Lo scorso 14 febbraio, all’indomani delle elezioni regionali in Lazio e Lombardia, il quotidiano Libero ha titolato: “Altro che Sanremo. Canta la destra”. Anche Il Giornale ha giocato sulle polemiche politiche costruite sul festival: “Effetto Fedez & C: Sinistra asfaltata”. Il Tempo è andato invece dritto per dritto: “C’è solo il centrodestra”.
Cos’hanno in comune queste tre testate, a parte il fatto di essere dichiaratamente schierate dalla parte di Giorgia Meloni e dei suoi alleati? Appartengono tutte alla stessa persona: l’imprenditore Antonio Angelucci, 79 anni, deputato prima di Forza Italia e adesso della Lega, ma soprattutto vero e proprio imperatore della Sanità privata nel Centro-Sud.
Fra ospedali, centri di riabilitazione, Rsa, poliambulatori, il suo Gruppo San Raffaele gestisce ventiquattro strutture tra Lazio e Puglia. La holding si avvale del supporto finanziario di un ente no-profit, la Fondazione San Raffaele. Fino allo scorso novembre, presidente di questa fondazione è stato Francesco Rocca: proprio lui, il governatore del Lazio neo-eletto grazie ai voti raccolti dalla coalizione di centrodestra.
Cosicché, da un lato, abbiamo un parlamentare che fa l’editore e l’imprenditore in campo sanitario e, dall’altro, un presidente di Regione che fino a ieri dirigeva una onlus a cui fanno indirettamente capo decine di cliniche e laboratori privati: un conflitto d’interessi gigantesco, considerando che la Regione Lazio destina alla Sanità la bellezza di oltre 11,5 miliardi di euro all’anno, pari a circa l’80% del suo budget. Senza dimenticare che Rocca fino allo scorso dicembre ha guidato pure la Croce Rossa Italiana.
Nel momento in cui scriviamo, il neo-governatore non esclude di tenere per sé la delega alla Sanità. In ogni caso, ha garantito, «la seguirò molto da vicino»: «Il connubio tra sanità pubblica e privata nel Lazio oggi non è governato e questa cosa va corretta», ha osservato. «Ho intenzione di mettere sotto governo tutte le strutture pubbliche e private in maniera molto laica».
Intanto Angelucci, tra i suoi più accaniti sponsor, si frega le mani: il trionfo della destra alle regionali spiana il terreno a guadagni milionari assicurati per lui e per agli altri industriali della Salute.
Se il discorso vale per il Lazio, è ancor più vero nel caso della Lombardia, dove negli ultimi trent’anni a trazione prima ciellina e poi leghista si è imposto un sistema privatocentrico che nemmeno le falle scoperchiate dalla pandemia sono riuscite a scalfire: la riforma varata nel 2021 dal presidente Attilio Fontana – appena rieletto con il 54,7% dei voti – e dalla sua vice Letizia Moratti -che lo ha sfidato, sostenuta dal Terzo Polo – sancisce la «equivalenza e integrazione all’interno del Sistema Sanitario Lombardo dell’offerta sanitaria e sociosanitaria delle strutture pubbliche e private accreditate».
Com’è ormai almeno dalla metà degli anni Novanta, insomma, Milano, Bergamo, Brescia e le altre province della regione continueranno a essere l’Eldorado di chi si approccia all’assistenza sanitaria come a un business.
Potenza di fuoco
Due settimane fa, alle urne, tra Lombardia e Lazio c’era in palio un tesoretto da 33 miliardi di euro: tanta è la spesa pubblica in Sanità sommata dalle due Regioni.
Quella del Pirellone vale da sola quasi 22 miliardi. Di questi, circa 5,5 finiscono in rimborsi alle strutture private per le attività svolte in regime convenzionato: parliamo cioè di esami, visite specialistiche, terapie o ricoveri ospedalieri effettuati da operatori privati accreditati, ma i cui costi sono sostenuti dal Servizio pubblico.
