Fenomenologia dell’artista progressista nel terzo millennio. Moretti – Gabriel, Vite parallele, dei due mostri sacri progressisti, settantenni, ma non integrati
Vite parallele, della migliore “world left” culturale del Novecento, sorpresa nel passaggio di epoca del millennio. Si può individuare un eclettico filo di continuità fra l’ultimo concerto (e l’ultimo disco) di Peter Gabriel e l’ultimo film di Nanni Moretti? Ovviamente si, in primo luogo, perché questo filo c’è per me. Ma si può, anche, perché l’anello di congiunzione tra queste due storie non è solo una suggestione personale. Sono due artisti che fanno entrambi parte del romanzo di formazione di una generazione, oltre che essere tasselli di una mia identità civile e politica: io sono quello che penso, come tanti altri, perché ho imparato da loro. E poi gli ultimi lavori di questi due artisti – il disco “I/O” e il lungometraggio “Il Sol dell’avvenire” – sono due opere artistiche bellissime e molto più comparabili di quanto non sembri a prima vista, anche sul piano ideale e concettuale. Peter Gabriel, classe 1950, ha 73 anni. Nanni Moretti, classe 1953, sta per compiere 70 anni.
Gabriel può vantare una storia artistica precoce e lunghissima (che non staremo qui a ricordare) nel grande libro del rock, a partire dai Genesis, alla fine degli anni Settanta. Ma ricomincia la sua carriera nel 1977, da solista e sperimentatore, dopo aver scelto di rifiutare la mummificazione dello star system. Moretti ha iniziato la sua carriera cinematografica nel 1976 con il memorabile “Io sono un autarchico”, diventando lo spiritaccio critico e ribelle del cinema italiano. I Genesis vennero riconosciuti in Italia prima che in Gran Bretagna, Moretti spesso è stato più amato dai francesi che da certi italiani. Gabriel si è tolto lo sfizio di regalare una attesa anteprima mondiale di un suo disco – Up – al palco della festa patronale di Arzachena (ha sposato una sarda), Moretti è di casa a Cannes, più che a Venezia, conta su un pubblico di fedelissimi in Francia. Gabriel, per la disperazione dei suoi fan, fatica a fare un disco ogni sette anni.
E anche Moretti, persino nel film, scherza sulla sua difficoltà di girare un film ogni cinque. Sono due artisti progressisti, che sono stati – diversamente – bandiere giovanili, contestatori del proprio mondo, costruttori di codici e linguaggi nuovi, sperimentatori, nonché generosamente produttori di talenti altrui, in nome di una asciutta e coerente idea di “restituzione” realizzata attraverso due splendide botteghe artigiane: la “Real World” di Peter come la “Sacher” di Nanni.
Ma per tornare all’inizio ricomincio dalla fine, o meglio dai finali. Il finale del concerto di Gabriel a Verona (sabato) e a Milano (domenica), con una potentissima versione live, ancora una volta, della sua più bella canzone di battaglia, “Biko”, inno apotropaico dedicato al militante anti-apartheid trucidato in Sudafrica dagli aguzzini afrikaner, durante il regime segregazionista. E il finale de “Il sol dell’avvenire” che Moretti chiude con il suo ormai celebre “corteo trotskista” e libertario e sincretico per le vie di Roma. Sul palco con Gabriel ci sono tutti i vecchi e nuovi compagni di strada, a partire dai musicisti-feticcio (e amici per la pelle): il bassista Tony Levin e il percussionista Manu Katchè. Nella solare e crepuscolare parata diacronica di Moretti ci sono tutti i suoi attori prediletto, da Margherita Buy a Silvio Orlando, ai più vecchi compagni d’armi: Jasmine Trinca a Renato Carpentieri, e tanti altri.
Confesso che sia l’ultimo spettacolo di Gabriel che l’ultimo film di Moretti mi hanno avvinto, a tratti persino commosso, stregato per il senso epico di cui sono carichi. Gabriel miscela nel suo ultimo repertorio di scaletta le nuove canzoni con i vecchi cavalli di battaglia, trova una nuova formidabile protagonista, la strumentista di colore, Ayanna Witter – Johnson, (compositrice, cantante, violoncellista, ne sentiremo sicuramente riparlare) che veste il rullo che nel 1987 fu ricoperto da una divina Kate Bush intreccia il duetto con Gabriel in “Don’t vive 8”up”, la più bella cantata su un uomo e una donna che si amano e trovano insieme la forza di resistere alla fine del lavoro.
