Lo scorso 22 luglio, due giorni dopo il patatrac del governo di Mario Draghi, il segretario del Pd Enrico Letta ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una foto del premier uscente che sorride, accompagnata da una scritta: «L’Italia è stata tradita. Il Partito democratico la difende. E tu, sei con noi?». L’ex presidente della Banca centrale europea è così ufficialmente entrato nel pantheon dei dem, dove la sua immagine così rassicurante già svetta sui vecchi ritratti impolverati di Enrico Berlinguer e Antonio Gramsci. Lo stesso Letta ha confermato che la cosiddetta agenda Draghi sarà il «punto di partenza» su cui costruire il programma del Pd per le imminenti elezioni politiche.
Rotta da un giorno all’altro l’alleanza con il Movimento 5 Stelle, il segretario ora guarda al centro per possibili apparentamenti. E avverte gli italiani che l’alternativa alle urne è solo una: «O noi o la Meloni». Secondo un sondaggio condotto da Quorum-Youtrend su mille elettori dem, la base del partito condivide la linea del segretario: per il 50% degli intervistati il Pd dovrebbe allearsi proprio con le formazioni centriste, mentre per il 25% farebbe meglio a correre in solitaria. Solo il 12% rimpiange la coalizione giallorossa.
«Il M5S ha fatto cadere in maniera sconsiderata un governo che era, e sarebbe ancora, necessario. A questo punto, è inevitabile che si debba andare divisi alle elezioni. Non c’è nemmeno il tempo per elaborarla, questa faccenda», osserva ad esempio Giovanni De Lupis, segretario del circolo Pd Trionfale-Mazzini di Roma. «Giusto candidarsi in continuità con il governo Draghi», concorda Giovanni Taurasi, ex presidente dell’assemblea provinciale dem di Modena, oggi semplice iscritto. «Quello che è stato fatto in questo anno e mezzo è stato fatto nell’interesse degli italiani, in coerenza con la natura del Pd, un partito europeista attento alle esigenze dei ceti più popolari ma anche a rilanciare economicamente il Paese».
Tuttavia, a fronte di quest’ampia fetta di iscritti che approva la direzione draghista presa dal Pd, sul territorio c’è una parte meno raccontata, più preoccupata e in disappunto, che dalle terze linee del partito attende una fase di confronto ad oggi ancora non avvenuta. Militanti che non hanno ricevuto alcuna convocazione dai propri circoli di riferimento e che in questi giorni assistono impotenti al circo mediatico sulle alleanze e i programmi elettorali senza aver modo di esprimere la propria posizione.
«La linea di chiunque aspiri ad avere voce dentro al Pd è diventata: “Colpa dei Cinque Stelle” e vocazione maggioritaria, con cambi di posizione nel giro di un pomeriggio», dice Matteo Manescotto, 40 anni, iscritto dem di Cuneo, già animatore del movimento delle Sardine. «Non esiste dibattito, ma chi è rimasto lo sa e va bene così. Il M5S non mi è mai piaciuto, ma bisognerà anche arrivare a un momento in cui ci si rende conto che l’unica riforma contro la precarietà è stata il decreto Dignità voluto dai pentastellati. Che il Jobs Act ha penalizzato i lavoratori, soprattutto i giovani, e che i salari sono crollati. O che nell’agenda Draghi si prevedeva anche la facilitazione dei contratti a termine – prosegue –. Il Pd è sempre più un partito monoclasse: gente istruita, mediamente anziana, ceti urbani o élite culturali delle province. Non può essere sufficiente a rappresentare la società e le sue esigenze. Servono aperture, una coalizione o una ricostruzione del partito e della sua rappresentanza. Non sono d’accordo con l’alleanza centrista perché chiude la possibilità di un vero confronto per ritrovare identità e forze a sinistra».