Dunque in Lombardia, su 4 euro spesi dal Servizio sanitario della Regione, uno va nelle casse delle cliniche convenzionate: il 24,5%, per la precisione. In Lazio – secondo l’Osservatorio sulla Sanità della Bocconi – la quota è leggermente più alta: 25,7%, ovvero oltre 3 miliardi su 11,5. Basti dire che la media italiana è del 17,4% per comprendere la potenza di fuoco della Sanità privata in questi due territori.
Se la spesa pro-capite per l’assistenza nei centri accreditati ammonta in media a livello nazionale a 400 euro, in Lombardia si arriva a 550 euro e in Lazio a 566. E ancora: i posti letto nelle strutture convenzionate in Italia sono il 31% del totale, ma in Lombardia balzano al 38% e in Lazio addirittura al 51%.
Si dirà: la Sanità privata esiste, e prospera, perché il Servizio pubblico da solo non regge il passo. Vero, forse, ma ad essere onesti allora va anche sottolineato che gli operatori privati non si fanno carico dei medesimi “rischi d’impresa” delle aziende sanitarie pubbliche, potendo scegliere quali prestazioni offrire sulla base della prevista remuneratività.
In altre parole, è azzardato mettere sullo stesso piano le attività svolte da enti pubblici cui è richiesto di tendere al pareggio di bilancio con quelle di imprese che puntano meramente al profitto. Eppure è proprio questo ciò che avviene in regioni come Lombardia e Lazio.
Berlusconi, Craxi, D’Alema
Antonio Angelucci ha iniziato la sua scalata imprenditoriale dal gradino più basso: dipendente di una farmacia. Ma nella sua auto-celebrazione personale rimarca anche di aver lavorato come portantino all’ospedale San Camillo di Roma (in realtà solo per nove mesi).
Messosi in luce come sindacalista della Uil, negli anni Ottanta diventa socio di una casa di cura di Velletri, sui Colli Albani. Di lì in poi è un continuo crescendo, grazie anche a conoscenze di peso nel mondo della finanza e della politica: dal banchiere Cesare Geronzi al leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, fino all’ex comunista Massimo D’Alema, incontrato nel 1997, quando il ras delle cliniche rileva una quota de L’Unità e l’intero palazzo di via delle Botteghe Oscure a Roma, leggendaria sede del Pci.
Ma il suo capolavoro risale agli inizi del 2000: Angelucci compra dal prete impresario Don Luigi Verzè la filiale capitolina dell’ospedale San Raffaele per 270 miliardi di lire e pochi mesi dopo la vende al ministero della Salute per 320 miliardi.
Ancora oggi, peraltro, la holding che controlla il suo impero sanitario si chiama Gruppo San Raffaele: fa capo a una società con sede in Lussemburgo e fattura circa 150 milioni di euro all’anno.
Quanto all’ospedale San Raffaele di Milano, il suo fondatore Don Verzè – berlusconiano di ferro, nonché pluricondannato per tentata corruzione e abuso edilizio – lo lasciò, nel 2011, alla sua morte, che era sull’orlo del fallimento, schiacciato da debiti per oltre mezzo miliardo di euro.
A salvarlo fu il Gruppo San Donato, della famiglia Rotelli, originaria di Pavia, che lo controlla tutt’ora insieme ad altre cinquantacinque strutture sparse fra Lombardia ed Emilia-Romagna, tra cui spiccano anche il policlinico San Donato, il nuovissimo ospedale Galeazzi nell’ex area Expo di Milano e la casa di cura la Madonnina, sempre a Milano.
Con 1,6 miliardi di euro di fatturato, il Gruppo San Donato è il colosso numero uno della Sanità privata italiana. E gode di ottime entrature negli ambienti della politica. Presidente è l’avvocato Angelino Alfano, ex ministro della Giustizia, dell’Interno, degli Esteri, ex vicepremier, nonché ex erede designato di Silvio Berlusconi.
