Esiste davvero, oggi, uno scontro tra popolo ed élite? Il tema è sulla bocca di tutti. Lo è per gli sconvolgimenti che si sono verificati nel panorama politico globale negli ultimi anni, dalla Brexit alla vittoria di Trump, fino all’affermazione di partiti e leader populisti in vari paesi, tra cui l’Italia.
Ma lo è anche a causa di un dibattito intellettuale che ha ripreso quota di recente, in particolare in seguito alla pubblicazione di un lungo articolo di Alessandro Baricco su Repubblica dal titolo “E ora le élite si mettano in gioco“.
La diatriba ha attecchito anche al Festival di Sanremo: il popolo, volendo accettare le categorie di questo gioco linguistico, aveva scelto Ultimo, ma le élite (la giuria di qualità) hanno preferito premiare Mahmood.
“Non ha vinto quello che voleva la maggioranza dei votanti da casa, ma quello che voleva la minoranza della giuria, composta in gran parte da giornalisti e radical chic”, ha tuonato il vicepremier Luigi Di Maio.
Per prima cosa va rilevato il dato nudo e crudo: la contrapposizione tra élite e popolo esiste, non è una sovrastruttura accademica né l’artificio di oscuri burattinai, élite mascherate da popolo che fomentano lo scontro per ricavarne un tornaconto in termini di potere e rendite di posizione.
Che vi sia una crescente sfiducia delle masse popolari nei confronti di chi regge i fili del potere politico ed economico, accompagnata a una generale svalutazione delle competenze anche in altri campi (la scienza, la medicina e via dicendo) è un fatto.
Da una parte c’è chi, come Baricco, pensa che la rivolta del popolo contro le élite sia legata a doppio filo con l’aumento delle disuguaglianze e la cattiva gestione della crisi economica da parte di stati, mercati e istituzioni sovranazionali. Da parte, insomma, delle élite, politiche e finanziarie.
Poi c’è chi, come Giovanni Orsina, tende invece a ricondurre lo scontro a fattori endogeni: è vero che c’è stata la crisi economica, ma sono le contraddizioni interne alla democrazia, secondo questa lettura, ad aver generato il populismo e la sfiducia nei confronti delle élite. Tanto che, una volta superata la crisi stessa, i partiti populisti hanno continuato a proliferare ovunque.
È probabile che abbiano ragione entrambi. È probabile cioè che la crisi economica abbia fatto da detonatore a una serie di malattie culturali che si annidavano da decenni all’interno delle società democratiche e che erano da tempo sul punto di esplodere.
A nostro avviso, però, consolarsi discettando sull’irreversibilità di determinati processi socio-culturali fa perdere di vista il dato più importante, che in termini marxisti ha a che fare con la struttura (i rapporti economici) e non con la sovrastruttura (i mali della cultura, dei sistemi politici, della società tutta).
Se le élite progressiste vogliono riguadagnare terreno, devono insomma dismettere l’abito paternalista e calarsi in quella realtà che si ostinano a interpretare con categorie di comodo (razzismo, analfabetismo funzionale, ignoranza e così via).
Le conseguenze della crisi economica: il popolo ragiona solo “al presente”
La difficoltà maggiore, per quelle che possiamo definire le élite progressiste, differenziandole così dalle neo-élite populiste (un ossimoro che potrebbe emergere una volta che queste neo-élite si troveranno sempre più gravate da responsabilità di governo), è che recuperare dai propri errori risulta sempre più complesso.
Questo perché l’eccessivo ottimismo degli anni Novanta e primi anni Duemila, l’afflato globalista della “Terza Via”, l’appiattimento talvolta acritico sulle dinamiche del capitalismo di mercato, hanno provocato scompensi che necessitano ora di cure da cavallo per essere corretti.
Solo che, appunto, i ceti impoveriti hanno un orizzonte temporale limitatissimo. Quando non riesco ad arrivare alla fine del mese, me ne frego di ipotetici sacrifici necessari a risolvere le crisi sistemiche. Nei confronti di chi me li chiede, la rabbia tenderà piuttosto a montare sempre più.
Fatalmente, sarò attirato da chi mi offre soluzioni immediate e a buon mercato, da chi mi promette risultati che interesseranno me, non i miei figli o le generazioni future.
