Dovesse fallire le urne referendarie Matteo Salvini ha già il nome del colpevole, anzi ne ha almeno due. Il primo è un investimento da usato sicuro: l’accusa alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese di aver sabotato il quorum non consentendo agli italiani di votare anche lunedì anziché solo domenica 12 giugno, è prevedibile almeno quanto il fatto che torni a breve a ridarle il tormento per lo sbarco dei migranti, già che la bella stagione incombe. Ma soprattutto il leader della Lega punta agli occhi Giorgia Meloni che non solo si è sfilata dalla battaglia referendaria con cui Salvini intendeva riguadagnarsi la leadership di un centrodestra allo sbando già prima della battaglia per il Quirinale. Ma lo sta facendo passare anche per chi, con la scusa del garantismo e della giustizia giusta, fa il gioco di corrotti e criminali. E pure per questo – Caina! – è sospettata di non vedere l’ora che gli italiani vadano al mare anziché a votare i 5 quesiti che per Salvini rischiano di essere una trappola micidiale. Già questi veleni basterebbero a spiegare perché attorno a questa disfida si giochino ben altre partite. Ma anche che lo stesso strumento referendario abbia ormai cambiato pelle, come aveva preconizzato per tempo il padre nobile di Magistratura Democratica Nello Rossi: «Concepito come mezzo classico a disposizione di minoranze estranee al potere per promuovere l’abrogazione di leggi ritenute ingiuste o non più adeguate, il referendum viene messo in campo come mezzo di pressione di chi il potere lo ha già e decide di usare l’arma referendaria per sovrapporre i suoi obiettivi per alterare o condizionare l’indirizzo politico di maggioranza». E non è dunque casuale in quest’ottica che il confronto rimanga ostaggio di toni di mero posizionamento tattico e di indifferenza al merito. Merito di cui infatti i cittadini sanno poco o niente: al massimo nell’immaginario collettivo degli elettori è arrivato il messaggio che alle urne, con i referendum, si vota sui conti che la politica vorrebbe regolare una volta e per tutte con la magistratura, a conclusione di un braccio di ferro che va avanti da trent’anni ossia dall’epoca di Tangentopoli.
In questo marasma di sospetti e colpi mancini, il primo che rischia il collo però è proprio Matteo Salvini che lo scorso anno aveva brandito il vessillo della giustizia giusta, un po’ per dimostrare quanto sia ingiusta quella che lo sta processando a Palermo – parole sue – solo per aver fatto il suo dovere sul fronte della gestione dei migranti quand’era ministro dell’Interno. E molto per riprendersi la scena perduta ormai dall’epoca del Papeete: da allora ha collezionato soltanto sconfitte (vedi la gestione della partita sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica) e brutte figure (da ultimo l’annuncio spiazzante all’insaputa di tutti della sua visita a Mosca) che ne hanno logorato l’immagine. Ma poi in vista del flop del quorum alle urne, si è prima convertito all’autocensura come se i referendum sulla giustizia non fossero roba sua e ora che la data del voto si avvicina alimenta la tesi del complotto che forze oscure starebbero tramando ai suoi danni. Memore della batosta a carriera e autostima rimediata da Matteo Renzi (che, a differenza sua era a quell’epoca al massimo dei consensi), quando aveva voluto trasformare in un referendum sulla sua persona il referendum sulla riforma costituzionale, Salvini ha ordinato la mobilitazione con i gazebo nelle piazze e tutto il resto, ma all’ultimo miglio. Come a significare che se vince, vince contro tutti. Sennò pace, via con un’altra buona battaglia magari più nelle corde della piazza leghista rispetto alla giustizia giusta, è già pronta: appunto i migranti sì cari all’arcinemica Lamorgese. Quella vera però è la Meloni che Salvini punzecchia a più non posso da quando cresce nei sondaggi che l’accreditano di un risultato alle prossime politiche capace di regalarle in un sol colpo la leadership di centrodestra e pure Palazzo Chigi.