Proprio il leader di Forza Italia ha scelto da tempo il San Raffaele come suo ospedale di fiducia, dove a curarlo è solitamente il professor Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e della Terapia intensiva. Il fratello di quest’ultimo, Paolo, dal 2018 siede in parlamento nei banchi forzisti e, soprattutto, dallo scorso ottobre è ministro della Pubblica Amministrazione.
Alle recenti regionali si è candidato invece con il centrosinistra (senza essere eletto) il direttore sanitario del Galeazzi, Fabrizio Pregliasco, che peraltro è unito sentimentalmente a Carolina Pellegrini, già assessora regionale alla Famiglia ai tempi della presidenza di Roberto Formigoni.
Il vicepresidente del Gruppo San Donato è Paolo Rotelli, nipote del fondatore della holding, Luigi. Anche se il vero artefice delle fortune della dinastia è stato Giuseppe Rotelli, padre di Paolo e figlio di Luigi, che negli anni Settanta e Ottanta fu consulente della Regione Lombardia per le politiche sanitarie e che affiancò poi anche il ministro della Salute Girolamo Sirchia sotto il secondo governo Berlusconi.
Craxiano doc, Rotelli – morto nel 2013 – è stato anche azionista di Rcs e nel 2000, dodici anni prima di mettere le mani sul San Raffaele, aveva concluso un’altra importante operazione assicurandosi le cliniche private di Antonino Ligresti, fratello del finanziere Salvatore.
Nel 2021 l’ospedale San Raffaele ha fruttato da solo al Gruppo San Donato 696 milioni di euro: di questi, 285 milioni derivano da prestazioni in regime convenzionato e quindi pagate dal Servizio sanitario pubblico.
L’era Formigoni
Nella classifica dei colossi della Sanità privata, al secondo posto dietro al Gruppo San Donato c’è il Gruppo Humanitas: fatturato di poco inferiore al miliardo di euro, macinato da ventisette strutture tra Lombardia, Torino e Catania. Il quartier generale è a Rozzano, nell’hinterland milanese.
Il gruppo fa capo a Gianfelice Rocca, già presidente di Assolombarda e proprietario insieme al fratello Paolo della multinazionale dei tubi Techint, che ha sede in Argentina. Il magazine Forbes ha piazzato l’anno scorso i fratelli Rocca al 16esimo posto nella graduatoria delle persone più ricche d’Italia con un patrimonio stimato in 3,2 miliardi di euro.
Gianfelice è anche vicepresidente dell’Aspen Institute Italia, think tank che vede alla presidenza l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, oggi deputato di Fratelli d’Italia. Ennesima conferma che gli imprenditori della Sanità privata hanno una naturale inclinazione a destra. E viceversa.
Altro nome storico della galassia delle cliniche convenzionate è l’Ics Maugeri di Pavia, che controlla ventuno strutture fra Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Puglia e Sicilia, per un totale di oltre 2mila posti letto accreditati con il Servizio sanitario nazionale.
Malgrado i 285 milioni di euro di ricavi e un bilancio in sostanziale pareggio, il gruppo – fondato nel 1965 dal medico catanese Salvatore Maugeri – patisce ancora le scorie dello scandalo giudiziario che tra 2012 e 2013 ha travolto la giunta regionale lombarda presieduta da Roberto Formigoni e i vertici dell’istituto sanitario per un giro di tangenti in cambio di favori. Giusto un mese fa la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte dei Conti che condanna in solido Formigoni e gli ex vertici della Fondazione Maugeri a risarcire 47 milioni di euro alla Regione Lombardia.
La governance del gruppo nel frattempo è totalmente cambiata, in particolare dal 2016, quando è entrato come socio al 34% il fondo di private equity Trilantic Europe, ma recentemente i sindacalisti dell’Usb hanno proclamato lo stato di agitazione denunciando «gravi carenze d’organico».