Ma le élite, perlomeno quelle politiche, si definiscono tali proprio per la capacità di andare oltre l’interesse individuale e di guardare a quello generale, al bene comune. Lé élite devono avere una visione sistemica, un orizzonte temporale in grado di abbracciare le conseguenze delle proprie scelte nell’arco di anni, se non decenni.
E tuttavia, l’egoismo di chi élite non è, la concentrazione sul proprio particulare, è pienamente legittimata quando i bisogni materiali raggiungono la soglia dell’emergenza: perché dovrei interessarmi alla sfera pubblica se non riesco ad arrivare alla fine del mese?
Alcuni esempi chiariscono la difficoltà delle élite progressiste a riguadagnare terreno e a ridiventare popolari.
Partiamo dall’ambiente: lo scorso dicembre si è tenuta a Katowice, in Polonia, la Cop24, conferenza globale sul cambiamento climatico.
Una conferenza che si è conclusa con accordi giudicati poco incisivi dalla principali Ong che si occupano di ambiente.
“Si è scavato un fossato tra la realtà dei cambiamenti climatici descritta dalla scienza, con le sue conseguenze drammatiche per le popolazioni di alcune regioni del mondo, e l’azione politica”, è stato il commento di Greenpeace.
Un minimalismo bollato dagli attivisti come il frutto del disinteresse dei governi e delle élite rispetto alle conseguenze, potenzialmente disastrose, del cambiamento climatico, in nome della difesa di interessi economici nazionali.
Una narrazione che, però, ad una più attenta analisi della situazione risulta quantomeno parziale. A giudicare non più prioritarie le istanze legate al clima, infatti, non ci sono solo “i potenti”, politici o big della finanza che siano.
Sono gli strati più deboli della popolazione a ritenere, in molti casi, socialmente non sostenibile la corsa all’economia green. In quest’ottica, i governi ostili alla riduzione di emissioni di gas serra cavalcano un argomento avvertito come prioritario anche dai loro elettori: l’ecologia costa, blocca la crescita e penalizza soprattutto i più poveri.
Il populismo anti-ecologico è diventato ormai un movimento trasversale, che salda le istanze di presidenti come Trump o di grandi multinazionali con le proteste di chi si sente emarginato, in balia della globalizzazione e degli squilibri che questa produce.
Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: in Francia il movimento dei gilet gialli è nato proprio per protestare contro la tassa di Macron che alzava il prezzo della benzina, prevista dal governo all’interno di un piano per la transizione energetica del paese.
Macron ha dovuto fare marcia indietro, riconoscendo nella sostanza come quella tassa non fosse economicamente sostenibile dalle fasce più disagiate della popolazione.
La rinuncia all’ecotassa in Italia, inizialmente prevista nella legge di bilancio dal governo M5s-Lega, ha seguito lo stesso canovaccio. L’imposta verrà applicata solo alle auto di lusso, evitando così di penalizzare chi non può permettersi il passaggio a un’auto elettrica.
Il populismo anti-ecologico, del resto, è stato uno dei tanti fattori che hanno portato alla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016.
Durante la campagna elettorale, infatti, Trump martellò sulla necessità di salvare i posti di lavoro nell’industria del carbone a fronte della volontà, espressa da Hillary Clinton, di proseguire sulla strada tracciata da Obama verso l’economia green (bandiera dei Democratici fin dai tempi di Al Gore).
Poco importa che la stessa Clinton proponesse di ricollocare i minatori nel settore delle rinnovabili. Trump venne appoggiato (e finanziato) dalle lobby del settore, ma il suo messaggio fece breccia soprattutto tra i cittadini di stati, come Pennsylvania, West Virginia e Kentucky, la cui economia dipende in misura significativa dall’industria del carbone.
Anche in quel caso, quindi, i costi della transizione ecologica sono stati considerati dalle fasce più deboli della popolazione, a torto o a ragione, economicamente non sostenibili.
L’ambiente, insomma, nella percezione comune sembra scivolare progressivamente (e pericolosamente) all’interno di quella nebulosa di cui fanno parte diritti considerati “non necessari” dalle masse impoverite.
