“Quel rimborso è stato chiesto per sbaglio!”, “La borsa griffata era una borsa portalibri!”, “Offrivo le cene per il rafforzamento con l’elettorato!”. “Mi ero dimenticato il beauty-case e dovevo vedere il papa!”. Nel leggere gli argomenti dei ricorsi in Cassazione dei vari protagonisti di “Rimborsopoli” in Piemonte, dopo le condanne in appello, non si può non ridere di gusto. Ma partiamo dall’inizio, perché tutto cominciò con le ormai famose mutande verdi che divennero il simbolo del caso giudiziario.
“Era un paio di pantaloni corti, trasformati dai giornali in mutande verdi. Uno scontrino inserito per errore nelle spese da rimborsare”, si giustificò all’epoca l’ex governatore leghista del Piemonte, Roberto Cota. La vicenda, iniziata nel 2013, coinvolse ben 52 consiglieri regionali, tutti accusati a vario titolo di aver utilizzato in modo illecito (principalmente rimborsi per spese personali) i fondi destinati ai gruppi consiliari.
L’iter giudiziario è stato travagliato: il Tribunale di primo grado ha assolto Cota e 14 consiglieri e ne ha condannati 10. In secondo grado condanna per 24 consiglieri, tra cui Cota e il sindaco di Borgosesia Paolo Tiramani. La Corte di Cassazione, in seguito ai ricorsi, ha poi deciso un nuovo giudizio di secondo grado per Cota, Tiramani, Alberto Coronassi (quest’ultimo ai tempi consigliere regionale per Forza Italia) e qualche altro consigliere. In pratica, alcuni di loro, rifaranno l’appello.
Nello specifico, delle sette motivazioni di ricorso presentate dai legali di Tiramani solo una è stata accolta, e cioè l’accusa di peculato in concorso con Mario Carossa, all’epoca capogruppo della Lega Nord. “Si torna indietro. Attendo l’appello bis sapendo che non ho commesso alcun reato”, afferma lui. Il problema è che, leggendo le motivazioni della Cassazione, è evidente che i giudici non mettono in alcun modo in discussione il fatto che i consiglieri si facessero rimborsare indebitamente qualsiasi cosa, ma piuttosto accolgono ricorsi sulle accuse di “concorso” o, in quasi tutti i casi, per altre ragioni di natura tecnica. In pratica, si appropriavano di denaro che non spettava loro, ma in alcuni casi non è detto che l’uno sapesse quello che faceva l’altro.
La lettura delle motivazioni regala momenti di notevole ilarità, perché i giudici smontano con eleganza quasi tutte le surreali, creative, acrobatiche argomentazioni del ricorso. Nel caso del consigliere Massimo Giordano (accusato di aver sottratto 14.000 euro in rimborsi) “le spese di ristorazione e pernottamento potrebbero rientrare fra quelle sostenibili per il consolidamento del gruppo con elettori e simpatizzanti, anche se sostenute per eventi non ufficiali”. In pratica, se porti a cena 12 persone al pub (come, per esempio, nel suo caso) e ti fai rimborsare la cena, stai consolidando le simpatie a colpi di Menabrea doppio malto, sei autorizzato. Anche le multe che si fece rimborsare, secondo i suoi legali, sono state “un errore di fatto” e gli arredi “sono stati riscattati”.
L’ex consigliere regionale Roberto Alfredo Tentoni, che si fece rimborsare da buffet a cene a telecamere e generatori di corrente, sostiene che fossero “cene istituzionali legate alla promozione del territorio” e che “la Corte avrebbe ignorato il contenuto di alcune testimonianze di chi disse che nell’invitarlo si era presentato in qualità di consigliere regionale e aveva portato i saluti del Consiglio stesso”. Quindi per farsi rimborsare un pranzo dalla Regione basta dire “Ti saluta il Consiglio!”. È quella che si dice “insindacabile giustificazione”, dopo “professore, non ho potuto fare i compiti, è morta nonna”.
La storia delle telecamere acquistate poi è meravigliosa. Il consigliere si fa rimborsare 2.000 euro per il loro acquisto. Se le piazza a casa sua, in camera da letto e in cucina. Ma “non si può escludere che le avesse utilizzate anche in Regione”, dice il suo legale. E a tal proposito, nel ricorso si afferma che ha montato quelle telecamere in cucina e camera perché temeva qualche conseguenza per la sua incolumità visto il suo impegno in Consiglio contro il fenomeno delle “mandrie vaganti”. Giuro. C’è scritto.
La difesa del consigliere Alberto Goffi, 11.000 euro di rimborsi soprattutto per spese di ristorazione tra cui 600 per fornitura di pasticcini, ha argomentato: “Le spese dovrebbero essere ricondotte alla battaglia politica”. Cioè, lanciava pasticcini agli avversari?
Il consigliere Andrea Stara (46.970 euro di rimborsi) si faceva rimborsare focacce, spese al supermercato, multe, tagliaerba, soggiorni in Puglia e Basilicata e consumazioni di 32 collaboratori. Nel suo caso, la scusa più utilizzata – ovvero “mi facevo rimborsare cene che miravano alla valorizzazione del territorio” – non viene utilizzata per un semplice motivo: nella lista rimborsi, giuro, c’è anche la voce “KEBAB”. Del resto, è l’unico esponente del centrosinistra coinvolto nella vicenda, lo si intuisce anche da questo. Si faceva rimborsare le multe per “mera negligenza”.
