“Per me è una scissione incomprensibile. Conosco tanti compagni che vengono da una storia comune alla mia, osservo e rispetto il loro disagio in queste ore”.
Quello di chi ora, per lealtà a Matteo, dovrà scegliere se andarsene o no dal suo partito. Non è semplice, perché non c’è una sola spiegazione politica ragionevole di questo gesto.
Non la convince la spiegazione che ha offerto Renzi?
Francamente no. Per quale motivo se ne sta andando dalla sua casa? Quale ragione concreta? Nemmeno lui, in due pagine di intervista, ne offre una.
Io francamente non l’ho capito. Così come non lo capiscono i tanti compagni che durante la nostra sfida del primarie chiedevano il voto per la loro mozione dicendo: “Noi dal Pd non ce ne andremo mai”.
Sinceramente no: il governo che si è fatto lui diceva di volerlo. Lo ha votato! Non c’è dissidio politico su nessuno dei grandi temi. Dei cardini, cioè, che costituiscono il nucleo di identità forte del Pd. E allora la domanda che vorrei fargli io è: “Matteo, ma perché te ne vai?”. Perché io davvero il motivo non lo ho capito. Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali del governo Conte è stato per tanti anni in minoranza nel Pd di Renzi. E adesso vorrebbe chiedere ai suoi compagni di accettare lo stesso ruolo che è toccato a lui, con serenità e lealtà.
Io sono stato minoranza in un partito in cui c’era un clima molto diverso da oggi.
Se non eri d’accordo con Renzi finivi per essere considerato un appestato e dovevi stringere i denti. Oppure finivi male, perché una randellata sulla testa prima o poi ti arrivava.
Ecco, proprio questi esempi mi fanno riflettere. Anche Stefano avrebbe dovuto tenere duro, resistere. Sono persone di valore, e in una comunità grande e plurale come quella del Pd ci deve essere posto per tutti.
(Riso amaro). Quando Matteo era leader, se intervenivi negli organismi dirigenti e non eri d’accordo intorno a te era il vuoto pneumatico, il silenzio. Ricordo il disagio che ho provato in alcune di queste situazioni.
Sì. Sentivamo il clima difficile, e tuttavia io e molti compagni siamo rimasti perché credevamo con passione al progetto del Pd. Oltre le persone, intendo, e oltre i personali calcoli di convenienza.
Ricordo alcune direzioni in cui c’erano compagni che avevano addirittura paura a batterti le mani, di essere guardato male solo per questa minima dichiarazione di sintonia.
Io ma non solo io. Io, ma anche dirigenti del partito che la pensano all’opposto da me. Questo è il punto.
Esatto. Questa è stata la grande differenza rispetto a quando il leader era lui. La collegialità.
Zingaretti è stato addirittura criticato, da quelli più ortodossi per l’enorme attenzione che ha riservato alla corrente di Renzi. Dicevano che era stato troppo arrendevole.
I capigruppo nominati da Renzi non sono cambiati, i suoi uomini e le sue donne sono state candidati alle elezioni europee. I suoi uomini sono diventati ministri e sottosegretari. Le sue opinioni sono diventate il centro del dibattito. E allora mi chiedo: cosa capiscono i nostri elettori di questo dissidio?
No, giuro. Quello che penso glielo ho detto. Nel Pd di Zingaretti – come è evidente a tutti – c’era spazio e rispetto per tutti. Matteo ha fatto un’altra scelta, vedo anche che molti dei suoi non lo seguono, gli auguro buona fortuna, ma continuo a non capire.
Leggi l'articolo originale su TPI.it