In un giorno del settembre 2022, a Bologna, Stefano Bonaccini mi ha fatto un racconto autobiografico sintetico di sé che in qualche modo poteva sembrare anche stupefacente: «Se ci pensi io sono il segno di un tempo che cambia. Non sono laureato, non parlo le lingue, vengo da una famiglia molto umile: padre camionista e madre operaia. Sono nato in un paesino della provincia più profonda e non mi sono mai mosso da lì. Eppure…».
Eppure: «Eppure sto governando per la seconda volta una delle regioni più ricche d’Italia, e ho diretto la conferenza degli amministratori locali europei. Ho battuto il M5S e la Lega malgrado tutto i pronostici. Sono la prova vivente che dopo i tempi del populismo può tornare il valore della politica come arte di governo. Scienza che serve a organizzare il lavoro degli altri».
Bonaccini diceva queste cose già prima del famoso discorso della fiducia in cui Giorgia Meloni creò per se stessa la categoria dell’“underdog”, il grande sottovalutato che vince malgrado non faccia parte delle élites.
Tra una ex popolare cresciuta in una famiglia di agricoltori, un intellettuale triestino e una giovane cosmopolita, dunque, il governatore dell’Emilia-Romagna si è già ritagliato il ruolo che mancava: “l’underdog di sinistra”.
E quando gli chiedevo se non si sentisse un politicamente scorretto, rispondeva in modo politicamente scorretto: «Ma chi se ne frega! Io sono questo». E ha fatto storcere il naso anche ad alcuni dei suoi avversari un’altra dichiarazione programmatica choc: «Voglio un Pd senza puzza sotto il naso, un partito che sia in grado di parlare la lingua dei bar, e di farsi capire da tutti».
Bonaccini è affabile, pacato, stakanovista e non dorme mai. Sotto questa glassa sorridente, c’è un uomo di granito: «Vedi – mi dice sempre quando ricorda il suo recente romanzo di formazione –, tutti i sondaggi mi davano sotto di cinque punti. E poi ho vinto con il 51% e oltre un milione di voti. Se avessi dato retta a loro mi sarei dovuto sparare».
Un giornalista che fece le spese del suo leggendario caratterino, in una rovente serata di talk televisivo, era stato l’ex direttore del Fatto Quotidiano Antonio Padellaro. Il giornalista aveva fatto una domanda sapida al candidato del centrosinistra, ma con tono come al solito compassato e cortese il presidente dell’Emilia-Romagna lo aveva trafitto in contropiede con una risposta affilata e ruvida: «Guardi, io non mi faccio dare lezioni da lei!». À là guerre comme à là guerre.
Subito dopo, dietro le quinte, i due si erano chiariti, ma il temperamento di Stefano Bonaccini è placido e insieme saturnino, pacato ma talvolta umorale, e fa venire in mente una celebre massima di Sandro Pertini: «Tutti gli uomini di carattere hanno un cattivo carattere, ed io modestamente ho carattere».
In Emilia, dunque, ha vinto contro ogni pronostico, ed ha vinto – come vedremo – cambiando pelle. Ha vinto anche per alcune sue scelte testarde e cocciute fino a sfidare il suo stesso staff. Ha vinto rimodellando il suo corpo con una metamorfosi studiata a tavolino, e sfiorando addirittura l’eccesso pubblicando sui propri social delle foto stile-Arnold Schwarzenegger in cui faceva flessioni a due mani con bicipiti scolpiti. Cult.
Pochi giorni dopo, parlando, gli chiesi se quella scelta di esibizione palestrata non fosse troppo difforme rispetto alla sua storia, e lui mi aveva risposto di nuovo in modalità zuccherina e apparentemente dimessa: «Sì, forse è stato un errore. Ma devo confessarti che io faccio palestra perché da piccolo avevo un soffio al cuore, e il medico mi ha chiesto di dedicare una particolare cura al mio fisico. Non dovevo pubblicarle», aveva concluso Bonaccini ridendo, «ammetto che è stato un piccolo peccato di vanità».
Uomo di passioni nazionalpopolari, molto diverso dal classico dirigente di apparato, il presidente dell’Emilia-Romagna ha un’altra caratteristica da erudito: «Conosco a memoria tutte le formazioni, di tutte le squadre di serie A tra il 1960 e gli ultimi anni, ho una memoria fotografica che mi consente di memorizzare tutte le figurine Panini della mia collezione privata».
Da Elly Schlein e Gianni Cuperlo non potrebbe essere più distante, ma ripete da mesi il suo mantra: «Non sentirete da me una sola parola contro i miei compagni e avversari». Quando due settimane fa è arrivato al muro contro muro sulla proposta del voto digitale avanzata dalla sua ex vice, non gli è scappata una sola parola, se non una apocrifa in un retroscena de La Stampa: «Adesso anche basta!». Ma nessuna parola ufficiale.
