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    La nipote di Peppino Impastato a TPI: “In Italia ancora tanti casi in cui le responsabilità dello Stato sono gravi”

    Luisa Impastato parla dopo le commemorazioni per i 44 anni dalla morte dello zio Peppino: "Grazie a mia nonna Felicia la sua memoria è stata tramandata. Con l'ironia mio zio è diventato la spina nel fianco dei boss di Cinisi"

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 9 Mag. 2022 alle 17:48 Aggiornato il 10 Mag. 2022 alle 14:28

    Luisa Impastato ha 34 anni ed è la nipote di Giuseppe Impastato, detto Peppino, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, “la notte buia dello Stato italiano” in cui a Roma fu trovato il corpo esanime di Aldo Moro. Parla quasi senza voce dopo le commemorazioni dei 44 anni dalla morte dello zio e del corteo che ha portato la folla dalla sede di Radio Aut, la storica emittente attraverso cui il giornalista e attivista denunciava le attività illecite dei boss mafiosi di Cinisi, in provincia di Palermo, alla “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato”, quella in cui Peppino ha vissuto insieme alla madre, scomparsa il 7 dicembre del 2004. “La Casa Memoria di Cinisi”, di cui oggi è presidente, rappresenta l’eredità morale della nonna Felicia, perché, racconta a TPI, “per sua volontà è rimasta aperta e custodisce la memoria di Peppino”.

    Cosa è contenuto in questa memoria? Quali sono gli insegnamenti su cui avete insistito in occasione delle commemorazioni di quest’anno? 

    In genere ogni volta che organizziamo un anniversario cerchiamo di concentrarci su tanti degli aspetti cari a Peppino, dalle lotte sociali, all’impegno politico che ha portato avanti. La lotta alla mafia era inserita nella sua militanza. Lui parlava di antimafia e lottava contro la mafia perché era la cosa a cui era più vicino essendo nato in una famiglia mafiosa. Ma quest’anno abbiamo parlato anche di pace, di anticapitalismo, di resistenza, disuguaglianze sociali, ambientalismo, mafia e antimafia, cercando di analizzare le criticità all’interno della lotta contro la mafia. Abbiamo ricordato i 30 anni delle stragi di Capaci e via d’Amelio, di musica e cultura, provando ad affrontare tutti i temi a lui cari

    Qual è lo stato di salute della società civile rispetto alla mafia, è resistente o dormiente?

    Viviamo in un contesto un po’ critico in questo momento. Dal punto di vista della mafia sicuramente c’è una maggiore sensibilità legata anche all’impegno portato avanti nel corso di questi anni dalle Associazioni impegnate sul fronte dell’antimafia, ma questo non deve far abbassare la guardia. Ho una grande fiducia nelle nuove generazioni, ho assistito e conosciuto grazie a Casa Memoria tantissimi movimenti e realtà giovanili impegnate per l’ambiente e la giustizia sociale e questo mi rende fiduciosa nei confronti del cambiamento. Però indubbiamente c’è una società dormiente sotto molti aspetti.

    Sul palco del concerto del Primo Maggio di Taranto ha ricordato che Peppino per lottare contro la mafia è andato contro il suo sangue. 

    Uno dei messaggi più forti della sua storia e su cui faccio leva quando parlo con gli studenti è l’importanza di fare delle scelte, perché Peppino ha scelto, non solo di dissociarsi o non seguire le orme del padre, ha scelto di lottare e meritare la sua vita, contro quello che il padre, la famiglia e quelle idee rappresentavano. Ha scelto di far diventare la mafia l’oggetto delle sue lotte nonostante sia stato doloroso e gli è costato tanto anche in termini di affetto nel rapporto con il padre.

    Lei è nata nove anni dopo la morte di Peppino, come è entrata in contatto con la sua storia? C’è un ricordo in particolare che la lega a suo zio?