I diritti del pianeta e delle generazioni future, così, vengono risucchiati nel risentimento anti-borghese in cui sono finiti già da tempo i diritti civili, considerati nel migliore dei casi orpelli che distolgono l’attenzione dai problemi reali, nel peggiore come rivendicazioni di un’élite globalista in diretta continuità ideologica con la liberalizzazione selvaggia dell’economia e della società che spolpa i lavoratori.
Chi vede le disuguaglianze aumentare, insomma, e spera magari in una svolta socio-securitaria, sovranista e in alcuni casi assistenzialista, ha un orizzonte di attesa brevissimo, mentre gli accordi sul clima parlano di impegni da attuare entro la fine del secolo.
Il futuro del pianeta è un’istanza di natura etico-morale che, detto in termini brutali, non dà da mangiare.
Si possono fare anche esempi a noi più prossimi. Prendiamo la riforma Fornero e la contro-riforma delle pensioni (“Quota 100”) della Lega.
Elsa Fornero faceva parte di un governo, quello di Monti, chiamato a tirare fuori l’Italia da una situazione economica disastrosa, sull’orlo del default. In quel quadro, progettò una riforma che aveva l’obiettivo di adeguare l’età pensionabile italiana a quella di altri paesi europei, oltre che al crescere dell’aspettativa di vita.
Solo che, in una fase storica di sofferenza economica generalizzata, è difficile spiegare a un operaio o a un impiegato che, nel giro di 20-30 anni, il numero di anziani nel nostro paese sarà talmente alto da rendere insostenibile un nuovo abbassamento dell’età pensionabile come quello voluto dalla Lega.
Si può pensare all’interesse pubblico e a quello delle generazioni future solo se, nel frattempo, le proprie condizioni materiali di vita sono accettabili. In caso contrario, certi discorsi delle élite progressiste sembreranno non la cura proposta per i danni da loro stessi creati, ma un voler insistere con ricette fallimentari, che affamano il popolo.
Un ulteriore esempio può essere quello della Grecia: sottoposta dalla Troika a una cura da cavallo per risanare i conti, ora il paese è uscito dal programma di aiuti internazionali.
Possiamo discutere per giorni se la situazione complessiva del paese sia migliorata o meno (non tutti la pensano allo stesso modo su questo). Ma in ogni caso, anche un eventuale raddrizzamento sistemico non può aver attenuato il risentimento verso le élite di Bruxelles.
Queste ultime possono aver agito anche in nome di un superiore interesse (quello della stabilità dell’eurozona e della sostenibilità del debito greco da qui a qualche decennio), ma il cittadino greco impoverito non ha, legittimamente, la possibilità di spingere il proprio orizzonte di attesa oltre la fine del mese, quando dovrebbe arrivare lo stipendio.
Le ricette delle élite progressiste per uscire dalla crisi da loro generata, quindi, sono state etichettate come un perseverare in politiche fallimentari. Ciò ha allargato il fossato tra queste élite e il popolo, ma non si tratta dell’unica causa.
Il paternalismo delle élite progressiste
Il fossato si è allargato anche perché le élite progressiste hanno reagito con estrema (e colpevole) lentezza alle conseguenze della crisi economica del 2007.
Ci hanno messo anni per aggiustare il tiro, per riconoscere come determinate ricette andassero superate.
Nel frattempo hanno chiuso gli occhi di fronte alla realtà, sottovalutando e talvolta addirittura negando l’aumento delle disuguaglianze, l’impoverimento crescente dei ceti medi, le responsabilità della grande finanza.
“Chi ha la pancia piena non crede al digiuno”, dice un vecchio adagio, ed è esattamente quello che è successo.
Ecco allora che la crescente richiesta di protezione è stata derubricata dalle élite, in questo caso anche se non soprattutto quelle intellettuali, come razzismo, xenofobia, ignoranza.
La vaga (e spesso vuota) retorica europeista e cosmopolita con cui si rispondeva a quella richiesta ha corrisposto al classico tentativo di fermare il vento con le mani. Peggio: è stata percepita da ampi strati di popolazione come disinteresse per i propri bisogni.
