“Gentiloni è una camomilla? Io mi sento più una Red Bull”. Matteo Renzi, a oltre un anno dal referendum che lo ha disarcionato dalla guida del paese e dopo mesi passati in sordina, sembra voler tornare l’instancabile leader di una volta.
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L’ex premier, infatti, non può permettersi di fermarsi, con i sondaggi che paventano il rischio di un risultato inferiore al 25 per cento, impensabile quando nemmeno quattro anni fa il suo Pd toccava lo storico 40 per cento alle europee.
I tempi però sono cambiati. Sconfitta referendaria e scissioni hanno fatto passare al segretario del PD un 2017 insolito.
Lui che è sempre stato abituato alla velocità, a fare le cose più in fretta possibile purché si facciano, a scalare posizioni nel partito attirandosi le occhiatacce delle vecchia guardia, che non vedeva di buon occhio il suo sgomitare e bruciare le tappe del rigido cursus honorum della nomenclatura post-PCI.
Una velocità apprezzata dai suoi sostenitori, che vedono in lui un “uomo del fare”, ma screditata dai suoi avversari, che lo accusano di non approfondire e non dare la giusta attenzione a questioni che meriterebbero riflessioni più accurate.
Dopo che questi ritmi forsennati lo hanno portato a diventare presidente della provincia di Firenze nel 2004, sindaco del capoluogo toscano nel 2009, segretario del PD nel 2013 e quindi, nel 2014, il più giovane premier della storia italiana, è arrivato il referendum costituzionale ed è stato lui a dover subire ritmi dettati da altri, impantanato tra una serie di tempistiche che gli hanno reso impossibile votare prima della scadenza naturale della legislatura.
E, non a caso, sondaggi e risultati delle amministrative alla mano, non è stato sicuramente il migliore anno politico per Renzi.
Al suo piglio si è contrapposta poi la figura del suo successore a Palazzo Chigi, così vicino politicamente ma così diverso per stile.
L’irruento Renzi, capace di litigare con i rivali e con la minoranza interna, ha avuto il pendant del pacato Gentiloni, sorprendentemente popolare forse proprio perché in anni di scontri politici serrati e toni violenti ha portato mitezza nella politica italiana.
Da una parte l’uomo che si è definito al Corriere della Sera “camomilla”, e dall’altra la “Red Bull”. L’uomo che – sondaggi alla mano – mette più italiani d’accordo, e uno di quelli che invece causa più divisioni.
È alla luce di questi dati che il segretario del Pd ora vuole cambiare parzialmente il suo stile.
Non è più il Renzi che corre da solo a tutti i costi, ma è un Renzi che è riuscito a costruire una coalizione, nonostante lo strappo della minoranza che ha portato alla nascita di Liberi e Uguali.
Al fianco del PD – oltre agli storici alleati sudtirolesi del Sudtiroler Volkspartei – ci sono tre partiti, tutti nati in vista di questa tornata elettorale.
C’è Insieme, una lista formata da alcuni alleati minori, come i Socialisti di Riccardo Nencini, i Verdi di Angelo Bonelli, alleati un tempo importanti della coalizione di centrosinistra e negli anni ridotti a percentuali molto piccole, al cui fianco si è schierata Area Civica, formazione del prodiano Giulio Santagata.
C’è poi +Europa, lista europeista voluta da Emma Bonino, sostenuta da storici esponenti radicali come Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi e che ha incassato l’accordo – che gli ha risparmiato la raccolta firme – con Centro Democratico di Bruno Tabacci.
Infine, a completare la coalizione, c’è Civica Popolare, nata intorno al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, figura sicuramente in vista nei governi dal 2013 a oggi per via della sua battaglia in favore dei vaccini, che ha raccolto intorno a sé ciò che resta di Alternativa Popolare di Angelino Alfano e altre formazioni centriste e moderate.
Tre liste nate per l’occasione, ognuna con l’obiettivo di intercettare un elettorato specifico che il PD avrebbe diversamente timore di perdere.
La paura di smarrire i voti più a sinistra o dei nostalgici dell’Ulivo in favore di Liberi e Uguali ha prodotto così Insieme, il timore di allontanare i favorevoli all’accoglienza degli immigrati ha favorito l’alleanza con +Europa, la necessità di intercettare i voti moderati di fronte al ritorno in campo di Silvio Berlusconi ha portato alla nascita di Civica Popolare.
Ed è così che Renzi, uno dei simboli del leaderismo degli ultimi anni, ha messo in campo, almeno in parte, una svolta collegiale.
Una svolta dettata anche dalla popolarità di molti esponenti del governo Gentiloni, a partire dallo stesso premier ma anche da Marco Minniti, ministro dell’Interno che ha fronteggiato la questione migranti con un piglio che rare volte si era visto. O da Piercarlo Padoan, il ministro dell’Economia considerato tra i più amati nei sondaggi.
E così Renzi è passato dall’essere l’unico leader al ruolo di segretario di un partito con altri esponenti di primo piano. Forse anche per questo ha dovuto accantonare quella rottamazione che all’epoca del PD franceschiniano e bersaniano lo aveva reso popolare anche fuori dal campo del centrosinistra.
Fare le liste per le elezioni non è mai impresa facile. Soprattutto in un partito come il PD, caratterizzato da correnti e lotte intestine, il compito diviene ancora più arduo.
Lo è ancor di più se, tra sondaggi ingenerosi e nuova legge elettorale, l’attuale pattuglia parlamentare democratica – in gran parte al primo mandato – sarà per forza di cose ben meno affollata dopo il voto del 4 marzo. Con tutte le conseguenze del caso sulla composizione delle liste.
La necessità di tenere unito il partito, ma anche di garantire ai suoi (minoritari nel 2013) la maggioranza del gruppo, hanno portato a liste con meno rinnovamento di quanto dal Renzi del 2012 ci si sarebbe aspettati. Forse perché il Renzi del 2018 non è il Renzi del 2012.
Se il nuovo Renzi rappresenti versione più matura o più istituzionalizzata di se stesso lo dimostreranno i fatti.
Quello che però il segretario del PD ha ben chiaro è che se vuole vincere, ha bisogno sia della Red Bull che della camomilla.
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