La professoressa della Columbia University Nadia Urbinati commenta a TPI la crisi che attraversa il Partito democratico, tra le polemiche sulle nomine di ministri e sottosegretari nel governo Draghi e il fuoco amico della cosiddetta “base riformista”, che vorrebbe la testa di Zingaretti. Secondo Urbinati la lotta interna al Pd è dovuta alla debolezza strutturale di un partito in cui la segreteria romana non controlla i territori, nato per governare in un sistema maggioritario che, però, non ha funzionato. Per questo motivo è necessaria una riforma dello statuto e che il Pd “prendi in mano la bandiera della giustizia sociale” contrapposta al progetto liberale di Renzi, “a cui occorre opporvi un partito social democratico”.
Certamente il governo, come è oggi, è sbilanciato visibilmente verso il centro-destra, per lo meno per quanto riguarda i Ministeri politici, perché il Ministero dello Sviluppo Economico e quello del Turismo (anche se quest’ultimo è senza portafoglio è però un volano per l’economia del Paese, come anche affermato da Draghi) rappresentano il Nord targato Lega. C’è una preponderanza di potere del centro-destra anche perché c’è una preponderanza di rappresentanza socio-economica del nord.
Soli e in due ruoli esposti naturalmente a maggiore visibilità e tensione. Il Pd ha in mano i ministeri più oggetto di contestazione. Non solo il ministero della Sanità con Speranza, ma quello del Lavoro con Orlando dovrà affrontare problemi pesanti e serissimi. Draghi non è di destra o sinistra, è un tecnico della finanza; ma la sua scelta ha premiato il nord perché il nord è oggettivamente una parte trainante. Non è colpa di Draghi se il Nord non è Pd, un partito che ha un ruolo statale-istituzionale e quindi romano. Questo è emerso in maniera chiarissima in questa crisi e ora dovrà fare i conti con questa realtà. È nato nel 2008 come un partito che doveva vincere in un sistema maggioritario, un partito all’americana; e si è stabilizzato nella sua sede nazionale, quello che succede fuori di essa resta anche fuori del suo controllo.
Paradossalmente questa centralità romana è indicativa di minor potere sul territorio nazionale. Il Pd di via del Nazareno è un po’ solitario rispetto a quello delle Regioni e dei comuni. Le lotte intestine per la definizione dei candidati sindaco (si andrà a votare dopo l’estate) sono un segno della debolezza della segreteria nazionale sulle sue diramazioni territoriali, dove dominano i notabili, che sono quasi una classe a sé rispetto al Pd di Roma. Un problema serissimo che è ancora sotto cenere ma esploderà. L’Emilia Romagna per esempio può essere una polveriera di localismi litigiosi.
C’è una lotta proprio per questa debolezza strutturale della segreteria nazionale rispetto alle correnti interne. Le chiamo correnti, ma sarebbe meglio chiamarle fazioni, perché almeno nella prima repubblica c’era un pluralismo interno che il partito riusciva a tenere insieme con dosaggi equilibrati: ciò valeva per il Pci, la Dc e il Psi. Oggi questi equilibri unitari nel Pd non ci sono: c’è il partito di via del Nazareno, poi ci sono i vari partiti che afferiscono al Pd centrale ma sono relativamente autonomi se non antagonisti. Il Pd non è più un partito su tutto il territorio nazionale; e lo statuto, facendone una macchina elettorale, favorisce questo smembramento. È chiaro che le macchine elettorali sono tenute insieme dai notabili locali e i loro amici; la vittoria, i voti e le preferenze sono ciò che li legittima; la quantità è più importante della qualità della partecipazione, chi tira più voti è il più potente. Il Pd non sembra essere neppure un partito confederato; sembra un litigioso coacervo di fazioni. E la fazione renziana, quella detta riformista, rappresenta una mina vagante; in effetti a Renzi non interessa Italia viva, di cui si è servito per far saltare il governo, ma il Pd.
Sì e lo fa attraverso i suoi delegati, non direttamente; un gruppo agguerrito e che ha cercato di avere un candidato forte come Bonaccini. Ora non è il momento di aprire la crisi perché il presidente di Regione deve pensare al governo della pandemia in Emilia- Romagna. I conti verranno regolati più avanti, ora si posizionano le armate. Finché non entriamo nel semestre bianco l’unità è necessaria; ma una volta partito il semestre bianco, quando non si possono sciogliere le camere, il tappo messo alle fazioni (nel partito) e alle divisioni (nel governo) salterà.