«Mi piacerebbe che tutto il centrodestra si impegnasse come stiamo facendo noi sui referendum sulla giustizia. Ogni tanto ci sembra di impegnarci un po’ da soli. Poi da fine giugno parleremo di tutto il resto», ha detto all’indirizzo dell’alleata che standosene comoda all’opposizione ha fatto bingo ai suoi danni. E che sui referendum è tetragona: dei cinque quesiti ha detto di appoggiarne tre, ma gli altri due, i più significativi, giammai. Anzi li usa come una clava contro Salvini: «La proposta referendaria sulla carcerazione preventiva – ha spiegato – impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi dei loro crimini». E d’altra parte l’abolizione della legge Severino oggetto di un altro quesito «significherebbe un passo indietro nella lotta senza quartiere alla corruzione». Affonda la lama il responsabile giustizia di Fratelli d’Italia, Andrea Del Mastro: «Trovo inaccettabile questo cedimento sotto il profilo della sicurezza, dell’ordine e della legalità. C’è un centrodestra a volte situazionista: dopo che per anni Salvini ha spiegato ai tuoi elettori che se ti entra in casa un ladro lo puoi abbattere, è difficile dirgli che se invece arriva un carabiniere, questo deve fermare il ladro e poi liberarlo». Che resta? Gli ultimi tre quesiti che Meloni dice di gradire ma con un entusiasmo pari a quello che suscita a un affamato un contornino di verdure lesse.
Vittorio Feltri, vecchia volpe convertita sulla via di Giorgia, chiosa a modo suo: «Non stupiamoci se gli italiani preferiranno andarsene al mare mandandoci tutti beatamente a fanculo. Amen». Che le cose realisticamente possano andare proprio così lo sa anche Roberto Calderoli: «Gli italiani saranno madri e padri costituenti sulla riforma della giustizia», ha detto il leghista con un certa enfasi smorzata però da una premessa che la dice lunga. A detta del vicepresidente del Senato è certo che esista un piano occulto architettato dai Palazzi del potere per affossare i referendum: «Basti pensare all’unico dei nostri referendum che non è stato ammesso, quello che prevede il principio per cui chi sbaglia paga ovvero la responsabilità diretta dei magistrati», che era il pezzo forte del pacchetto. E che tirava consensi quasi come i quesiti sulla cannabis e sull’eutanasia, promossi da parte avversa ma anch’essi fatti fuori in maniera assai sospetta, a sentir Calderoli. Che quindi grida al complotto contro i parrucconi della Consulta, ma anche con chi ha messo il turbo alla riforma Cartabia «che languiva nelle paludi del Parlamento, e in quattro e quattr’otto è stata approvata alla Camera con l’obiettivo di dare l’ok al testo, identico, anche al Senato rapidamente. E questa riforma, che di innovativo non ha praticamente nulla, rischia di far saltare due o tre quesiti. È evidente che l’accelerazione in Parlamento ha questo come obiettivo».
In compenso c’è chi rema a favore anche se più che per il merito dei quesiti, per quello che rappresentano o possono rappresentare. L’eterno Sabino Cassese che ha un vasto seguito nei Palazzi e tra i poteri che contano, ha detto ciò che era utile dire a chi ancora soffre di una certa subalternità rispetto al potere giudiziario. «I miei cinque sì servono per sollecitare un Parlamento che non riesce a decidere e a sbloccare una crisi causata anche dai magistrati», ha sentenziato essendo convinto che i referendum siano solo l’antipasto, la spintarella che serve per un boccone ancora più ghiotto. Perché – ha spiegato l’Emerito – le riforme fin qui fatte sul settore penale e civile «non credo che risolveranno i problemi, ma anche se credo che vadano nella direzione giusta. L’idea di fondo che la giustizia sia un organismo della cui organizzazione, della cui efficienza, delle cui performance ci si deve interessare, costituisce il punto d’avvio di ogni possibile riforma della giustizia. Purtroppo, tra i magistrati è diffusa un’idea diversa della giustizia, atemporale, incapace di misurare se stessa e i propri effetti, non correlata con la domanda sociale». Un messaggio che è stato tradotto così: la magistratura va rimessa al suo posto cominciando pure a mettere in discussione quanto prendono a fine mese i magistrati e soprattutto quello che possono fare e dire. E per farlo serve che la politica tiri fuori gli attributi, a maggior ragione ora che la loro popolarità è ridotta alla fetta. Anche a costo di rompere con le toghe che hanno osato scioperare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario. Ossia contro il governo e il Parlamento «la dimostrazione – Cassese dixit – che l’ordine giudiziario si ritiene una cittadella nello Stato». Come Nino Di Matteo che si è permesso di parlare di una voglia di vendetta nei confronti della magistratura che è stata capace di portare a processo la politica. Parole che Cassese ha così commentato: «In quella frase ci sono tre errori. Quello di ritenere che una parte della società, la magistratura, possa portare a processo un’altra parte della società, la politica. Quello di pensare che un governo presieduto da Draghi, con Cartabia ministra della Giustizia, possa essere animato da un desiderio di vendetta. Quello di ritenere che un magistrato possa esprimersi in tal modo sugli organi costituzionali della Repubblica». Come impedire che questo sopruso possa continuare a essere tollerato?