Da ragazzo, già dirigente, girava per tutta la regione con una Seat. Nelle federazione più ricca del partito ha costruito il suo successo con metodo, zero scorciatoie. Quanto alla mutazione della sua immagine si potrebbe partire da questo dettaglio per capire la complessità del personaggio: era vero lo scaltro Bonaccini che postava la foto da culturista o il mite che disconosceva l’atto? Forse entrambi.
Sta di fatto che l‘amministratore che era entrato nell’ultimo anno prima del voto era grasso, sovrappeso, con un che di vagamente “apparatnick” comunista che non gli si scollava di dosso.
Quello che è uscito trionfatore dalla maratona elettorale nella sfida contro Lucia Borgonzoni era una crisalide diventata farfalla: dimagrito, con il fisico scolpito, con un look tutto stravagante, eccentrico e incasellabile, doppiopetto stile balera, Ray-ban giganti a goccia stile Gianfranco Fini, pantaloni corti con il risvoltino, barba da babbo natale e magliette di flanellina a girocollo che non si vedevano dagli anni Settanta.
Confesso, ancora una volta, di non averci capito nulla. Un giorno, mi chiese cosa ne pensassi: gli dissi di cambiare il look se non voleva passare per il capitano di una nave. Lui mi rispose: «Avevo il dolcevita perché ero influenzato!». E poi mi mandò un messaggino con un emoticon che piangeva dal ridere. Il Bonaccini zuccherino mi aveva fregato di nuovo, perché pochi giorni dopo era uscito il suoi logo elettorale con gli occhiali stilizzati e la barba. Era un piano.
E così fu tutto chiaro: Bonaccini lo scaltro aveva riscritto se stesso togliendosi di dosso l’antropologia dell’apparato nell’unico modo possibile. Per contrario. Il logo disneyano, bisogna dirlo, (insieme alla mobilitazione delle Sardine) è stato una chiave del suo successo: colori verde Padania, niente simbolo del Pd, immagine quasi da cartoon.
È così che Bonaccini ha conquistato poco meno di un voto disgiunto su due (percentuale mostruosa rispetto agli standard) di quelli espressi per il M5S. E su questo punto cruciale della campagna elettorale, bisogna proprio dire, ha vinto nel modo in cui immaginava.
Con l’aiuto di Nicola Zingaretti, che lo conosce fin da ragazzo, perché fu il segretario del Pd a sostenerlo graniticamente (cosa che non fece affatto con Oliverio in Calabria). Ma anche con queste trovate comunicative.
Quando molti nel Pd volevano farlo fuori e immolarlo sull’altare di una alleanza con il M5s, Bonaccini puntò i piedi: nessun passo indietro, dritto per la sua strada. Andò ad Otto e Mezzo, ospite di Lilli Gruber e disse: «Se il Movimento vuole entrare in coalizione con me, bene. Altrimenti io ci sarò comunque. E loro facciano quello che vogliono». Amen.
Con il senno del poi, quella che allora sembrava una scelta kamikaze (alle politiche in Emilia il M5S all’epoca era al 26,5%) è stata la seconda mossa vincente. Ora il patto “Zingaccini” non c’è più, perché gli ultimi dioscuri del nuovo Pd si sono separati: «Voto la Schlein», ha detto l’ex segretario.
Eppure i due hanno due vite parallele con curricula mostruosamente simili: entrambi nella Fgci, poi entrambi nel Pci, quindi entrambi nella Sinistra giovanile (Nicola segretario, Stefano dirigente nazionale).
Entrambi dirigenti del Pds, entrambi presidenti di Regione, entrambi ricandidati. Entrambi periferici alla conquista delle metropoli. Zingaretti dal quartiere Laurentino, Bonaccini da Campogalliano, provincia di Modena: il luogo da cui ha fatto partire la sua campagna per le primarie. Entrambi vengono da una famiglia popolare.
Il presidente dell’Emilia-Romagna è figlio di un camionista comunista anche perché Campogalliano è storicamente l’antica “dogana” dei tir diretti verso il Nord.
Il giovane Stefano cresce tra le feste de l’Unita («Il mio primo lavoro politico, e ne vado fiero, è stato accudire costate e salsicce»). Gioca a pallone come un assatanato nella polisportiva vicino casa e nel centro giovanile di villa Bartolini.
Vive ancora nella casa dove è nato, e anche questo elemento, anni dopo, è diventato narrazione elettorale: «Abito dove sono cresciuto. E lì ho scelto di rimanere anche quando il lavoro mi ha portato fuori, prima a Modena e poi a Bologna, a Roma e in giro per il mondo. Sono radici forti e profonde: ti tengono con i piedi piantati per terra e ti ricordano ogni giorno chi sei e da dove vieni».
