Sembra strano che a dircelo siano state le uniche elezioni puramente proporzionali rimaste in Italia, ma nel nostro Paese sembra inevitabile che si vada verso una stagione di bipolarismo. Questo ce lo dicono i dati elettorali con due partiti come Fratelli d’Italia e il Partito Democratico che staccano in modo netto i partner di maggioranza e opposizione prendendosi i ruoli guida delle due fazioni, ma ce lo dice anche il fatto che la somma dei partiti di governo e la somma delle forze di opposizione presenti in parlamento è pressoché equivalente: è vero che in politica uno più uno non fa per forza due e che un’alleanza non si sigla in un giorno, ma di questo dato non si può non tener conto.
Al di là della difficoltà nel creare una coalizione quasi sistematica per l’area di centrosinistra – ricordiamo tutti come nel 2022 il segretario dem Enrico Letta puntasse al “campo largo” ma alla fine ne siano venute fuori tre realtà separate -, una serie di elementi porteranno, al di là di accordi e patti vari, le forze di opposizione a compiere delle scelte ed essere dalla stessa parte della barricata in alcune battaglie.
Lo stiamo già vedendo in questi giorni in parlamento, nel dibattito sull’autonomia differenziata, con le opposizioni unite nel fare battaglia e nel cercare sponde nel centrodestra del meridione, nel lanciare in seguito all’approvazione del parlamento un referendum che sarà dunque un modo per unire tutte le forze politiche contrarie a questa riforma senza necessità di coalizioni, candidature, quote e seggi. Ma se questo referendum è al momento solo un’idea lanciata da alcuni, che richiederebbe una raccolta firme e il raggiungimento di un quorum, c’è un altro voto del genere che sembra destinato a essere ben più concreto, ovvero il referendum costituzionale sul premierato che arriverebbe a seguito dell’approvazione della riforma tanto cara a Giorgia Meloni.
Si tratterebbe di un voto a favore o contro, senza bisogno di quorum e senza vie di mezzo, con un vincitore e uno sconfitto chiari, che porterebbe tutti i contrari a coalizzarsi e fare campagna per la stessa opzione e in cui un 48 per cento che potrebbe garantire un’ampia maggioranza alle elezioni si tradurrebbe in una sconfitta. Lo sa bene, suo malgrado, e lo ha ricordato in tempi recenti, Matteo Renzi, che nel 2016 dopo la sconfitta nel “suo” referendum costituzionale dovette lasciare Palazzo Chigi, subendo un duro contraccolpo per il suo prestigio politico. I referendum sono così, un “all-in”, in cui ci si mette in gioco e se si vince si esce trionfanti, ma se si perde si deve far fronte alle conseguenze. Ma è anche quel voto in cui il fronte dei contrari, anche se frammentario, è in grado di unirsi. Se la coalizione d’opposizione non la faranno i partiti, forse a farla sarà il corso degli eventi.