Lascio volentieri ai giudici genovesi – la procura della Repubblica, il gip Faggioni e il tribunale penale qualora l’inchiesta su Toti & C sfociasse nel processo – il compito invero delicatissimo di sbrogliare la matassa giudiziaria aperta dall’arresto del presidente della Regione Liguria e dai suoi sodali. Mi sforzo di non ascoltare la consueta babele pelosa di commenti a vanvera; i politici terrorizzati dal lavoro di legalità della magistratura, che si baloccano con “la giustizia ad orologeria” e omettono di domandarsi come e perché il Sistema non riesca ad emendarsi dai vizi che hanno segnato la vita della presunta democrazia italiana, traghettando il metodo Tangentopoli dalla Prima alla Seconda fino alla Terza Repubblica in gestazione e già avvelenata da morbi antichi.
Sorvolo per carità di patria sul florilegio di scempiaggini lette e ascoltate anche da soggetti che per formazione professionale dovrebbero conoscere i meccanismi della giustizia italiana che – lo dico en passant – è tra le più garantiste del pianeta. Troppi orecchianti strologano mostrando una colossale e irredimibile ignoranza delle cose di legge. Pazienza se gli strafalcioni arrivano da gente palesemente digiuna di procedura penale, ma quando un ex Pm, inopinatamente nominato ministro della Giustizia, si dice “perplesso” senza aver preso visione del lavoro degli ex colleghi genovesi (l’ordinanza di quasi 700 pagine firmata dal gip Faggioni) si configura un’indebita invasione di campo della politica sul terreno riservato alla giurisdizione. Nel merito, l’inchiesta è vecchia di quasi quattro anni, il che dissipa il sospetto che sia stata regolata sui tempi, peraltro sempre serratissimi, della politica.
Preferisco dunque prendere spunto dagli eventi genovesi e ragionare su un paio di temi generali, delicati e dirimenti rispetto al buon funzionamento della Cosa pubblica e dei corretti rapporti fra i poteri dello Stato.
Il primo aspetto chiama in causa la volontà politica del governo in carica, ripetutamente segnalata dai provvedimenti già assunti e da quelli annunciati, di tagliare le unghie alla magistratura e assicurare, ope legis, la sostanziale impunità a colletti bianchi, funzionari e amministratori pubblici, imprenditori disonesti e in ultima analisi alla Casta politica che sventuratamente sgoverna questo Paese che si fa fatica a chiamare col suo nome.
Le “riforme” della Giustizia, inaugurate con la cervellotica legge Cartabia, benedetta dall’allora premier Mario Draghi – un santino che anche parte della sedicente sinistra rimpiange e vorrebbe nuovamente portare in processione, magari in Europa – avevano già vibrato il primo colpo. L’improcedibilità del processo di appello trascorso invano un certo periodo di tempo è una perla (nera) del diritto degna di figurare negli annali della Giustizia ingiusta. Il volenteroso Guardasigilli Nordio, tenuto per mano dalla premier Meloni, promette di superare l’insuperabile. Il progetto di separazione delle carriere, abbozzato da Cartabia, la disarticolazione del Csm, che verrebbe sdoppiato e ricomposto con un maggior numero di membri laici; l’istituzione di un organo “terzo” (composto come?) vigilante sull’attività dei giudici, la pretesa di sottoporre gli aspiranti magistrati ad esami attitudinali (condotti da chi? Con quali standard? Con quali finalità?); e dulcis in fundo (o meglio in cauda venenum) una severa limitazione delle intercettazioni (che guarda caso offrono l’ossatura accusatoria dell’inchiesta su Toti & C) condite con una serie di norme paradossali palesemente dirette ad impastoiare l’attività giurisdizionale. Un impianto che se approvato in queste forme, metterebbe di fatto il bavaglio alla magistratura.
Il tema della Giustizia, sul quale il defunto Silvio Berlusconi si ruppe ripetutamente il capo, è diventato per Meloni la stella polare delle riforme, sulla via maestra che vorrebbe condurre l’Italia ad un cambiamento della Costituzione che assomiglia in realtà al suo scardinamento dalle radici. Cito tra l’altro, l’elezione diretta del premier, investito di superpoteri tra i quali lo scioglimento delle Camere e il limite di un secondo governo “politico” (guai ai tecnici!) purché con un presidente del Consiglio pescato all’interno della medesima maggioranza ma abilitato a scegliersi eventualmente altri e diversi compagni di viaggio; la figura del Capo dello Stato depotenziata e ridotta alla stregua di un inerme notariato. Un guazzabuglio indigeribile di norme sovversive e assurde che richiamano nel loro senso profondo, e superano per radicalismo, persino il temerario tentativo del fu Matteo Renzi, che la testa e la premiership la perdette rovinosamente (per lui) col referendum confermativo del 2016.
