Scontri Genova | “Siamo ancora in clima G8”: parla a TPI Enrico Zucca, sostituto procuratore di Genova
Scontri Genova – Con i fatti di Genova di giovedì 23 maggio si è tornato a parlare di violenza bruta da parte della polizia contro innocenti e manifestanti. In una città, Genova appunto, in cui questa parola – violenza – rimane ancora oggi una macchia indelebile.
Il sostituto procuratore Enrico Zucca, che in passato ha indagato sulle violenze delle forze dell’ordine durante il G8 del 2001, ci ha aiutato a comprendere meglio il clima che si respira in città, e più in generale oggi nel nostro paese, commentando a TPI i violenti scontri tra polizia e manifestanti in occasione del comizio di CasaPound.
D. “Scontri violenti in città. Una lista di venti agenti di polizia, almeno 5 coinvolti. E un cronista picchiato malamente, ridotto peggio. Ci risiamo?”
R. “Parliamoci chiaro: l’Italia, i suoi governi tutti e suoi ministri, si rifiutano di applicare quella misura elementare che è stata indicata dal primo codice etico per le forze di polizia, approvato dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa già all’indomani del G8 di Genoa, ossia il cosiddetto codice identificativo per gli agenti in divisa in servizio di ordine pubblico, la quale serve a identificare e a responsabilizzare, soprattutto, gli stessi agenti.
Il parlamento europeo, ancor più di recente, ha adottato una risoluzione nel 2012 esortando gli stati ad adottare una misura di questo tipo. Amnesty International ne ha fatto oggetto di una campagna speciale, che mai poteva essere così attuale, dopo questi nuovi fatti di cronaca.
Che altro? Anche la Corte europea dei diritto dell’uomo ritiene il codice identificativo uno strumento utile e indispensabile. E tuttavia in Italia non viene applicato”.
D. “Ma perché?”
R. “Ah, bella domanda. Pensi al caso del suo collega, il giornalista Lorenzo Guadagnucci, torturato alla Diaz, a cui nessuno ha mai chiesto scusa.
Aveva fatto scalpore, tempo fa, un suo intervento volto a chiedere l’introduzione dei codici identificativi, cui aveva anche allegato una fotografia che ritraeva poliziotti in Turchia con il codice identificativo sulla divisa.
In quella foto il poliziotto ritratto aveva coperto il codice con un nastro, che però si era staccato. Il sotterfugio non era bastato… Quell’immagine serviva a dimostrare due cose.
La prima che, anche in una nazione dove la tutela dei diritti umani è altamente problematica, la polizia ha accettato una simile disposizione e l’altra è che la necessità di coprire il codice dimostra che il poliziotto sa quando vuole eccedere i limiti. Ed è in quel numerino che sta la sua responsabilità.
D. “Ma chi è che si oppone ai codici identificativi?”
R. “Ogni corpo di polizia reagisce chiudendosi a riccio di fronte a misure che sembrano punitive. Ma questo atteggiamento non è altro che il rifiuto alla trasparenza di comportamenti devianti che sono di pochi, ma che contano sulla solidarietà e l’omertà di molti. Anche l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti non era riuscito a proporre che l’introduzione di un codice di reparto.
Una dimostrazione di scarsa volontà politica e di impotenza, perché il codice di reparto è – considerata la realtà dei casi, primi fra tutti quelli del G8 – una misura apparente e inutile oltre che di rinuncia al promuovimento di una immagine diversa della polizia e al suo rapporto con un’etica di responsabilità che avrebbe dovuto essere incoraggiata. Nessun poliziotto teme il codice se non quelli che lo coprirebbero alla bisogna.
D. “La procura ha aperto un’indagine dopo gli scontri di Genova. Con la collaborazione della Questura … ”
R. “Questa domanda non ha alternative, nella risposta. Assegnare l’indagine allo stesso corpo di appartenenza degli agenti sospettati di abusi è in contrasto con i criteri che la CEDU ha stabilito per assicurare una indagine imparziale.
La Corte di Strasburgo lo ha sostenuto specificamente anche in una condanna contro lo stato italiano, osservando che non basta nemmeno una sola istituzione di garanzia come il PM italiano, che certamente gode di uno statuto di indipendenza e autonomia, per garantire imparzialità di indagine (il caso Alikay contro Italia, 2011).
In Italia lo stesso PM può compiere personalmente gli atti di indagine e può soprattutto avvalersi di una polizia giudiziaria distaccata presso la procura stessa”.
D. “E allora?”
R. “Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i maltrattamenti in uno dei suoi periodici rapporti aveva già dal 2010 raccomandato l’istituzione di un servizio specializzato sotto la direzione della procura della Repubblica ‘per la trattazione di ogni denuncia di maltrattamento da parte delle forze dell’ordine’.
Esortazione rimasta lettera morta ma che è la risposta all’esigenza di cui si discute. Tra l’altro ciò aiuterebbe anche il pubblico ministero a superare inevitabili situazioni di conflitto di interessi nel caso di indagini nei confronti della polizia con cui si collabora”.
D. “Oggi però c’è un invito a presentarsi spontaneamente dai magistrati…”
R. “Guardi: o qui cade il muro di omertà che non è mai caduto in precedenti occasioni, e la polizia stessa diviene artefice del proprio riscatto, oppure rimane così com’è: violenza impunita. C’è un evidente richiamo al G8 e i problemi sono sempre gli stessi”.
D. “Quali?”
R. “Il questore (di Genova, ndr) che parla di “ostaggi” ricorda il frasario della Diaz, in cui i funzionari parlavano di fare “prigionieri” riferendosi anche loro agli arrestati. Ebbene, cosa nasconde questa mentalità che ancora resiste all’interno della polizia? È la logica della contrapposizione e del nemico.
E un confronto fisico, che invece è da evitare. La logica dello schieramento: quelli sono violenti, certo, è vero, ma lo stato usi la forza, non la violenza. La divisa fa la differenza”.
D. “Giusto. Come si fa?”
R. “Il vero eroismo è quello di non lasciarsi andare alla forza bruta ma dimostrare l’autorità, anche solo non reagendo ma contenendo. E per farlo, sì, è vero, bisogna essere un po’ eroi. E non vigliacchi, a manganellare persone ormai inermi e a terra. La vera svolta può venire dall’interno del corpo di polizia e dal sentirsi Stato anche quando non si reagisce allo stesso modo di chi manifesta la sua impotenza con la violenza senza senso”.
D. “Anche la magistratura a volte è violenta”
R. “Non si tratta di bon ton istituzionale affidare o meno l’indagine alla polizia stessa. L’indagine contro gli abusi serve a garantire le istituzioni, e non a delegittimarle. Sarebbe l’ora che anche i magistrati smettessero di considerare le indicazioni della Corte Europea come inutili orpelli.
Invece che parlare di convenzioni nei convegni e sulle riviste, sarebbe opportuno che le facessero vivere nella pratica, e con fatti concreti, anche a rischio di impopolarità. Così aiuterebbero la fermezza anche all’interno della forza di polizia”.