Bonaccini ha appena compiuto 56 anni. È sposato due volte, l’ultima con Sandra Notari, un’apprezzata stilista che viene chiamata con affetto «la Prada di Modena» e che è la sua vera consulente di immagine. Sandra realizza e vende i modelli che lei stessa progetta. Aveva una figlia da una precedente relazione, a cui Bonaccini ha fatto da padre. Un’altra l’hanno avuta insieme.
Quando ha pubblicato la prima foto con due giovani (e belle) ragazze sorridenti si era accesa una grande curiosità su Twitter: «Hai rimorchiato?». E lui, che si gestisce i social da solo, per la disperazione del fido portavoce Marco Agnoletti: «Sono le mie bimbe».
Quando gli chiesi se votassero per lui o la Schlein rispose un po’ stupito: «Basta che vadano a votare». Il giorno dopo mi scrisse soddisfatto: «Ho controllato, mi votano tutte e due».
La prima passione di Stefano è stata il calcio: molti chili fa era un centravanti d’area che ai tempi della Fgci tutti volevano in squadra per vincere i tornei fra i circoli territoriali e studenti medi: segnava sempre.
Timido in pubblico, Bonaccini si scatenava in privato, e furoreggiava nelle tavolate imitando certi «tipi da bar» modenesi, a partire dallo slang e raccontando barzellette. Celeberrimo un certo personaggio “Ito ato Uto”, che in un dialetto strettissimo si raccontava sempre al passato.
Il futuro governatore divenne presidente di Regione da segretario regionale del Pd, quando apparentemente diceva di voler restare nel partito. Lo andarono a pregare, e così fece le scarpe al candidato che allora sembrava più probabile di lui, Matteo Richetti. Ma per realizzare questo colpo pagò un prezzo alla gloria: fece addolorare Pierluigi Bersani, che ne aveva propiziato l’ascesa, per il suo passaggio dalla parte di Renzi.
Un giorno ha detto: «Vorrei che tornassero sia Renzi che Bersani». Poi Bersani è tornato, ma Bonaccini ha aggiunto: «Con la scissione Renzi si è escluso da solo». Sulle alleanze con il M5S si è tenuto in sospeso: «Dopo le regionali faremo i conti».
Che coalizione ha in testa, dunque? Lo scopriremo solo vivendo. Quando Zingaretti si era candidato Stefano aveva cambiato campo e sostenuto l’ex compagno contro Roberto Giachetti. «Sono un pragmatico, non ideologico», ripete di sé.
Abile, risoluto, grande tombeur des femmes da ragazzo (aveva boccoli e occhi azzurri) ma anche duro, all’occorrenza. Culo di pietra infaticabile: un giorno al sottoscritto che lo inseguiva per una intervista da tutto il giorno (erano le 23.00) disse serissimo: «Ci sentiamo alle 4 del mattino, quando mi sono tolto le incombenze?”. Così fece. Come ben sanno i suoi assessori, invitati a improbabili colazioni di lavoro, sempre fra le 6.30 e le 7.00.
Anche queste giornate di sedici ore hanno prodotto un primato da esibire nella campagna delle primarie: «Ho visitato praticamente tutti i 328 comuni dell’Emilia-Romagna: dal più grande, Bologna, al più piccolo, Zerba, in provincia di Piacenza, unico Comune della regione con meno di cento abitanti».
Qui il Bonaccini “sborone” vanta i suoi crediti: «Conosco i nomi di tutti i sindaci e per ogni centro potrei indicare le imprese o i luoghi di interesse più importanti, i punti di forza e di debolezza. Non è un vezzo: è un’idea del territorio e della comunità, di come si governa, di quale sia la funzione delle istituzioni e della politica. Voglio costruire un partito che funzioni così».
A lungo si è vociferato, durante la campagna per le regionali, di Stefania Bondavalli, una giornalista spin doctor – detta «la Lilli Gruber di Reggio Emilia» – che gli avrebbe dato consigli di immagine. Ma il suo vecchio portavoce Stefano Aurighi lo prende in giro: «Purtroppo decide tutto da solo».
In Emilia-Romagna ha vinto dando una carezza alla Borgonzoni, non parlando mai del Governo Conte, ripetendo come un mantra: «Salvini da lunedì non sarà più in Emilia».
Adesso a sinistra tutti lo indicano come modello. Ma per tutto quello che ho raccontato, di sicuro, è davvero un modello irripetibile. Si presenta in tv collegato dal suo ufficio con la bandiera della Regione. Riuscirà a plasmare la sua sinistra sul modello emiliano, e a conquistare l’uditorio anche nei bar di Pizzo Calabro?