Cosa unisce due artisti così diversi, giunti a questo venerabile traguardo anagrafico? Che non hanno gettato la spugna. Non si sono integrati, non si sono arresi allo star system. Non si sono svenduti. Non si sono (auto) clonati come i cineasti fotocopia, o come le geronto-rockstar che si auto costringono a diventare avatar di se stesse.
Gabriel invecchia e non ha paura di mostrare ciò che ha perduto: cambia la sua rappresentazione, un tempo cinetica, acrobatica mascherata e visionaria (poco meno di metà del concerto lo suona da seduto), si concede venti minuti di fine primo tempo a metà dello show. E anche Nanni non nasconde le rughe dei primi piani, gli occhi sgranati che non ammiccano più in camera, tempi verbali dilatati e lentissimi, pause e ossessioni pedagogiche para-senili. Gabriel fa partire il coperto da una meravigliosa sessione strumentale di “Growing Up”, con i musicisti in cerchio con gli archi levati: “In fondo – dice in un buffo e intrigante italiano britanofono – la musica è nata così, con degli uomini che si mettono a suonare intorno ad un fuoco!”.
Anche Moretti accende il suo film con un gesto corale, il brindisi festoso sotto il capannone del “Circo Budavari” (che è contemporaneamente il set del film d’epoca e del suo doppio, il metafilm contemporaneo), in un immaginario quartiere Quarticciolo, dove si beve una implausibile “Acqua Rosa” (intitolata alla Comunista libertaria Rosa Luxemburg). È un film storico, ambientato in un teatro di passioni giovanili Morettiane. Dove non manca il palleggio, anche se il Nanni di oggi fatica a fare i tre tocchi consecutivi, comunque bellissimo.
Le due compagnie di giro sono entrambe raccolte intorno al perno del racconto, musicale o cinematografico la differenza non importa: perché sono sempre gli amici che ti aiutano ad attraversare la tempesta dei tempi. E la lezione di Nanni e Peter, è che la strada si fa con gli amici.
Gabriel dedica un monologo all’inquietudine del “Panopticon”, il suo ultimo singolo: “L’intelligenza artificiale può cambiare il mondo, ma anche distruggerlo. Può essere una opportunità di cura, e di uguaglianza ma anche di oppressione e di potere”, dice, mentre la terra, nel grande schermo che sovrasta il palco, si trasforma – in una bellissima animazione – da pianeta a grande occhio, stile Grande fratello. Mentre Moretti costruisce una meravigliosa invettiva sarcastica al vetriolo nell’immaginario dialogo con i produttori di Netflix che bocciano la sua candidatura, infilando una spericolata sequenza gergale: “Voi dovete essere più ambiziosi! I nostri prodotti sono visti in 190 paesi! Qual è l’arco narrativo di questo protagonista? Questa sceneggiatura ha uno slow burner che non esplode! Questo film ha un set up troppo ritardato. E soprattutto: manca del tutto un what a fuck!”. La battuta migliore del film, probabilmente.
Dopodiché i due mostri sacri entrano nel loro territorio di caccia, e li sono maestri, inarrivabili come sempre. Moretti fa la cover del pan carré con la Nutella imbacuccato nella coperta rituale, davanti al film prediletto in bianco e nero. Gabriel fa la cover dei suoi successi con una muova frontiera di sonorità etno-jazzistiche: ed é così per Sledgehammer” (ma anche per “Big Time”, la canzone sulla poetica dell’eccesso) che suonate con questi arrangiamenti sembrano due capolavori senza età. Così come le citazione esplicita di “Bianca”, o per le pillole di “Caro Dario”, sequenza in monopattino elettrico attraversando il quartiere Mazzini. Dettagli che sono incastonati come perle nel “Sol dell’avvenir”, con per il Roman Polansky che recita se stesso, in una meravigliosa variante picaresca e cialtrona.
