È un periodo, questo, in cui in politica si percepisce un disorientamento collettivo su vari piani, dalle amministrative alla questione delle alleanze, alla gestione della maggioranza di governo che vede – come al solito – i sempre responsabili del PD perdere consenso a favore di sciacalli che banchettano sulla serietà di governo degli altri.
Il PD è ormai il partito di Draghi? La domanda è lecita e all’orizzonte si profilano passaggi potenzialmente apocalittici per intere classi dirigenti. Di fronte ai sondaggi e al taglio del 30% dei parlamentari gli attuali eletti dei partiti si sentono minacciati dall’esclusione in massa dalla composizione del prossimo parlamento. E questo è un potenziale enorme esplosivo, una realtà non detta che sta dietro e davanti alle dimissioni di Zingaretti e di cui ancora forse sentiremo parlare. Non sappiamo se quella polvere spazzata velocemente sotto il tappeto dopo le dimissioni del Presidente della Regione Lazio non sia pronta a tornare fuori. Come non sappiamo se il governo Draghi continuerà a godere dell’appoggio di tutti i partiti e se lo stesso Draghi diventerà il Presidente della Repubblica, oppure uno dei candidati alla Presidenza del Consiglio, forse sostenuto proprio del Partito Democratico. Non sappiamo cosa accadrà al PD quando si percepirà chiaramente che gran parte dei parlamentari presenti in questa legislatura non saranno riconfermati.
Né tantomeno possiamo definire come prevedibili le sorti del M5S e della Fondazione Rousseau, vista la situazione molto complicata nella quale l’ex presidente Conte si è venuto a trovare. Forse avrebbe fatto bene a non entrarci affatto, visti i tratti all’orizzonte che annunciano una diatriba fratricida, in cui i termini legali prefigurano la fine del vecchio movimento e la riapertura – forse con lo stesso logo – di un nuovo movimento attorno a Di Battista. La trasformazione del movimento in soggetto di governo, soprattutto con l’appoggio al governo Draghi, è stata lesivo per molti dei suoi leader, da Di Maio, a Crimi a Taverna. Si è perso il senso di storiche lotte identitarie e se i sondaggi esprimono tendenze che poi si amplificano nel risultato elettorale allora questo M5S è destinato a sparire, così come FDI è destinato a diventare il primo partito.
Questa è la cruda realtà. Conte rischia di fare il leader senza partito e il Partito Democratico il partito senza leader, il che restituirebbe uno schema molto semplice da ricomporre se bastasse fare 1 + 1, ma in politica non c’è mai nulla di semplice. E le complicazioni di personalismi di sorta o di gruppi di interesse avranno sicuramente la meglio.
Esiste poi un problema di mutismo, della politica interdetta a prendere iniziativa e della politica commissariata. Vediamo i risultati sulla proposta di Letta sulla tassa di successione che l’1% della popolazione più ricca dovrebbe devolvere a favore delle nuove generazioni, con il sostanziale “niet” di Draghi. Direi che basta questo a commentare un certo imbarazzo della sinistra. Forse sarebbe il caso di aprire un dibattito sul quanto sia utile a questa forza politica rimanere in questo governo. Ma se è vero che – come alcuni dicono nei corridoi – “il governo per il PD è come la cocaina”, allora è anche vero che vanno messi in campo degli strumenti per eliminarne la dipendenza.
Se un punto dell’eredità di Zingaretti e del suo gesto è stato chiaro direi che è quello che la Sinistra nel partito ha bisogno di affermare la sua presenza. Non solo. Si è capito che è importante creare situazioni dove il dialogo e lo scambio sono alla base della co-costruzione di quello che vogliamo essere, perché il tacito rimuginare di nomenclature correntizie, il silenzio e la mancanza di dialogo hanno ucciso i tentativi dell’ex segretario di dare respiro a quella grande operazione di partecipazione politica che era stata Piazza Grande.
Per provare a ridare una prospettiva di comunità al partito si profilano, così, diverse operazioni che prendono le distanze dal termine corrente, e che potrebbero anche avere in futuro un’influenza sulla politica, a patto che questa volta non si perda nel nulla e nei personalismi come spesso è accaduto negli ultimi anni e come – leggendo il nome di alcuni protagonisti – potrebbe succedere anche stavolta.
Il manifesto “Socialismo e Cristianesimo verso le Agorà” di Goffredo Bettini è uno degli scritti più alti che la politica di sinistra ha espresso negli ultimi anni, recupera parole e principi che avevamo dimenticato, valori che danno alla politica lo spessore che merita e nomi dal sapore intellettuale e di spessore anche morale sul piano della cultura politica e della sinistra. Pensiamo a Mario Tronti, alla stessa Urbinati o a Piero Ignazi. Soprattutto il manifesto ha accolto simpatie trasversali, da Schlein a Speranza, a Vasco Errani, a Giuseppe Conte e a vari membri dei 5 Stelle.