    Non ricordo il momento in cui mi è stata raccontata, ci sono cresciuta, tanto che io oggi parlo della nostra storia perché l’ho sempre sentita anche la mia. Quello che ricordo è che a raccontarmi di Peppino oltre a mia madre e mio padre è stata mia nonna. Oggi io racconto i suoi ricordi, i suoi racconti che mi hanno permesso di ricostruirlo nella mia testa. Mia nonna è la persona che mi ha permesso di raccogliere questo passaggio di testimone, che ha mosso l’impegno che oggi porto avanti attraverso Casa Memoria, quello di dare continuità alla sua decisione di diffondere la memoria di Peppino.

    Ha raccontato che sua nonna Felicia, madre di Peppino, ha avuto da sempre un carattere rivoluzionario, mostrato sin da quando ha deciso di sposarsi per amore. È da lei che Peppino ha ereditato il suo spirito resistente?

    Uno degli aspetti che mia nonna ha trasmesso a Peppino è il suo straordinario senso dell’ironia. Non si direbbe perché se si pensa a lei si pensa a una donna impegnata nel riscatto del figlio, ma era tremendamente ironica e credo che sia uno degli aspetti che Peppino ha mutuato. Senza dubbio, pur essendo una donna di quegli anni cresciuta in una cultura patriarcale e mafiosa dominante che la voleva subalterna, in alcuni momenti della sua vita ha operato delle rivoluzioni, come sposarsi per amore e non per un matrimonio combinato, oppure quando dopo essersi sposata con mio nonno, quando Peppino inizia le sue attività contro la mafia e viene cacciato di casa, mia nonna vieta al marito di far entrare gli amici mafiosi dentro casa, che mia nonna non ospiterà più. Costringe suo marito a parlare con loro sull’uscio di casa. In quel contesto familiare, storico e culturale è stato un gesto quasi rivoluzionario.

    In effetti quando Peppino denunciava “Mafiopoli” e il famoso “Tano seduto” nel programma “Onda pazza” a Radio Aut, mostrava un’irriverenza, ironia e scansonatezza inedite per quei tempi nel parlare di mafia.

    Credo sia stato uno degli aspetti più innovativi dell’attività di Peppino e delle sue pratiche di denuncia, perché lui non solo nomina e denuncia ai microfoni i mafiosi ma li prende in giro. Fa ridere tutto il paese alle spalle di queste persone, di questi cosiddetti uomini d’onore, credo anche contribuendo a depotenziarli. Sicuramente questo lo ha fatto diventare una spina nel fianco della mafia.

    Motivo per cui è stato ucciso. La condanna dei mandanti arrivata 24 anni dopo e in seguito a due archiviazioni ha restituito un senso di riscatto alla famiglia? 

    È arrivata dopo 24 anni ma se si pensa alla storia delle vittime di mafia è una vittoria, assolutamente, se così si può dire. È arrivata dopo anni d’impegno, di lotte da parte della mia famiglia, dei compagni del centro Impastato di Palermo, fondamentale per quanto riguarda la vicenda giudiziaria. Importante per il riscatto è stata anche la relazione della Commissione parlamentare antimafia, che ci è stata consegnata in seguito all’apertura di un’inchiesta sul depistaggio. In quel caso si accertava la responsabilità dello Stato nell’aver depistato le indagini, come se lo Stato avesse chiesto scusa alla società civile, e Peppino in quel momento finiva di essere considerato un terrorista e un suicida, momento importante per la sua storia.

    Ha pensato alla vicenda giudiziaria di Peppino quando un mese fa è arrivata la condanna dei carabinieri responsabili dell’omicidio di Stefano Cucchi alla fine di 12 anni di depistaggi?

    Certo, ma sono tanti i casi purtroppo in Italia, non solo quello di Cucchi, in cui è stato operato un depistaggio. Mi viene in mente la storia dell’anarchico Pinelli, considerato un suicida. Sono tanti ancora purtroppo i casi in cui le responsabilità delle istituzioni sono state gravi e non sono state accertate.

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