Cosa riesce a Moretti che non riesce a tanti loro coetanei che diventano gerontosauri di successo e replicanti industriali di se stessi? Risposta tanto semplice quanto definitiva: la poesia. Cosa riesce a Gabriel? La stessa cosa. Springsteen, o Jagger sono delle formidabili macchine meccaniche musicali che costruiscono ottimi show e ottimi origami “a 45 giri”. Proprio come il Marco Bellocchio senile copia Paolo Sorrentino, al pari del traduttor dei traduttori d’Omero, Vincenzo Monti. Mentre Gabriel e Moretti riescono nell’impresa di diventare classici di se stessi. E qui mi viene da citare Italo Calvino: “Un classico è un libro che non smette mai di dire quello che ha da dire”. Che io – molto immodestamente – ho perfezionato così: “Un classico è un libro che non smette mai di dire quello che ha da dire. E che riesce a dire cose diverse in tempi diversi”.
Perché, se ci pensate, “1984” di George Orwell dice molto più oggi, sullo spettro delle utopie negative, più di quanto non dicesse nel 1948 quando fu scritto, e veniva letto come una semplice parafrasi del totalitarismo. Esattamente come mille vite hanno avuto decine di libri che già ne avevano avute altre, basti pensare – se invece vogliamo citare una canzone – alle continue rinascite di “Bella ciao” che, come ho provato a raccontare ne “La Scorta di Enrico”, nasce come canto di lotta (ma di lotta sconfitta) delle mondine. Riascoltare – nel dubbio – la meravigliosa filologica e dolente versione di Giovanna Marini.
Ma lo stesso canto, con un banale cambio di tempo, diventa inno di liberazione a passo di carica, già nel 1945, trasformandosi nella colonna sonora neoresistenziale contro il berlusconismo nel 1994 (la versione para-gaelica dei Modena City Ramblers), e – indifferentemente – cantata di guerra di liberazione contro l’integralismo dell’Isis (nella bellissima variante curda), o hit pop e ribellistica ne la “Casa di carta”. Ti svegli sempre di mattina, ma sei sempre pronto per nuove battaglie.
Ecco, il cuore del film di Moretti è la sublimazione del dilemma del Moretti giovane: se il PCI nel 1956 avesse condannato l’invasione dell’Ungheria la sinistra italiana avrebbe aperto una sliding door che poteva permettere la nascita di una grande sinistra libertaria capace di non rompere il cordone ombelicale con i giovani. E il anche cuore del concerto di Gabriel è il frutto della sua meravigliosa inquietudine dei vent’anni: svegliarsi una mattina dopo un sogno in bianco e nero, con l’ansia di mettere su carta la potentissima apologia ritmica di un martire. Un uomo torturato che altrimenti sarebbe stato dimenticato dal mondo: Stephen Biko.
Il giovane Gabriel, come il giovane Moretti, fondeva questa elegia libertaria con una strepitosa sperimentazione musicale: la sua storia rock, contaminata con il suono di una cornamusa, vestita con versi africani, attraversata e scandita dal ritmo delle percussioni etniche indiavolate, e (soprattutto all’epoca) musicalmente rivoluzionarie di Manu Katchè. Quella del Gabriel di Biko è una voce potente come un’invettiva: “You con/ blow out a candle/ but you can’t blow out the fire/ Once the flames/ begin to catch/ The wind will blow it higher”. Quel fuoco portato in alto dal vento brucia ancora, come la passione giovanile di Nanni per il corteo libertario trotskista che negli anni Cinquanta non c’è mai stato. E che bel futuro non potrà essere mai.