Zygmunt Bauman avvertiva già negli anni ’90 sul crescente bisogno delle persone di sentirsi parte di una comunità per fronteggiare la fatale atomizzazione prodotta dalla globalizzazione. Un bisogno che si è rafforzato con la crescente percezione dell’incapacità di governanti nazionali e istituzioni sovrananzionali di fronteggiare gli effetti soverchianti del globalismo economico.
In assenza di risposte concrete, ha preso fiato una contro-retorica nazionalista e neo-sovranista. Ma come ha scritto Giuliano da Empoli nel suo libro La rabbia e l’algoritmo, esistono dei “populisti riluttanti”, elettori che non sono populisti per caratteristiche ontologiche, ma che si rivolgono agli unici che propongono soluzioni, demagogiche o meno che siano.
In Italia, il Partito Democratico quando era al governo ha insistito a lungo nel celebrare il fatto che il Pil stesse crescendo di qualche decimale, che ci fosse qualche occupato in più, senza mai formulare una proposta forte, capace di mettere in discussione lo status quo riconoscendo l’esistenza di una sofferenza diffusa.
Nella scorsa campagna elettorale ha elaborato un programma in 100 punti, e abbiamo ragione di credere che nemmeno i suoi stessi esponenti siano in grado di ricordarne anche solo 10, di quei 100 punti (figuriamoci gli elettori).
Risultato: è stato travolto da una proposta tanto semplice quanto in grado di parlare a tutti, il reddito di cittadinanza, oggetto di scherno e risatine e che invece andava a intercettare quella richiesta inascoltata di protezione sociale.
Possiamo valutarla una ricetta demagogica, così come “Quota 100”, ma restano le uniche idee forti emerse nella scorsa campagna elettorale.
Le élite progressiste, nel caso italiano la dirigenza del Partito Democratico, potevano scegliere di formularne altre, di idee forti, magari meno demagogiche, o di dire che andava tutto bene così com’era. Hanno scelto la seconda opzione, con i risultati che conosciamo.
Ci sono altre élite progressiste che si sono comportate in maniera altrettanto paternalistica in snodi fondamentali per le sorti della politica mondiale.
Prendiamo la Brexit. “Accetteremmo i risultati del referendum, se solo non fossero stati determinati dalla disinformazione e dalla frustrazione della gente”, aveva detto poco dopo il referendum un sostenitore del Remain, organizzatore di una manifestazione di piazza pro-Ue a Londra.
Ma come avevo scritto con un collega in questo articolo su Rivista Studio, la frustrazione della gente va compresa nelle sue motivazioni, non colpevolizzata.
In quell’articolo rilevavo come “un report condotto dal parlamentare Jon Cruddas ha concluso che il Labour rischia di diventare ‘irrilevante per la maggior parte della working class’ e che la sua base elettorale si sta restringendo a elettori delle grandi aree metropolitane, mediamente benestanti e colti. Cruddas ha esortato il suo partito a ‘smettere di trattare in modo paternalistico i sostenitori dell’Ukip’, e a riconoscere che ‘l’Ukip stesso sta diventando attraente per molti elettori di sinistra’”.
Nel pezzo, richiamavo anche le tesi dell’economista Paul Collier, una riflessione da sinistra sulla necessità di regolare i flussi migratori. Collier, nel suo libro del 2013 Exodus. I tabù dell’immigrazione, evidenziava come anche la sinistra dovesse iniziare a ragionare sul tema con un approccio non ideologico.
La sua tesi di fondo è che le società, specie quelle rurali e culturalmente meno avanzate, possono sostenere la diversità culturale solo fino a una certa soglia, oltre la quale si innescano meccanismi di xenofobia e di eccessiva erosione della coesione sociale.
Collier sostiene appunto che “anche la xenofobia è un esito possibile quando le differenze culturali all’interno di una comunità locale, specie se economicamente non molto sviluppata, sono eccessive”.
In generale, la Brexit è stato il frutto di un risentimento generato dalla crisi economica e, anche qui, dal senso di una mancata protezione da parte delle élite. Un risentimento magari male indirizzato, ma certamente anche non compreso o grossolanamente ignorato da quelle stesse élite.
