La spesa per l’istruzione in Italia è più bassa della spesa per il debito
Siamo gli ultimi della classe. La spesa pubblica italiana per l’istruzione, infatti, è tra le più basse dell’Ue. Il nostro paese spende 67,4 miliardi di euro, pari al 4,1 per cento del Pil e all’8,1 per cento della spesa pubblica, per l’educazione dei suoi cittadini.
Impossibile non dare ragione all’ormai ex ministro Lorenzo Fioramonti sulla richiesta dei “tre miliardi” e, in particolare, un miliardo di euro per università e ricerca. Nelle Leggi di bilancio italiane la voce università è povera da anni. Lo stesso governo Renzi, che pure mise tre miliardi sulla scuola, non portò a termine il programma sull’alta formazione.
Spesa per l’istruzione: l’Italia comparata agli altri Stati Ue
Scattata dalla Commissione Europea, l’immagine, intitolata “Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione Italia”, delinea uno Stato lontano dagli standard europei e inerme di fronte alla costante emorragia del settore scolastico.
In Germania per esempio si spende il 4,5 per cento del Pil e il 10,3 per cento della spesa pubblica nel settore dell’istruzione, in Francia 5,5, e 9,7, in Inghilterra 5,7 e 13,1, in Spagna 4,2 e 9,5. A prestare meno attenzione all’educazione dei propri cittadini rispetto all’Italia è solo la Grecia e alcuni dei paesi dell’Est Europa.
I dati sono preoccupanti. Tra le ferite aperte, oltretutto, ci sono gli abbandoni scolastici dei giovani dai 18 ai 24 anni: nel 2017 la quota è superiore di 4 punti percentuale alla media Ue (14 per cento contro il 10,6 per cento). Ma a preoccupare maggiormente sono il numero degli studenti che conseguono un diploma d’istruzione terziaria, il 26,9 per cento contro una media europea del 39,9 per cento.
Insomma, l’Italia ha una serio problema di educazione e Bruxelles, anche in questo frangente, non può fare a meno di bacchettarci. La specifica dell’ultimo semestre 2018 da parte del Consiglio europeo lascia poco spazio all’immaginazione: l’Italia dovrebbe “promuovere la ricerca, l’innovazione, le competenze digitali e le infrastrutture mediante investimenti meglio mirati e accrescere la partecipazione all’istruzione terziaria professionalizzante”.
Precari per sempre?
Uno studio della Flc-Cgil sottolinea che con 1.500 milioni si potrebbe programmare l’assunzione di ventimila precari. Oggi il 55 per cento della didattica e della ricerca universitarie poggia sulle spalle di chi non ha un contratto a tempo determinato.
Fioramonti, anche in tempi non sospetti, da viceministro, voleva costruire un percorso più organico e certo per l’accesso alla cattedra: con l’addio la questione resterà ruggine di fondo per mesi ancora. Dalla Legge Gelmini (2010) il numero dei docenti strutturati è diminuito del 25 per cento: negli atenei italiani oggi l’insegnamento è affidato a 50.020 tra ordinari e associati, a 63.244 “determinati”.
Tra l’altro, anche per chi non è precario, gli stipendi non sono certo da capogiro. Gli insegnanti italiani vengono pagati meno dei colleghi, sia a livello europeo che internazionale. Secondo l’Ocse, gli aumenti contrattuali dei docenti nella scuola pre-primaria fino alla scuola secondaria nel settore pubblico sono diminuite costantemente tra il 2010 e il 2018 (nel 2018 gli stipendi degli insegnanti corrispondevano al 93 per cento del loro valore rispetto al 2005).
Il nodo dell’abbandono scolastico
Ma i problemi non finiscono qui. L’Italia e il governo giallorosso sono alle prese con uno dei maggiori spasmi del sistema educativo della storia. La popolazione studentesca, sulla base delle previsioni fatte da Eurostat, dovrebbe ridursi di 1 milione di unità nei prossimi dieci anni, passando dagli attuali 9 milioni a 8 nel 2028 (la causa è da ricercarsi nella diminuzione dei tassi di fertilità nel paese, accompagnata dalla netta riduzione degli afflussi migratori internazionali).