Nella storia della Sanità privata, almeno in quella della Lombardia, c’è un prima e un dopo Formigoni. La riforma varata nel 1997 dall’allora governatore di Forza Italia – vicinissimo al movimento Comunione e Liberazione – sancì il rivoluzionario principio della cosiddetta «sussidiarietà solidale»: mise cioè sullo stesso piano, nell’erogazione dell’assistenza sanitaria, gli operatori pubblici e quelli privati.
Un principio rimasto valido anche dopo la caduta del presidente azzurro e l’arrivo alla guida del Pirellone dei leghisti Roberto Maroni e Attilio Fontana. Grazie a quella legge regionale, di fatto, l’industria della Salute privata è stata bagnata in questi trent’anni da una pioggia di denaro pubblico.
Quelli a sinistra
Ma le cliniche convenzionate non sono un’esclusiva assoluta della destra. Ad esempio, l’Istituto europeo di oncologia – meglio noto come Ieo – fu fondato nel 1994 a Milano dal professor Umberto Veronesi, futuro senatore del Pd, nonché ministro della Sanità del secondo Governo Amato.
Tra i promotori dell’iniziativa – nata per «applicare i principi della gestione privata alla sanità pubblica» – c’era peraltro anche Enrico Cuccia, patron di Mediobanca: non esattamente un bolscevico.
Nel 2016, poco dopo la morte di Veronesi, la famiglia dell’oncologo era sul punto di cedere lo Ieo a una cordata formata dai gruppi San Donato e Humanits, ma l’operazione sfumò per la contrarietà del vertici dell’istituto. Oggi il socio di maggioranza è Mediobanca, affiancata da altri giganti del capitalismo finanziario italiano, come Unipolsai, Intesa Sanpaolo e gli eredi di Leonardo Del Vecchio.
A proposito di capitalismo tricolore, ha investito nel settore della Sanità privata anche l’ingegner Carlo De Benedetti, ex editore di Repubblica e L’Espresso, oggi al comando del quotidiano Domani.
La sua holding Cir – presieduta oggi dal figlio Rodolfo, con il quale tuttavia i rapporti sono tutt’altro che buoni – controlla il Gruppo Kos: novantatre strutture sparse tra Nord Italia, Lazio e Campania, per un fatturato che nel 2021 ha superato i 350 milioni di euro.
Negli scorsi mesi De Benedetti è stato tra coloro che hanno auspicato che alle regionali della Lombardia il Partito democratico appoggiasse la candidatura di Letizia Moratti, assessore alla Sanità nell’ultima giunta Fontana. Come noto, i dem hanno invece optato per sostenere Pierfrancesco Majorino, più incline a valorizzare la governance pubblica della salute e deciso a cancellare la recente riforma varata dal centrodestra.
In Lazio, d’altro canto, il candidato di Pd e Terzo Polo, Alessio D’Amato, reduce a sua volta da nove anni alla guida dell’assessorato regionale alla Sanità, durante la campagna elettorale ha annunciato una proposta di legge per impedire a imprenditori come Angelucci di gestire cliniche sanitarie private e contemporaneamente possedere dei giornali.
Lo stesso Angelucci rischia di finire a processo per tentata corruzione perché, secondo la Procura di Roma, nel 2017 offrì proprio a D’Amato 250mila euro per sbloccare una serie di rimborsi pretesi da una delle sue cliniche convenzionate.
Dunque, se alle recenti regionali l’imprenditore ha fatto campagna elettorale per Rocca, non è solo per disciplina di partito, ma anche per tutelare i propri interessi economici.
Peraltro, anche la giunta Zingaretti, lo scorso novembre, gli ha fatto un “regalino”: con una legge ad hoc – ribattezzata “salva-Angelucci” – il San Raffaele di Velletri ha riottenuto l’accreditamento al Servizio sanitario pubblico che aveva perso durante la pandemia. Perché alla fine, anche se c’è la sinistra al potere, il ras delle cliniche cade sempre in piedi.