Parallelamente è stata lanciata ieri una nuova esperienza politica: “Prossima” è il suo nome e si prefigura come esperienza potenzialmente visionaria nel Partito Democratico. Con radici ben salde a sinistra, vuole provare a dare una lettura nuova e non solo storicizzata. Un laboratorio, come l’ha definito Giuliano Pisapia, che lancia il cuore oltre l’ostacolo degli steccati ideologici. Nata dal lavoro di Marco Furfaro, una delle persone che più ha innovato il partito negli ultimi anni, Nicola Oddati, Marco Miccoli, Maria Pia Pizzolante, Stefano Vaccari e che trae linfa da quel microcosmo di forte impronta innovatrice dell’associazione Futura, si è presentata con un manifesto dai temi innovativi, trattati con coraggio e radicalità. Molto interessante la riflessione che può scaturire da questa iniziativa politica che comprende le due esperienze politico-culturali citate e nate all’interno del partito e che definirei l’eredità di Zingaretti.
Così come molto importante sarà fare una riflessione sul concetto di Agorà, sul significato e sul suo significante. Il significante Agorà esprime il mezzo che il PD si dà per allargare la partecipazione; il significato Agorà è quello di piazza, di incontro, di scambio. Non necessariamente le due cose coincidono. Farei una netta distinzione tra le Agorà digitali, quelle dell’intelligenza collettiva per intenderci, fatte per es. di questionari agli iscritti, e le Agorà fisiche. Da una parte una sorta di democrazia digitale interna al partito, gestita tramite applicazioni che potrebbe addirittura servirsi dell’intelligenza artificiale per restituire le linee guida di fondo sul quale il partito dovrebbe convergere. Dall’altra l’Agorà fisica, spazio prossemico di scambio culturale e sociale, condivisione e confronto di idee, creazione di spirito di comunità, di “coesione”. Un luogo nel quale ci si confronta, dove la parola e le idee hanno un ruolo prioritario; un ritorno alla tesi, antitesi e sintesi di hegheliana memoria, ovvero alla dialettica.
Il problema più grave degli ultimi anni è che le sedi preposte, ovvero i circoli, le assemblee e le segreterie di partito hanno smesso di confrontarsi. Ci troviamo davanti a una situazione in cui le assemblee sono diminuite drasticamente di anno in anno e nella pandemia sono totalmente sparite. Raramente ci sono occasioni d’incontro e tutto si dirada in decine di telefonate, piccoli post, commenti individuali, centinaia di call e gruppi WhatsApp. I partiti e i movimenti si svuotano e gli incontri nelle sedi preposte non esistono più e siamo tutti un po’ pervasi da questa sensazione di impotenza. Non esiste più un luogo fisico in cui ci si possa scambiare idee, dove si possa parlare a una platea e avere consenso o anche esprimere dissenso, e soprattutto dove confrontarsi, stabilire legami e perché no, anche amicizie. Questo era il vero valore della sede del Partito o se vogliamo anche dei Meet Up dei 5S. E questa esigenza di comunità è stata tradita, spacchettata in una sorta di post modernismo della politica che ha creato solo grandi divisioni. Dovremmo puntare al valore delle persone, basarci sulle singole capacità umane e non sul valore dell’account e del profili digitali.
Recuperare uno spirito di comunità è la nuova urgenza e al contempo ridare senso alle parole che ormai suonano vuote. Pensiamo alle parole “riformismo”, “radicalismo”, “progressista”: concetti che rimandano ormai solo a delle correnti. Allora serve uno scarto nel metodo ed evitare i nuovi personalismi; servono volti nel ruolo di mediani e non volti mediatici. E se d’altro canto l’allargamento del partito non è cosa facile – anzi è operazione tra le più complesse – non cerchiamo di semplificarlo mettendoci addosso delle foglie di fico, per sembrare più giovani e belli.
Bisognerebbe lavorare su un grande movimento tacito e in forte crisi, quello che si riconosce nel disagio e fatto dalle tante persone che hanno perso il lavoro e che lo perderanno dopo la pandemia. Sarà importante, come ha detto un caro amico, che il Partito Democratico ritrovi la priorità nelle lotte sociali e non soltanto in quelle civili: non servono volti né personalismi, servono persone e istanze da portare avanti. Non solo rappresentanti che si accreditano questa o quella lotta come propria, ma ci serve rappresentarla in prima persona. Non dovremmo aver bisogno di intermediari per raggiungere le periferie, le fasce disagiate, i giovani, gli operai, i riders o i precari della cultura, perché gli intermediari dovremmo essere noi e quelle periferie o quel disagio dovrebbero fare parte di noi.
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