Il ripiegamento della sinistra sui diritti
Altro punto su cui le élite progressiste, specie quelle di sinistra, hanno maldestramente mancato il punto, perdendo progressivamente contatto con la maggioranza degli elettori, ha a che fare con l’eccessiva concentrazione sulla sfera dei diritti individuali.
Una tesi sostenuta da Giovanni Orsina, ma prima ancora di lui dal politologo americano Mark Lilla.
Ciò che Lilla spiega in maniera efficace, in particolare nel suo libro L’identità non è di sinistra (Marsilio), è che i movimenti sociali, universitari e in generale extra-partitici della sinistra americana degli anni 60-’70 sono progressivamente scivolati nella santificazione dei diritti individuali, incapace di fondersi con un progetto politico che includesse tutti, non solo le minoranze che pure andavano difese.
Non solo, ma l’enfasi sui diritti, per Lilla, ha prodotto il mostro della “politica dell’identità”: chi faceva parte di un movimento sociale tendeva a identificare la propria battaglia politica con la ricerca e l’affermazione della propria identità.
Nasce così un “romanticismo politico”, la sinistra si frammenta in fazioni sempre più piccole “ossessionate da poche tematiche e impegnate in una corsa continua al rialzo ideologico”.
Ci si concentra sui diritti e si dimenticano i doveri, si fanno battaglie per le minoranze ma si trascurano le richieste di larghi strati di società americana, in particolare quella che vive tra le due coste, culturalmente meno avanzata e di conseguenza meno attratta dalla questione dell’estensione dei diritti individuali.
Per Lilla tutto questo rappresenta un “reaganismo di sinistra, un individualismo con una patina intellettuale, solo più sentimentale e meno bigotto”. La sinistra movimentista, e i partiti che ne raccolgono le istanze, vengono insomma presto percepiti come élite da gran parte della popolazione.
Una problematica che non è solo americana e che diventa sempre più seria col passare degli anni, quando i movimenti sociali diventano espressione non più della classe operaia, quanto piuttosto di una élite medio-alto borghese dei centri urbani.
Come spiega Orsina, “rimasta orfana del proletariato, dell’utopia comunista, del keynesismo, e in buona misura pure del welfare state, la sinistra occidentale ha trovato due nuove bandiere nell’estensione dei diritti individuali da un lato, e nell’accelerazione dei processi d’integrazione sovranazionale dall’altro. Non potendo più contrapporre all’identità nazionale e alle sue tradizioni l’identità di classe, insomma, s’è dedicata alla decostruzione di ogni identità”.
“Chi agita quelle due bandiere – continua Orsina – sarà strutturalmente incapace di rispondere alla domanda d’identità che continua a salire dalle comunità politiche, e che si va anzi facendo tanto più forte quanto più quelle s’indeboliscono. Troverà poi sempre più difficile rivolgersi agli strati della popolazione che, per carenza di risorse sia cognitive sia materiali, faticano ad avvantaggiarsi dell’estensione dei diritti individuali e della crescente integrazione sovranazionale”.
Ecco insomma la storia di come il movimentismo di sinistra ha finito per rafforzare la percezione della sinistra stessa come una élite distante dai bisogni della gente.
In Italia, attualmente, il centrosinistra sta cercando di rilanciarsi con una formula ben chiara nei suoi propositi: allargare la partecipazione, coinvolgere le associazioni, i movimenti, le realtà locali, i comitati civici.
Sarebbe questa, insomma, la formula per tornare ad essere popolari e non venire più percepiti come élite.
Una prima prova c’è stata con le elezioni regionali in Abruzzo: il candidato del centrosinistra Giovanni Legnini era appoggiato da una galassia di liste civiche, espressione della società civile abruzzese nelle sue varie articolazioni.
Un esperimento che, almeno in Abruzzo, sembra aver funzionato, dal momento che Legnini ha ottenuto un buon 31 per cento.
Il favorito per la segretaria del PD, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, propone da tempo uno schema analogo: allargare la base sociale del Partito Democratico aprendosi a movimenti, associazioni e realtà locali.
L’intento è nobile, ma la sinistra deve fare attenzione a non commettere gli errori del passato, credendo che movimenti e associazioni “siano il popolo”. Non è così, e abbiamo visto perché.
