Salvini non è finito, i numeri che dimostrano
All’indomani della nascita del governo Conte bis l’unico grande sconfitto sembra Matteo Salvini. Lo ha ammesso lui stesso, in una delle tante dirette Facebook, ricorrendo a una metafora calcistica: “Il Pd è in vantaggio 1-0 sulla Lega e sull’Italia”. Ma – ha aggiunto – “segnando con un rigore inesistente”. Ovvero, ha approfittato del colpo di sole preso al Papeete Beach, dove, in prossimità di Ferragosto, fra un mojito e un attacco all’ex alleato Luigi Di Maio, il leader del Carroccio dichiarava la sfiducia al Presidente del Consiglio.
Appena si è presentata l’opportunità, il centrosinistra ha deciso di turarsi il naso raggiungendo un’intesa con gli stessi Cinque Stelle che, fino a pochi giorni prima, lo incolpavano dei fatti di Bibbiano. Non a caso, l’ormai ex Matteo Renzi, ora a capo di Italia Viva, ha parlato di “un’operazione difficilissima” in cui si è impegnato con tutte le forze per mandare all’opposizione quel Salvini che “sembrava invincibile” e che “ora uscirà dalla scena politica”. Anche Maria Elena Boschi ha attaccato l’ex ministro dell’Interno, definendolo un politico “imbalsamato e fuori dai giochi”. Le ha
fatto eco il segretario del Pd Nicola Zingaretti, secondo cui la caduta del governo Lega-M5S ha chiuso la stagione dell’odio e ha aperto quella della politica e della speranza.
Ma la realtà è molto diversa da questi commenti trionfalistici. A rivelarlo il sondaggio Ipsos pubblicato sul Corriere della Sera, secondo cui il 45 per cento degli elettori crede che il nuovo esecutivo durerà pochi mesi, al massimo un anno. Questo dato è altresì confermato dall’indagine di Demos per la Repubblica, che mostra come il governo giallorosso abbia un indice di fiducia pari al solo 44 per cento. La maggioranza, infatti, preferirebbe le urne, dove, con la Lega al 34,9 per cento, Fdi al 7,9 per cento e Fi al 5,1 per cento, sarebbe semplice intuire il vincitore.
Nonostante l’enorme errore di dichiarare la crisi di governo, fidandosi per giunta dei suoi stessi avversari, il “Capitano” gode ancora della simpatia del popolo. Non è affatto un politico finito e, potremmo giurarci, in questi mesi cercherà di aumentare il proprio consenso elettorale nel modo che meglio gli riesce, cioè diffondendo, in televisione o a colpi di clic, false notizie sul nuovo esecutivo. Le occasioni, fino ad oggi, non sono certo mancate: stando ai dati pubblicati da Agcom e riferiti al mese di luglio, il leader milanese è stato trasmesso nei servizi dei telegiornali più di tutti gli altri esponenti politici.
Questa notizia potrebbe sembrare innocua se non si guardassero i numeri, davvero impietosi, delle sette reti generaliste, che hanno spinto alcuni a parlare di una “salvinizzazione” della televisione. A Salvini, infatti, sono stati concessi 225 minuti circa, due volte e mezzo quanto dato a Di Maio (93 minuti) e più del quadruplo di Zingaretti (53 minuti). Gli si avvicina Conte, con 146 minuti, che però ricopriva un ruolo più importante, quello di premier.
Alla ubiquità televisiva si affianca quella sul web, dove Salvini – o meglio, il suo social media manager Luca Morisi, definito “la Bestia” – diffonde fake news, come quelle sui contatti fra scafisti e Ong, sugli immigrati e sull’Islam, o video totalmente decontestualizzati. Ne è un esempio quello diffuso il 21 agosto, il giorno successivo l’invettiva di Conte in Senato, che mostra il Presidente del Consiglio chiedere aiuto alla cancelliera tedesca Merkel per batterlo. Come spiega Bufale.net “la tempistica è tutto. Nessuno in quel frangente ha parlato di come sconfiggere Salvini, ma al più di come porre rimedio al problema riguardante la gestione del flusso dei migranti alla luce delle politiche portate avanti dal leader della Lega”.
Ciò che preoccupa – e che invece fa soffregare le mani di chi, come Morisi, gestisce questa gigantesca macchina acchiappa consenso – è la velocità con cui le false informazioni vengono diffuse. L’utente medio, rimpinzato d’odio, frustrato dalle scarse prospettive, finisce col condividere le semplificazioni che circolano in rete. Del resto, come ha scritto l’Ariosto nel canto I del suo Orlando Furioso, “il miser suole / dar facile credenza a quel che vuole”.
Altri dati incastrano il partito di Alberto da Giussano. Secondo un’analisi di Amnesty International Italia, condotta su 100mila contenuti condivisi sul web dai diversi candidati, quelli dei leghisti catalizzano più commenti negativi, fra insulti e minacce a rifugiati (4,6 per cento), Ong (1,1 per cento), musulmani (0,9 per cento), donne (0,6 per cento) e rom (0,2 per cento). Non stupisce, ancora, che delle 23 pagine oscurate da Facebook per diffusione di informazioni false, la metà nascessero a sostegno della Lega. D’altronde, in un anno anche i fenomeni di violenza sono triplicati : erano 46 nel 2017 – quando ancora veniva rivendicata la territorialità a suon di “Prima il nord!” – sono saliti a 126 nel 2019.