Quello attuale è uno statuto costruito per eleggere plebiscitariamente un leader, che nella testa dei fondatori doveva essere anche il leader candidato al governo. Un partito che eleggeva segretario-e-potenziale-premier. Si tratta di un meccanismo che genera instabilità. Perché Renzi fece saltar il governo Letta? Una volta eletto segretario era quasi nelle cose che si imponesse come presidente del consiglio. Questa è la logica di un partito che deve governare. Il segretario che è anche il candidato presidente del consiglio, presume un sistema maggioritario. Che però non c’è o ha dimostrato di non funzionare. Il Pd non ha mai vinto, come ha messo in luce Giovanni Cuperlo ieri su “Domani”.
Quel partito era nato come un partito all’americana, leggero, capace di costruire candidature. Veltroni amava chiamarlo “partito liquido”. Ma i partiti liquidi, lo abbiamo visto, sono incapaci di resistere ai populismi. E poi non funzionano nelle democrazie rappresentative: lo vediamo con il M5S, costretto a diventare obtorto collo un partito per non essere spazzato via. Puoi essere leggero fuori dalle istituzioni ma dentro devi avere una struttura. Una scelta a mio modo di vedere sbagliata. E che è in sintonia con la struttura del Pd: fatto per vincere le elezioni, non per organizzare e tenere il consenso al di là delle elezioni se non vince. Un patto societario, inoltre, in cui i militanti non contano nulla, comunque meno degli elettori dei gazebo. Il Pd penalizza il militante mentre riconosce l’elettore generico (come lo statuto recita, è il partito “degli italiani e delle italiane”). Ma questo elettore che senza essere iscritto va al gazebo può essere anche un avversario: se sono un avversario posso volere che vinca un segretario che fa comodo al mio partito; quindi io e un numero di elettori come me possiamo determinare le elezioni del segretario del Pd. È assurdo ma realistico. Il Pd deve quindi darsi regole ed essere un partito, con militanti che contano, con una struttura che si innerva nei territori e metta a capo una segretaria nazionale. Solo così un partito è nazionale e non un litigioso insieme di autonome cittadelle.
Bisogna prestare attenzione a quel che vogliono i renziani: essi hanno un’idea di partito liberale, centrato su mercato, aziende e investimenti privati. Ma questo non c’entra con un partito di sinistra. La sinistra deve prendere in mano la bandiera della giustizia sociale. Nell’opera “Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana”, in occasione della nascita del Pds, Norberto Bobbio scrisse:
‘Avrei però preferito che un grande partito di sinistra, invece di lasciarsi sedurre dalla riproposizione della rivoluzione liberale, quando tutti erano diventati liberali e naturalmente in primo luogo gli avversari, risollevasse la bandiera della giustizia sociale, che era sempre stata quella sotto la quale avevano percorso una lunga strada milioni e milioni di uomini e donne che avevano fatto la storia del socialismo. Se dovessi proporre un tema di discussione per la sinistra, oggi, proporrei il tema attualissimo, arduo ma affascinante, della giusta società. Continuo a preferire la severa giustizia alla generosa solidarietà
L’idea è questa, i partiti devono distinguersi, non possono essere tutti uguali e la distinzione deve essere espressione interpretativa di un comune nucleo di idee e aspirazioni. Se un partito vuole posizionarsi a sinistra deve avere al centro un’idea di società giusta, che non vuol dire illiberale che sarebbe ingiusta; ma vuol dire che prima di tutto deve venire la giustizia sociale e in relazione a questo si discute di libertà. Si tratta di una visione complessa non semplicistica: che ha una concezione del ruolo sociale dello stato e della cooperazione sociale, all’interno di quello che dice l’articolo 3 della nostra Costituzione, secondo comma. In Italia, manca un partito come questo. Chiaramente social democratico, punto.