Non è un caso che, ogni volta che Gabriel chiude i suoi concerti, da mezzo secolo, le note di Biko siano sempre le ultime note. La liturgia. La bandiera di libertà che non viene mai ammainata. Come per i classici di Calvino, in questa tournée le note di Steven Biko sono tornate a cantare. Ma a Verona Gabriel ha sentito il bisogno di dover introdurre la canzone con questo nuovo discorso introduttivo. In piedi. Con un fondo rosso fuoco alle spalle. Con una marsina a doppia fila di bottoni d’oro: “Questa canzone è per tutti coloro che sono disposti a difendere il proprio popolo. A qualunque costo”. Boato del pubblico: “Ovunque stiano combattendo contro l’oppressione, che si tratti di uiguri o tibetani in Cina, che si tratti del popolo Rohingya, che si parli dei palestinesi o di coloro che lottano contro il razzismo, ovunque esso si manifesti”. Gabriel prosegue: “Questa canzone è per un uomo che mi ha insegnato che ognuno di noi può cambiare il mondo in cui viviamo. É per un uomo che ha corso un rischio che gli è costato la vita: è per Stephen Biko”.
Sentir cantare questi versi, il sogno in bianco e nero nel 1977, che si tinge di sangue rosso, fatto da un uomo di 73 anni, non è la stessa cosa che sentirli cantare da un ragazzo di trenta, o un artista di quaranta. Scegliere il proprio repertorio, per un artista, è il dilemma più difficile del racconto.
Gabriel e Moretti sono oggi due vecchi saggi che contemplano le loro vite scegliendo cosa portare, e cosa no, nel futuro, della propria storia passata. Penso a quanto questo esercizio sia difficile mentre Gabriel duetta con Ayanna nel meraviglioso coro finale di Biko, è tutto il Palasport di Asiago si accoda. Ci penso quando, secondo questa liturgia laica i musicisti scendono uno ad uno dal palco con il pugno levato. Mentre Manu Katchè continua a pestare il suo ritmo indiavolato e metricamente perfetto sul palco. Finiscono i cori. Finiscono i suoni etnici ed elettrici. Resta solo questo meraviglioso ritmo da rapsode, e quella intuizione creativa Biko-bikó-because-Biko! E alla fine, solo sei battute di percussione e i musicisti muti sull’attenti, davanti al pubblico sul palco. Finisce il corteo metafisico delle utopie di Moretti con tutti gli attori di tutti i Fiom di una vita che sfilano, e l’ultimo fotogramma di Nanni che saluta.
Ecco cosa possono fare i giganti, ma ecco anche le loro colonne d’Ercole. Possono farci venire i brividi portando a perfezione classica quelli che nella loro storia artistica è stata la collisione feconda tra idealità inquietudine. Ma non riescono più a mettere a fuoco, con la stessa scintilla intuitiva, quelli che turbina intorno a loro nel nuovo tempo. Lo sguardo caustico e geniale di Moretti non si esercita più sulla partitaria del presente: nessuna battuta su “li conosco quelli della Fgci dei biliardini”, su “siamo diversi o siamo uguali”, fino al proverbiale “D’Alema di qualcosa di sinistra!”. Non erano battute. Erano epigrammi, ferri del mestiere. Ma questa sintesi sul tempo contemporaneo il Moretti di oggi non la fa più. Così come Gabriel, nelle sue nuove canzoni canta tante cose interessanti, fra cui una bellissima elegia della sua casa. Scrive nuove canzoni d’amore. Ma non cerca più un nuovo Stephen Biko da trascinare nella storia con la forza che mosse il cielo e la terra, quella della febbre insonne e creativa. Moretti e Gabriel non fanno come gli altri, non cedono alla tentazione di copiare se stessi. Sublimano i sogni della loro giovinezza, li trasformano in lezione.
La nuova battaglia libertaria di Moretti, la battuta folgorante e definitiva sulla Schlein o sulla Meloni la troverà un altro. Il nuovo Don’t give up di Gabriel lo scriverà qualcuno che era in platea. Il nuovo Stephen Biko, che magari oggi è chiuso in un carcere turco, o che è stato arrestato insieme a Giulio Regeni per ordine di qualcuno dei dittatori con cui secondo qualcuno “bisogna trattare” lo dovremmo trovare noi. O, meglio ancora, qualcuno dei ventenni con gli occhi grandi, che ho visto alzarsi in piedi per Biko, e tornare dalla notte di Assago con gli occhi grandi. Un classico può dire molte cose, ma è sempre una lezione per chi sa capirla. Because-Biko. In fondo, direbbero quelli di Netflix, il what-a-fuck! è questo.
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