi che lottare per la parità. È un istinto, un atto naturale. Purtroppo, in Italia, molti movimenti si sono imborghesiti, perdendo di vista alcuni obiettivi fondamentali. Se da un lato le persone trans vengono discriminate da alcune femministe, dall’altro vengono spesso lasciate indietro da un movimento LGBTQI+ di fatto dominato dalla categoria di “uomo bianco gay”. “Anche in questo c’è del patriarcato“.
Oggi, Carmen è una dottoranda di ricerca in Gender Studies, studi di genere. Ritiene di aver compreso l’importanza dell’intersezionalità quando, cinque anni fa, ha svolto il servizio civile in un centro di accoglienza per migranti. “E poi – soggiunge Carmen – proprio quando loro mi chiedevano se fossi donna o uomo, mi sono resa conto di quanto fosse importante comunicare con parole semplici le questioni di genere”.
La sua compagna, Ottavia Voza, è una donna trans. Si dichiara femminista da sempre, anche da prima di intraprendere il suo percorso di transizione, a 45 anni. Oggi, che di anni ne ha 58, continua a portare avanti un indomito transfemminismo. “Sono genitore di due figli, architetta, ambientalista, attivista LGBTQI+, transfemminista. Oggi – afferma Ottavia – assistiamo alla formazione una serie di compartimenti stagni che separano la lotta, diversificandola e indebolendola”.
Mentre si aprono una birra e chiudono la chiamata su Skype, Carmen e Ottavia si preparano a passare l’ennesima domenica insieme. Una giornata di riposo, prima di riprendere la loro vita fatta di lavoro e attivismo. Come Porpora e Mazen, fanno parte di quella categoria di attivisti, transfemministi che lottano per i diritti di tutte le minoranze, nel solco di un’intersezionalità che avvicina le lotte in un’unica lotta.
A chi li esclude, sostenendo che le loro discriminazioni non hanno nulla a che vedere con la violenza patriarcale o insistendo su un attivismo diviso per categorie, rispondono con le loro storie fatte di migrazioni, transizioni, fluidità, riscatto e inclusione. Per combattere, come hanno dichiarato tutti in queste interviste, hanno soltanto le loro vite precedenti e il sogno di un’inclusione che non li abbandona: “Noi attivisti combattiamo indossando l’armatura del nostro passato”.
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