A Genova parliamo con Cecilia Borsatti, candidata alle ultime elezioni comunali nel capoluogo ligure. Borsatti è iscritta da qualche anno e rientra nel quadro di quell’allargamento iniziato dall’ex segretario Nicola Zingaretti. È convinta che «andrebbe chiarito bene cos’è l’agenda Draghi, perché sui punti ineludibili, come il rinnovo del sistema amministrativo, i tempi certi per gli investimenti europei a partire dal Pnrr, e anche sulla stessa reputazione internazionale indiscutibile di Draghi, siamo d’accordo». Poi però, aggiunge, «ci sono le questioni che dovrebbero rappresentare l’identità di un partito, almeno di centrosinistra: diritti civili e sociali in primis». «Il governo Draghi – continua la militante Pd – ha messo le mani sul cuneo fiscale (che col Conte 2 si traduceva di fatto con 100 euro in più in busta paga per tutti fino ai 26mila euro di reddito annuo) e ha eliminato le detrazioni sui minori a carico sostituendole con l’Assegno Unico e penalizzando gravemente i redditi medio-bassi». E ancora: «Non è intervenuto seriamente sull’evasione fiscale e non ha operato in direzione di una sacrosanta distinzione tra evasione ed evasione per morosità incolpevole. La coalizione che vorrei dovrebbe essere di centrosinistra: escludere Renzi, Calenda e ovviamente tutti i transfughi di Forza Italia e limitrofi. Quindi non sono assolutamente d’accordo con l’esclusione tout court di Conte e dei Cinque Stelle. Vorrei che l’architrave della coalizione fosse un programma chiaro in cui le cose di cui sopra fossero i punti fondamentali. Intendo cinque o sei concetti definiti: reddito minimo garantito, salario minimo, lotta all’evasione fiscale e progressività sulle misure e sul fisco, diritti civili e ius soli».
Anche Luigi Monaco, avvocato napoletano iscritto al partito dal giorno in cui fu fondato, vive in maniera sofferta le dichiarazioni di questi giorni. «Ormai si discute solo su Facebook con tutta l’evanescenza dei network e senza mai ascoltare direttamente simpatizzanti e militanti», sospira. «Intanto i tempi stringono e i problemi e i timori degli italiani aumentano. Ho una certa difficoltà a collegare Mario Draghi, autorevole banchiere liberale, con la storia e la genesi del Pd. Come democratico spero che i dirigenti del mio partito non vogliano incentrare questa complicatissima campagna elettorale sulla differenza fra i fedeli a Draghi e i traditori, veri o presunti. Dobbiamo dare risposte ai problemi reali della gente, che da settembre si acuiranno ancora di più. Lo scetticismo dilaga, l’astensionismo è in aumento e le destre incombono. Penso che, mai come in questo momento, dobbiamo riappropriarci della nostra identità che affonda le sue radici negli ideali cattolico-democratici di Moro e progressisti e riformisti di Berlinguer». «L’abbandono da parte di Letta dell’iniziale idea del campo largo e l’esclusione di Conte – conclude Monaco – rischiano di favorire la coalizione di centrodestra, che sarebbe chiaramente avvantaggiata da questa divisione, ma anche di perdere consensi nell’elettorato più sensibile ai valori riformisti di sinistra che diventano sempre più impercettibili nell’attuale strategia del Pd. Aprire le porte a Di Maio e chiuderle a Conte appare davvero come una contraddizione incomprensibile e difficilmente giustificabile sul piano della mera o presunta fedeltà a Draghi».
Gianluca Fanti, segretario del circolo Pd Madonnina di Modena, si dice «a grandi linee d’accordo con il segretario Letta»: «Concordo con il sostenere la continuità rispetto al governo Draghi», premette. «Ma con una sottolineatura: deve esserci la consapevolezza che quell’esecutivo non era di centrosinistra, era un governo di unità nazionale». E allora «la piattaforma con cui il Pd si presenterà alle elezioni non potrà essere tout court quella del governo Draghi. Dovremmo parlarne un po’ di più, dovremmo fare qualcosa di sinistra».
A Roma Nord, Enrico Sabri, vicepresidente del XIV municipio, riflette: «Finché non si costruirà un metodo vero di elaborazione politica e di selezione della classe dirigente, il Pd difficilmente riuscirà a fare una campagna elettorale lontana dalla vaghezza. Ma questo non è un problema che nasce con Letta: si trascina da ormai una decina d’anni». «Io credo nella funziona storica del Partito democratico, ma serve che il partito recuperi il proprio senso di essere al di là della mera vocazione governativa. Oggi l’elettorato del Pd è il più vicino a ciò che corrisponde all’agenda Draghi. Io personalmente lo sono un po’ meno… Ma da piccolo amministratore locale mi limito a fare tutto il possibile per ottenere tutti i fondi possibili del Pnrr e spenderli al meglio per i cittadini».