Per tornare ad essere popolare e maggioritaria, la sinistra fa bene ad aprirsi a queste realtà, ma deve al contempo formulare proposte forti, in grado di essere comprese da tutti e che parlino a tutti.
Oggi la partecipazione politica è, purtroppo, in calo, e credere di poter diventare maggioritari parlando solo a movimenti e ad associazioni civiche significa commettere un grave errore di prospettiva.
Non a caso lo stesso Mark Lilla, di recente, ha commentato negativamente la candidatura alle primarie dei Democratici per le presidenziali Usa 2020 di figure, come Elizabeth Warren, fortemente identificate con le loro battaglie in difesa delle minoranze.
Essere percepiti come candidati “delle minoranze” impedirebbe, secondo Lilla, di presentarsi come i candidati “di tutti”, in grado di entrare in sintonia con l’elettorato delle zone rurali, i ceti medio-bassi che vivono tra le due coste.
Lo stesso Lilla, in una recente intervista, ha dichiarato che solo un candidato di sesso maschile e bianco può essere in grado di diventare maggioritario nel paese.
Nel 2012, quando fu eletta senatrice in Massachussets, Elizabeth Warren aveva riscontrato le maggiori difficoltà tra gli operai bianchi, che avevano indirizzato il loro voto verso il repubblicano Scott Brown.
Un problema che, secondo alcuni, potrebbe riproporsi a livello nazionale qualora Warren vincesse le primarie democratiche e sfidasse Trump alle elezioni presidenziali del 2020.
La sfiducia nei confronti delle élite: le cause endogene
La colpa è quindi tutta delle élite progressiste? No, perché questa, come qualsiasi spiegazione monocausale, renderebbe l’analisi eccessivamente parziale.
Giovanni Orsina, nel suo libro La democrazia del narcisismo, va alla ricerca delle origini profonde di questa rottura del patto tra popolo ed élite, e le rintraccia in una serie di elementi endogeni della democrazia che ne hanno determinato la crisi.
Orsina richiama opportunamente le analisi di Tocqueville sulla democrazia americana nell’Ottocento: un contesto socio-politico in cui era emersa quella tendenza a interpretare i valori democratici come livellamento verso il basso, a guardare con sospetto chi eccelle in nome di un egualitarismo nella mediocrità.
A ciò si aggiunge, nelle parole di Orsina, la “promessa che ciascun essere umano abbia pieno e assoluto controllo sulla propria esistenza”: la democrazia diventa una sfrenata corsa all’autodeterminazione soggettiva, i diritti soppiantano del tutto i doveri, i desideri degli individui diventano illimitati e tutti concentrati sulla sfera materiale e sul proprio privato.
Viene meno la tensione etica, l’attenzione alla sfera pubblica, e il soggetto democratico viene risucchiato in una spirale narcisistica.
Una tendenza che, nel corso del tempo, si acuirà nelle società democratiche e porterà all’identificazione delle élite e della politica come capri espiatori dell’impossibilità di soddisfare un desiderio individuale ormai privo di limiti, continuamente alla ricerca di nuove fonti di appagamento.
Il cittadino narcisista perde il senso del limite ed è totalmente ripiegato sul presente: quello stesso “presentismo” che, come abbiamo visto, impedisce (legittimamente) alle masse impoverite di guardare oltre il proprio interesse immediato.
Anche in questo caso, si può dire che la crisi economica fa da detonatore a malattie culturali più profonde, conferendo loro però una sorta di legittimazione: il cittadino ha ora il diritto di essere narcisista e di guardare solo al presente, perché i bisogni che deve soddisfare sono innanzitutto quelli primari.
La lettura di Tocqueville (e quella di Orsina che la fa sua collegandola alle derive populiste odierne) può essere integrata con quella di altri autori che, tra Ottocento e Novecento, collegavano la svalutazione dei saperi, delle competenze, la critica alle élite insomma, con la nascita di una “società del narcisismo” sempre più livellata verso il basso, in balia degli interessi privati illimitati delle persone, totalmente priva di sostanza etica.