Lo spiega a parole sue Carlo Calenda, inizialmente contrario ai referendum sulla giustizia e ora convertito graniticamente alle ragioni del sì. E anche in questo caso, par di capire che il merito dei quesiti c’entri il giusto. «I referendum li teme la magistratura. Ma anche una classe politica che negli anni ha costruito una contiguità con pezzi della magistratura. Legami stretti con alcune correnti della magistratura. Basta vedere l’approccio di alcuni partiti sui temi della giustizia: ci sono partiti in Italia, come Pd e Cinque stelle, che appaltano completamente alla magistratura le decisioni». E così la conversione sulla via dei referendum in salsa leghista di Calenda offre la sponda a chi nel Pd è assai scontento per i compromessi a ribasso che si son dovuti fare sin qui sulla giustizia o per le riforme che non si son potute fare proprio pur di non mettere a rischio l’alleanza con il Movimento dei “manettari” a 5 stelle. Che un pezzo consistente del partito del Nazareno non vuole punto, giustizia o meno o al massimo tollera in attesa di tempi o di leggi elettorali migliori. Ma si tratta almeno per ora di un’asse obbligato quello tra Enrico Letta e Giuseppe Conte. E così il segretario dem è stato costretto a fare gli straordinari sui referendum su cui molti dei suoi vorrebbero che il partito si impegnasse, altro che boicottare le urne come invece suggeriscono i pentastellati che li ritengono pura propaganda utile a mettere benzina nella macchina di Salvini. Il segretario dem per tenere insieme le truppe non ha sposato né la linea del sì ma neppure quella del no: ha lasciato libertà di coscienza con l’impegno però a fare in Parlamento le riforme che servono e sono toccate dai quesiti come nel caso del referendum che riguarda la Legge Severino particolarmente gradito all’Anci (guidata dal dem Antonio Decaro) che chiede la cancellazione della sospensione dei sindaci già dopo una sentenza di primo grado.Un compromesso insoddisfacente per quella parte dei dem che avrebbe preteso maggiore coraggio dal Nazareno e che non rinuncia a farlo sapere mettendo in difficoltà nera Letta, chi per vera convinzione sulla bontà della battaglia referendaria, chi con intenti un po’ meno sinceri.
«Farò dunque uso di questa libertà per tradurre in espressione di voto i princìpi garantisti nei quali mi riconosco, a mio avviso fondamentali per ogni democratico e riformista», ha spiegato per esempio il sindaco di Bergamo Giorgio Gori che li voterà tutti e cinque compresi quelli più sensibili (ossia i tre che puntano a introdurre la separazione delle carriere, l’abolizione della custodia cautelare e a cancellare la sospensione per i sindaci condannati e la decadenza dal Parlamento e l’incandidabilità per chi si sia macchiato di gravi reati) «per affermare il valore della presunzione di innocenza e dei diritti della difesa». Così come farà anche Andrea Marcucci, già capo dei senatori del Pd quando era segretario Matteo Renzi: pure lui ha sferzato Letta perché «nel Pd c’è anche una larga componente popolare e liberale, con una forte matrice garantista. E comunque anche in molti tra coloro che vengono dal Pds, si può dire che abbiano superato la sbornia giustizialista e stanno riavvicinandosi al garantismo». Musica per le orecchie di Matteo Renzi che pregusta il dopo.
Perché se anche i referendum non dovessero raggiungere il quorum è certo che nel Pd in molti pretenderanno che Letta mantenga le promesse per rimettere mano a una riforma della giustizia più coraggiosa. Tradotto: meno in linea con i desiderata dei Cinque stelle che considera come fumo negli occhi almeno quanto i magistrati di Firenze che lo accusano di finanziamento illecito nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Che ha denunciato convinto che abbiano violato la legge ma pure fatto sfregio alle istituzioni repubblicane. Vicenda quella di Renzi che secondo Piero Sansonetti, il direttore del Riformista (edito da Alfredo Romeo, pure lui nei guai con la giustizia) sono lo specchio della «inaudita violenza» dei magistrati accusati di «aver segnalato ai giornali» una lettera nella quale suo padre Tiziano Renzi (a processo con la moglie per bancarotta) parlava male dei principali amici personali e politici del figlio per il solo gusto di fargli danno e dispetto. Con modalità simili a quelle in uso durante il regime sanguinario di Pol Pot. Solo che in Cambogia non si poteva mobilitare il Senato per far processare i magistrati dalla Corte Costituzionale.
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