Questa diffusa discriminazione ha mietuto vittime non solo fra le minoranze, certamente più colpite, ma anche presso gli intellettuali, definiti “filosofi” o “professoroni di sinistra”, contro cui l’ex ministro dell’Interno ha avviato una vera crociata. Ne è esempio la campagna social “Lui non ci sarà” dello scorso anno, in cui venivano diffuse le foto di alcuni personaggi famosi, come Saviano, Vauro o Fazio, colpevoli di non partecipare alla manifestazione romana dell’8 dicembre. La scrittrice Michela Murgia ha raccontato di aver ricevuto molte offese per via del suo fisico. Colpa, secondo lei, dei 14 mesi del governo gialloverde, che hanno promosso l’insulto da bar a linguaggio istituzionale e legittimato gli odiatori del web. Di recente, anche il giornalista Gad Lerner è stato attaccato dai militanti leghisti, che al raduno di Pontida gli hanno riservato fischi e insulti antisemiti.
Agli occhi di questi sostenitori da stadio – che intonano il coro “chi non salta comunista è”, auspicano la marcia su Roma e affermano, senza alcun imbarazzo, che “Sergio Mattarella è diventato Presidente della Repubblica perché gli hanno ammazzato il fratello” – le macerie che il precedente governo ha lasciato sembrano contare meno che niente.
A partire dal reddito di cittadinanza, voluto dai grillini ed accettato con entusiasmo dallo stesso Salvini fino alla crisi dell’esecutivo, quando per incanto è diventato una misura assistenzialistica. Quota cento, fortemente voluta dal Carroccio, ha fatto registrare numeri ampiamente sotto le attese. A causa delle rigide condizioni, le domande di pensionamento anticipato pervenute all’Inps sono calate drasticamente: se nei primi tre mesi erano, in media, 4mila giornaliere, nello scorso agosto è stato registrato un crollo del 90 per cento con sole 288 richieste. In ultimo, l’Istat ha confermato che nel secondo trimestre il Pil è risultato stazionario e che si chiuderà il 2019 con crescita zero.
Affermare che l’elettore medio della Lega è ignorante vorrebbe dire lasciarsi andare a un commento fortemente classista, privo di fondamento e piuttosto semplicistico. Lo hanno fatto già in tanti, fra opinionisti e politici, finendo per essere fagocitati dall’imperante marchingegno di propaganda de la Bestia. È altrettanto vero, però, che esiste un forte legame fra la crescita dei populismi di destra e la post-verità. E ancora, fra la post-verità e l’aumento della violenza, come ci insegna il caso della sparatoria nella pizzeria Comet Ping Pong, accusata dall’estrema destra americana di essere un covo di pedofili. Il processo tecnologico ci offre, giorno per giorno, la possibilità di interagire con un numero di dati maggiore e più velocemente rispetto al passato. A questo però non sempre si affianca la trasparenza, specie se la società non è stata educata al consumo delle informazioni online.
In Italia, in particolare, ben il 47 per cento della popolazione è colpita da analfabetismo funzionale, cioè appare incapace di comprendere ed analizzare un testo scritto. L’82 per cento, inoltre, stando al rapporto “Infosfera” dell’Università Suor Orsola Benincasa, non riesce a riconoscere una notizia vera da una falsa sulle varie piattaforme social. In questo drammatico scenario, potremmo rispolverare le parole profetiche di George Orwell, che nelle carte personali scriveva che “Presto la verità sparirà dal mondo”.
Altrove sono state approvate delle severe leggi anti-fake news. In Germania, ad esempio, la NetzDG prevede l’obbligo, per tutti i social network, di cancellare quei contenuti “evidentemente illegali o perseguibili” entro 24 ore. Per garantirne il rispetto, le autorità tedesche hanno introdotto sanzioni pesantissime, che vanno dai 5 ai 50 milioni di euro. Una legge simile è stata adottata in Francia, dove chi diffonde informazioni false rischia fino a un anno di carcere e 75mila euro di multa. Anche in Italia, tre anni fa, è stato presentato un disegno di legge, mai discusso. Le motivazioni risiedono nel timore che non riesca ad arginare il problema e che diventi, piuttosto, un pericoloso strumento di censura, con un “Ministero della Verità” pronto a discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato nell’interesse proprio. Per neutralizzare il populismo, che molti danni ancora potrebbe arrecare al popolo e alla democrazia, parafrasando il titolo del libro di Padre Sorge, il governo entrante è chiamato a discutere dell’alfabetizzazione digitale.
È necessario stimolare lo spirito critico, sempre più intorpidito, delle nuove generazioni. Proprio queste, abituate a dare risposte su base emotiva, finiscono per cadere nell’errore di votare non un’idea politica o un programma, ma un leader che affabula e che si mostra rassicurante. Come ci insegna il modello della Finlandia , il paese più resistente al fenomeno di post-verità, la cattiva informazione si combatte innanzitutto fra i banchi di scuola, attraverso corsi e lezioni specifiche che mirino ad educare gli studenti al monitoraggio delle fonti e dei dati in possesso. Saper distinguere la verità dal falso deve diventare non soltanto una competenza fondamentale, ma anche un dovere morale se si ha a cuore il futuro dell’Italia e della democrazia occidentale.
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