Nell’analizzare la modernità ottocentesca figlia delle due rivoluzioni industriali, Marshall Berman, nel suo celebre testo Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria (1982), descriveva “un paesaggio costellato di macchine a vapore, fabbriche automatizzate, ferrovie, nuove e ampie zone industriali; di brulicanti città sorte nello spazio di una notte […], di quotidiani, telegrafi, telefoni e altri mezzi di comunicazione di massa […], di un mercato mondiale in continua espansione”.
Nella lettura del filosofo americano, la modernità va di pari passo con una serie di cambiamenti trainati proprio dal processo di industrializzazione, e che includono: la trasformazione della conoscenza scientifica in tecnologia, gli sconvolgimenti demografici e lo sradicamento di milioni di persone dai loro contesti di origine, i mezzi di comunicazione di massa, un mercato capitalista ormai mondiale.
L’effetto di questi mutamenti materiali è quello di un’atmosfera di sempre maggiore incertezza, un vortice di fluttuazione, che conduce all’erosione delle basi solide dell’epoca pre-industriale in cui le persone erano ancorate a delle comunità di appartenenza.
Ma questo dinamica implica anche un’accentuazione dei processi di liberazione del sé, dell’identità, ora in mutamento perpetuo e priva di riferimenti stabili. Per molti autori, soprattutto di scuola marxista, c’è un collegamento diretto tra queste dinamiche tipiche della modernità e la progressiva affermazione della cultura del narcisismo.
Un soggetto liberato dalle gerarchie e dalle coazioni dei codici e delle regole è ora nelle condizioni di creare la propria identità come un’opera d’arte. È un soggetto che si preoccupa solo della sua auto-espansione e di una ricerca senza fine di piaceri e sensazioni, secondo il modello del Faust di Goethe, che assurge al ruolo di emblema della modernità proprio a causa della sua insaziabilità conquistatrice e creatrice.
Analogamente ai marxisti, altri autori di scuola conservatrice hanno sottolineato come il passaggio alla società post-industriale e post-moderna, tra gli anni ’60m e ’70 del Novecento, acuisca queste malattie culturali.
Le virtù borghesi del pragmatismo e della temperanza, secondo autori come Daniel Bell, costituivano in epoca moderna la condizione di possibilità di un ordine sociale che non fosse preda dell’individualismo di soggetti guidati esclusivamente dalla ricerca del piacere personale.
Per Bell, nella postmodernità trionfa invece un individualismo che mette completamente da parte i valori che dovrebbero tenere insieme una comunità, quei valori riconducibili alla classe media borghese tra Ottocento e Novecento: pragmatismo, senso del dovere, rispetto per l’autorità, ma soprattutto limitazione dei propri desideri in funzione del benessere collettivo, ovvero consapevolezza che il bene comune può essere raggiunto solo attraverso l’equilibrio tra interesse privato e interesse pubblico.
A parere di Bell, ciò viene sostituito progressivamente da un concetto di libertà che implica l’essere “liberi da legami di appartenenza a una famiglia, a una comunità o a uno Stato; essere responsabili di se stessi; plasmare o riplasmare se stessi, secondo le proprie ambizioni”.
L’etica del noi, insomma, in una certa fase della modernità viene sostituita con il narcisismo dell’io.
Tutte tendenze rilevate anche nel testo più importante sul sovvertimento dei valori morali nel secondo dopoguerra, La cultura del narcisismo (1979) di Christopher Lasch.
Per Lasch il narcisismo divampa poiché non esistono più codici, tradizioni o semplicemente prescrizioni all’interno dei quali poter inscrivere la propria azione e poterne valutare la sostanza etica. Crollati tutti i riferimenti normativi, resta solo l’inseguimento delle sensazioni.
Il progresso tecnologico, la circolazione rapida e incontrollata di immagini e segni che prende corpo in particolare nel secondo dopoguerra nella cosiddetta società post-industriale, secondo questa lettura non fanno altro che aggravare queste malattie culturali.
Si alimenta cioè una cultura del visuale, dell’immediatezza sensibile, che mina le capacità riflessive degli individui e accentua la concentrazione edonistica sul raggiungimento di piccoli piaceri quotidiani e sul presente, su ciò che si può ottenere ora da soli a scapito di ciò che si può ottenere con la propria comunità nel tempo.