Il consigliere Michele Formagnana, 27.000 euro rimborsati, prelevava somme e le metteva in cassaforte della propria agenzia assicurativa “per organizzare convegni”. Secondo la difesa, poi l’indagine della Procura lo ha spaventato e non li ha organizzati più, restituendoli. Insomma, la scusa è che quei soldi prelevati e messi in cassaforte fossero “un fondocassa”. In pratica il fondocassa del fondocassa. “Non c’era motivo per cui conservasse quelle somme in un luogo privato”, si legge nelle motivazioni. Tra parentesi, il consigliere aveva acquistato una cappella cimiteriale: probabilmente voleva nasconderci altro fondocassa dentro.
Alberto Cortopassi, (55.000 euro di rimborsi) si era fatto restituire spese per la prima comunione del figlio, vini, regali a collaboratori, abbigliamento, profumi, cd natalizi e gioielli. Dal 20 al 30 ottobre 2010 aveva chiesto il rimborso per 78 consumazioni al ristorante (3.100 euro). In pratica andava otto volte al giorno a pranzo e cena. Ci si aspettava che i suoi legali utilizzassero la scusa della bulimia nervosa o della tenia nell’intestino, e invece agiva “per visibilità e consenso personale”. E “l’imputato aveva trasformato la sede di un noto ristorante in un luogo ordinario di incontri personali”. In pratica aveva spostato l’ufficio al ristorante. Una scusa validissima. Poteva andare peggio per le casse pubbliche: poteva spostare l’ufficio in un rivenditore Lamborghini.
Michele Dell’Utri si fece rimborsare spese di ristorazione, quadri e cornici, l’abbonamento a La Stampa: secondo i legali erano “spese giustificabile per rafforzamento col elettorato e a raccogliere l’orientamento dei simpatizzanti”. Visto che nei rimborsi c’erano anche spese al supermercato sarebbe interessante capire come procurarsi elettori al banco frigo latticini e salumi. “Non sarebbe sindacabile la modalità di tale attivismo”, si legge.
Roberto De Magistris si fece rimborsare, tra le altre cose, cene al ristorante Galli di Verbania, ma nel ricorso si sostiene che furono “spese attribuite per errore all’imputato”, tanto che il ristoratore testimoniò di non averlo mai visto. Idem rimborsi per una gara di moto in Liguria con gli amici: la fattura era stata emessa a soggetto terzo, quindi fu un errore. E un errore furono anche i rimborsi per la fiera del tartufo ad Alba. In pratica, De Magistris rimborsava a sua insaputa. Stasera vado da Cracco, lascio il conto a nome suo. Tra i suoi rimborsi anche 36 t-shirt, fiori, tassa per il passaporto elettronico, 122 euro di frigobar per una visita istituzionale al papa. È già tanto che non le abbia caricate sul conto di papa Francesco.
Il sindaco di Borgosesia Paolo Tiramani (12.000 euro di rimborsi) si fece rimborsare spese in discoteca, al bowling, da Ikea e poi popcorn, multe, navigatori satellitari, soggiorni, dolciumi, cioccolato, scarpe e confetti. Le motivazioni del ricorso sono bellissime: “Non c’è prova che abbia ricevuto il rimborso delle spese ritenute illecite visto che il rimborso avveniva tramite contanti”. In pratica chiedeva rimborsi ma poi non si faceva rimborsare, chiaro. O anche “Il regolamento della Lega Nord non prevede l’indicazione delle specifiche circostanze nelle quali la spesa era sostenuta”, e “Era alla sua prima esperienza e ha commesso errori, “avrebbe sempre ritenuto la materia poco chiara”. Certo, legittimo, alla prima esperienza, avere dubbi sul fatto che l’acquisto dei pocorn rientri nelle spese di rappresentanza.
La consigliera Augusta Montaruli acquistò la borsa di un noto stilista (Borbonese), che secondo la difesa “è un mero contenitore di libri”. Certo, le famose borse porta-libri. Secondo la Montaruli poi, era “un premio per un concorso letterario per sensibilizzare sulla violenza contro le donne”. Certo. Peccato che nella sua nota spese ci sia finito anche l’apparecchio Microtouch per togliere peli dal naso e orecchie. Sarà stato un premio per un concorso per sensibilizzare sui problemi dell’ irsutismo.
Angelo Emilio Filippo Burzi si fece rimborsare 200 pasti mentre era in vacanza ad agosto 2012, ma “ne approfittò per frequentare autorevoli amici”. In pratica se porti a cena l’imbianchino sei un impostore, se porti a cena 200 architetti sei nell’ambito della legalità.
Roberto Cota giustifica il rimborso di mutande o pantaloncini verdi più tutto il resto comprato in America, affermando che il viaggio a Boston era considerato privato ma lui doveva incontrare un ingegnere. Comodo ed economico, insomma. Tra l’altro non è ben chiaro il perché, a questo punto, l’ingegnere ricevesse solo interlocutori con pantaloncini o mutande verdi. 47 scontrini, conservati gelosamente chissà perché, gli sono stati rimborsati “per errore”. Altri acquisti erano “FUTURI regali di rappresentanza”.
La difesa di Michele Giovine, capogruppo di “Pensionati per Cota”, condannato per appropriazione di 112.000 euro, afferma che l’attività dei gruppi sarebbe svolta in regime privatistico, dunque l’imputato non è pubblico ufficiale. Il consigliere Massimo Giordano sostiene che siano spese di rappresentanza anche quelle dal fruttivendolo e l’alloggio di sua moglie a Kiev. Il consigliere Massimiliano Motta si fa rimborsare un beauty-case ma perché “avendo un’udienza dal papa, si era reso conto di aver dimenticato il proprio”. Insomma, se vai da Papa Francesco e ti sei dimenticato il dentifricio o il dopobarba, pagano i cittadini.
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