Il calo dello studentato porterebbe alla perdita di oltre 50mila posti di insegnamento, con la conseguente riduzione della mobilità e del tasso di rotazione degli insegnamenti. Urge pertanto una riforma scolastica in grado di evitare questo scenario.
Dopo le elezioni del marzo 2018 è stata rivista la riforma renziana della “Buona Scuola”, con particolare attenzione per le deroghe successive alle norme più severe sulla mobilità introdotte da quest’ultima (un periodo obbligatorio di tre anni per gli insegnanti di nuova nomina prima di poter chiedere il trasferimento) che hanno intensificato la rotazione degli insegnanti.
Questa licenza infatti, se non disinnescata, rischia di scatenare un cortocircuito se combinata con le previsioni Eurostat, non contando inoltre la frattura interna creata in questi due anni di attività. La rotazione ha determinato una carenza di insegnanti al nord in favore di una migrazione verso le strutture del sud Italia. Negli ultimi tre anni quasi 240 000 insegnanti su 819 000 hanno cambiato scuola o zona geografica (un tasso di rotazione del 29 per cento), segnando come preferenze le regioni meridionali.
Lo squilibrio geografico è frutto del fatto che la maggior parte degli insegnanti proviene dal sud, mentre la maggior parte dei posti di insegnamento è disponibile al nord, oltre alla mancata attuazione della norma che avrebbe consentito ai dirigenti di assumere gli insegnanti direttamente in base alle esigenze delle scuole (per “chiamata diretta”), abolita a giugno 2018 e in grado forse di alleggerire il gap.
Laurearsi e non avere lavoro: un problema tutto italiano
A chiudere il cerchio della “malaistruzione” nostrana sono i risultati di apprendimento e il tasso di occupazione dei neodiplomati.
Se i Neet sono ormai una costante di quasi tutti i discorsi del settore – nonostante nel 2017 circa un quinto degli italiani di età compresa tra 15 e 24 anni non aveva un lavoro né seguiva un percorso scolastico o formativo e quella del Bel Paese è di gran lunga la percentuale più alta dell’Ue – il problema dell’apprendimento è emerso con violenza dopo l’ultimo ciclo di test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione).
Al sud il numero di studenti con scarsi risultati in italiano, matematica e inglese nel terzo anno di scuola secondaria di primo grado è più elevato rispetto al nord (45 per cento contro 28 per cento in italiano, 54 per cento contro 32 per cento in matematica, 67 per cento contro 30 per cento in inglese).
La grammatica di questi risultati è viziata da un sistema d’istruzione che al sud sembra essere meno equo rispetto al resto d’Italia: sono molte infatti le differenze tra le scuole, a livello primario, e molto spesso tra le classi della stessa scuola, quasi a voler evidenziare una tendenza a raggruppare fin dall’inizio gli studenti meno capaci in classi separate.
Sul versante lavoro, il tasso di occupazione dei neodiplomati dell’istruzione terziaria è in aumento. Finalmente un dato positivo, vien da pensare. Non del tutto. La percentuale infatti rimane al di sotto dei livelli pre-crisi: nel 2017 il tasso di occupazione dei neodiplomati dell’istruzione terziaria nella fascia di età 25-29 anni era del 54,5 per cento, rispetto alla media Ue dell’81,5 per cento.
C’è crisi? Si taglia sull’istruzione
Con la crisi iniziata nel 2008, la pressione sui bilanci pubblici è andata a pesare tutta sulla scuola.
Quello dell’istruzione è il ministero più bistrattato, i fondi universitari sono in ristrettezze economiche e se c’è da tagliare, come ha detto Fioramonti prima di dimettersi, si taglia sempre sull’educazione. Non ci lamentiamo poi se i nostri migliori cervelli sono in fuga. Al momento siamo gli ultimi della classe ed è quello che ci meritiamo.