Ci sono due cose diverse: la prima è l’identità di un partito, che deve essere legata al suo progetto di società. E l’idea di giustizia sociale non vuol dire briciole di solidarietà o carità ai poveri. Il secondo punto è con chi il partito intende allearsi alle elezioni, che non è meno importante perché i partiti devono vincere le elezioni. E non è difficile per il Pd a questo punto decidere, perché non può stare né con Forza Italia né con la Lega, ma dovrà posizionarsi con coloro che gli sono più vicini, che oggi sono i 5 stelle che aspirano ad avere Conte come loro leader, e Conte esprime un centrismo che guarda sinistra.
Il Congresso va fatto per definire l’identità ideologica e culturale del partito. Zingaretti aveva iniziato a occuparsi dell’identità del partito prima della pandemia con l’assemblea di Bologna; fu un segno di ricostruzione. Ma via zoom non si può far rinascere un partito. Occorre coltivare per ora gli aspetti ideali e culturali; incominciando col fare un discorso pubblico quotidiano, per seminare il terreno del centro sinistra, preparandosi a quando finirà la pandemia. Non è questione di Zingaretti sì o no. Zingaretti non è in questione. In questione c’è la costruzione di un discorso politico e culturale, di un campo ideale di riferimento.
Purtroppo il clima politico italiano è uno dei peggiori dell’universo perché è gestito e tenuto dai media; nessun partito ha una struttura autonoma, soprattutto il Pd. Anche il M5S i cui affiliati non sembrano poi tanto attivi nel blog. Tutti si alimentano e si avvelenano di talk show; i media determinano leader e temi. I talk show e i giornali stabiliscono il linguaggio, lo stile e il livello dello scontro, scelgono i leader da sostenere o attaccare. Occorrerebbe cambiare questa abitudine di mandare messaggi ai propri militanti attraverso i talk show. Un partito deve avere sue vie di comunicazioni con i suoi iscritti e simpatizzanti. La chiusura dell’Unità è stata una disgrazia perché senza un giornale occorre per necessità affidarsi ai mezzi altrui, i quali hanno i loro interessi e loro agende, che molto spesso non sono in sintonia con questioni di giustizia sociale.
Non è solo una questione di ministri. Il Pd deve essere presente dove i problemi dei lavoratori sono presenti: all’Ilva e alla Whirpool, per esempio. Non deve essere impegnato sono nelle istituzioni, distante da un mondo che spesso sembra non conoscere più. E torniamo di nuovo al problema della struttura del partito. Una delle ragioni per cui il Paese è così diviso è anche perché non ci sono più partiti che lo uniscono, una volta spenti i partiti di massa che formavano classe dirigente dalla Sicilia fino alle Alpi. Ora i partiti sono gruppi di interesse o macchine di elezione, luoghi interni di potere, stanno a Roma o nei luoghi di potere locale, intorno ai palazzi. Il Pd di Zingaretti ha a cuore il partito; e allora, devono dedicare i prossimi mesi a una nuova bozza di statuto e a una nuova rinascita politico-culturale del partito. Si può tenere la fazione renziana dentro? Ad essere schietta penso proprio di no, perché questa fazione ha uno scopo destabilizzante, e vuole il potere. Se si tratta di una minoranza deve accettare il principio di maggioranza. Se non lo accetta e trama per rovesciare la direzione nazione, allora sembra difficile conviverci. Non è possibile continuare una guerra civile intestina sotto traccia e perenne. A Renzi converrebbe tanto riconquistarsi il partito, è evidente. Allora occorre opporvi un partito social democratico.
Lui ha il suo battaglione dentro, quando ha fatto le liste elettorali ha pensato a quando non sarebbe più stato segretario, ha pensato a come mantenere un potere interno. Non ha bisogno di entrare ora; se fosse eletto un segretario del Pd a lui vicino sarebbe come averlo ripreso. La fazione riformista è un problema serio. Zingaretti è un po’ come Conte, anche in questo caso dall’interno vengono i problemi. Se cade Zingaretti anche il Pd cade – non si può che anticipare un massacro in un partito che è già diviso; a quel punto dalle ceneri qualcuno si proporrà e dirà ‘Faccio io un nuovo Pd’. Per questo la funzione di Zingaretti va ben aldilà di essere un segretario; è un segretario in un tempo in cui la sua segreteria e il futuro del partito sono intersecati.