E quando un cittadino diventa insaziabile, la sua perpetua insoddisfazione verrà scaricata su chi detiene il potere, sulle élite considerate non in grado di soddisfare bisogni sempre crescenti.
Sanremo c’entra qualcosa?
Come detto all’inizio, lo scontro tra élite e popolo si è arricchito, di recente, del capitolo sul Festival di Sanremo. La vittoria di Mahmood è stata interpretata da molti, Di Maio in primis, come un atto di imperio delle élite, impersonificate dalla giuria di qualità, che hanno sovvertito il verdetto del popolo.
Anche in questo caso il tema non è affatto nuovo. Lo scontro tra popolo ed élite è legato, storicamente, anche alla popolarizzazione dei canoni estetici che prende piede nel secondo dopoguerra con la nascita della società dei consumi.
Una popolarizzazione spesso rivendicata con orgoglio da alcuni dei principali teorici di questa nuova sensibilità.
È il caso di Leslie Fielder, scrittore americano che nel 1965 celebra l’approdo di un atteggiamento anti-elitario che, a suo parere, è giusto cominci a pervadere la produzione artistica e letteraria, nonché quella accademica.
Per Fielder era giunta l’ora di abbandonare l’immaginario dell’artista maledetto, poco apprezzato dal pubblico poiché promotore di modelli estetici elevati e impossibili da comprendere per le masse, e passare invece ad una progressiva popolarizzazione della cultura in grado di raggiungere la gente comune anche attraverso l’abbandono dei canoni seriosi dell’arte elitaria.
Nello stesso periodo, Susan Sontag scrive le celebri note sull’arte Camp, ovvero quello stile decorativo e kitsch basato sul gusto per l’ostentazione, l’esagerazione, e che per la scrittrice americana ha il compito di veicolare una sensibilità disimpegnata, depoliticizzata, di celebrare cioè il trionfo dello stile sul contenuto e di convertire il serio nel frivolo.
Questo processo viene letto come una reazione ai canoni estetici delle élite, una sorta di democratizzazione della cultura che toglie alle élite stesse il monopolio nella definizione dei canoni estetici.
Per il sociologo Scott Lash esiste un legame evidente tra una serie di processi che si attivano nel secondo dopoguerra (la terziarizzazione dell’economia, i mezzi di comunicazione elettronici, la circolazione di artefatti culturali e di segni) e la nascita di un nuovo pubblico adatto alla diffusione di prodotti culturali commerciali e popolari.
“Si tratta infatti di classi medie post-industriali che hanno un’intera gamma di fonti d’identità differenti da quelle dei raggruppamenti di più antica data e sono portate a percepire i propri ‘interessi ideali’ in termini di una gamma completamente diversa di simbolismi e di una gamma completamente diversa di oggetti culturali – scrive Lash – Di conseguenza il populismo e la centralità dell’immagine tipica del postmodernismo risulta più affascinante per i nuovi raggruppamenti di quanto non lo sia per la vecchia élite”.
Il pubblico della borghesia post-industriale, insomma, è interessato quasi esclusivamente al consumo di prodotti culturali popolari, come il cinema hollywoodiano o la Pop Art, contribuendo così a scrivere la parola fine sul carattere di dannazione e trascendenza della sfera artistico-estetica.
Ma abbassare lo standard estetico può portare ad un contemporaneo abbassamento di quello morale. L’arte, infatti, perdendo la sua funzione liberatrice, emancipatrice, seria ed etica, e trasformandosi in intrattenimento, verrebbe privata della sua funzione pubblica, riducendosi a consumo privato.
Per un critico della postmodernità come Fredric Jameson vi è uno stretto legame tra la popolarizzazione dell’arte e la formazione di un cittadino narcisista, privo di prerogative quali la responsabilità morale e il senso del dovere.
Il tutto si accompagna a una svalutazione delle competenze in campo artistico: non sono gli intellettuali a doverci dire cosa ha valore da un punto di vista estetico, è il gusto popolare a dettare legge. Le élite, insomma, hanno fallito anche in campo estetico.
Sostituite Jameson con Di Maio e la Pop Art con Mahmood, Ultimo e il Festival di Sanremo, e il gioco è fatto.
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