Detto che a questo sovvertimento istituzionale e alla riforma tagliagambe della magistratura, alla maggioranza della Trimurti (FdI, FI e Lega) si sono entusiasticamente uniti i fratelli separati in culla e rimasti a presidiare, facendosi l’un l’altro il viso dell’arme, il fantomatico e irrilevante centrino (parlo di Renzi e Calenda) non resta che scivolare verso il secondo argomento. Ovvero le conseguenze “politiche” del terremoto Toti e le ricadute sul quadro politico, in particolare il rimbalzo inevitabile e potenzialmente rovinoso sull’attività amministrativa della Regione Liguria. Il PNRR rovescia sulla Liguria 12 miliardi di euro (sette sulla sola città di Genova) da investire e spendere, auspicabilmente bene, entro il 2026. Il normale buonsenso suggerisce a Toti di rassegnare le dimissioni e ridare così agibilità piena all’attività amministrativa ligure. A maggior ragione poiché il governatore finito ai domiciliari rivendica il proprio operato esclusivamente indirizzato, cito, “al bene della Liguria”. La paralisi politica metterebbe a repentaglio opere colossali, avviate sotto la regia incrociata di regione e comune di Genova (il sindaco Bucci non è indagato ma verrà ascoltato come testimone). Il tunnel subportuale (un miliardo di euro), la megadiga foranea (un miliardo e rotti e costi previsti a salire) che dovrebbe cambiare il volto del porto genovese, aprendolo alle maxi portacontainer (delle quali Aponte è il re indiscusso); lo Sky Metro in Valbisagno, la funivia per forte Begato, opere di fortissimo impatto ambientale contestate dai residenti e altri interventi relativi alla viabilità (Terzo Valico, Gronda di ponente, metro urbano), nonché una pletora di operazioni immobiliari (alcune finite nell’inchiesta) destinate a cambiar faccia alla regione e al suo capoluogo. A Toti, fino a ieri riverito (anche troppo, a leggere le carte dell’inchiesta…) dal milieu e dall’intellighenzia cittadine, applaudito anche per trovate oltre la goliardia (il maxi mortaio galleggiante mandato a promuovere il pesto sul Tamigi, costo un milione di euro) andrebbero contestate scelte di pura natura politica: tipo i 13 milioni spesi per “comunicazione istituzionale”, compresi robusti pacchetti di pubblicità a tv e giornali locali, un abominio passato sotto silenzio, se non fosse stato denunciato in solitudine, nel disinteresse generale delle forze politiche – opposizione ovviamente compresa – dal consigliere Ferruccio Sansa, sbeffeggiato e accusato di fare il don Chisciotte.
Con queste premesse la scelta del successore di Toti nel centrodestra non suscita entusiasmi bensì grattacapi e dubbi. Claudio Scajola, l’intramontabile, si è già chiamato fuori e lo stesso ha fatto con tempismo sospetto Edoardo Rixi, braccio destro di Salvini e regista romano delle grandi opere liguri. I nomi circolati (Rosso, Ferro, Nicolò) provocano alzate di spalle e fenomeni di orticaria. Non sta meglio il centrosinistra alle prese con i consueti dilanianti distinguo. Il nome di Andrea Orlando sembra il più papabile nonostante l’interessato non muoia dalla voglia di cimentarsi in un’impresa – strappare la regione al centrodestra – che in altri tempi sarebbe stata agevole. In altri tempi appunto. Negli ultimi dieci anni in Liguria c’è stato il grande ribaltone. La sconfitta di Raffaella Paita, opposta ad un Toti incredulo di fronte alla inopinata vittoria alle urne, aveva aperto la grande falla. Una dopo l’altra le città capoluogo erano cadute in braccio alla destra. Nel ‘21 Savona era tornata all’ovile del centrosinistra grazie alla vittoria di Marco Russo. Il più resta da fare. Il terremoto. Toti rimette tutti gli equilibri in discussione. Si cerca disperatamente, a destra come a sinistra, una personalità indigena in grado di impugnare la verga del comando. L’ex ministro e governatore del Pd, Claudio Burlando, ci aveva fatto credere di essersi autoesiliato in collina, estraneo ai giochi della politica. Senonché ultimamente era stato avvistato nuovamente in silente ma piena attività e indovinate un po’? Con la sua aria sorniona aveva gravitato attorno al nemico storico, proprio quel Giovanni Toti che lui, Burlando, mentore all’epoca della giovane e sconfitta Paita (oggi renziana di ferro, premiata col laticlavio), aveva inavvertitamente proiettato al vertice della regione Liguria. Anno di disgrazia 2015.