A Monopoli, in provincia di Bari, raggiungiamo al telefono l’attivista Lara la Torre, anche lei iscritta da pochi anni e convinta sostenitrice di quel bel processo di allargamento dal nome “Piazza Grande” che il Pd è riuscito a mettere in campo negli ultimi anni. Secondo la Torre «citare Berlinguer (come ha fatto Letta in una recente intervista a Repubblica, ndr) e voler portare avanti l’agenda Draghi è una contraddizione. Non è utile dal punto di vista valoriale per il partito, o lo è solo in maniera apparente. Non si può immaginare una campagna elettorale “casa per casa” portando argomenti tecnici e complessi». La militante teme una deriva liberista del partito, e crede che il fatto di aver chiuso a Conte sia stata «una scelta che sbilancia il partito definitivamente verso il centro, lasciandosi alle spalle ogni possibilità di apertura a forze progressiste». «Da pugliese – osserva – vedo in questa scelta lo stesso scellerato percorso intrapreso dal Pd della mia regione e da Emiliano. Una scelta disastrosa che allontana gli iscritti e cambia l’anima al partito».
Francesco Turco, tesserato del Pd di Cosenza e consigliere comunale, è più aperto verso l’agenda Draghi, ma è convinto che il partito debba «implementarla con questioni di sinistra che fino ad oggi sono state un po’ messe da parte, facendo attenzione a non cedere al populismo». E sulle alleanze – fa notare – «il Movimento 5 Stelle non è più lo stesso: la scelta di aprire la crisi in questa fase mi preoccupa e non poco. Non bisogna mai anteporre gli interessi di partito a quelli dell’Italia».
Giordano Bozzanca, presidente di InOltre, associazione giovanile interna ai dem che si propone di cambiare il partito da dentro, è d’accordo con la rottura dell’alleanza con il M5S, ma avverte: «Serve un’agenda sociale, bisogna vedere se il Pd parlerà di giovani o con i giovani che tanto dice di voler coinvolgere». Sul salario minimo, ad esempio, secondo Bozzanca, «vi è la tentazione di parlare per titoli: noi chiediamo che si spieghi come lo si vuole applicare e abbiamo presentato una proposta. Le mezze misure che il ministero vuole adottare nel ddl Aiuti bis non aumentano i salari ma cristallizzano una situazione già esistente, il ché può essere un freno dannoso in prospettiva.
Molto scettico sul dibattito interno è Pasquale Portolese, iscritto dem di Savigliano, in provincia di Cuneo, e convinto che «in questi anni ha prevalso la supponenza, la tracotanza che hanno portato a una disaffezione da parte degli iscritti Pd, e dei cittadini in generale. Prova ne è stata – dice – l’astensionismo. I cittadini hanno sentito il partito sempre più lontano, non è stato stimolato il confronto serio, costruttivo, coinvolgente».
A Taranto Massimo Moretti, iscritto al Pd, ambientalista e attivista, sostiene che «l’agenda Draghi in campagna elettorale non è utile, perché l’elettorato non capirebbe. Si dovrebbe evitare – aggiunge – che il dibattito si sviluppi su questa linea. Servono piuttosto temi valoriali, su cui invece il centrodestra sta già puntando». E le alleanze? «Sarei per non escludere niente in questo momento: se non si è posto il veto a Renzi, non si dovrebbe porre neanche a Conte. Anzi, se proprio dovessimo entrare nel dettaglio programmatico, forse sarebbe proprio su Renzi e Calenda che si dovrebbero mettere dei paletti. Su alcune vocazioni, come per esempio l’ambientalismo, c’è molta più affinità con Conte e la sinistra piuttosto che con il centro: dalle posizioni sul nucleare, alle trivellazioni… Servirebbe chiarezza sui punti programmatici, prima di tracciare alleanze, e gli unici veti andrebbero posti proprio sui temi. Se proprio dobbiamo prendere un’agenda a riferimento, allora si prenda l’agenda Greta».