Abbiamo da poco celebrato il sedicesimo anniversario dalla fondazione del Partito Democratico. Azzardare un bilancio richiederebbe tempo e probabilmente un dibattito franco che coinvolga i protagonisti di allora e quelli di oggi. Alcune riflessioni possono però essere definite a partire dalla cronaca politica di questi anni.
Il PD ha avuto il merito indiscutibile di aver garantito la tenuta del sistema politico italiano in fasi particolarmente convulse. In tanti passaggi delicati, ha messo ciò che appariva, nella contingenza data, il bene del Paese prima del proprio tornaconto elettorale.
Ha garantito e continua a garantire alle nostre Amministrazioni locali la miglior classe dirigente disponibile. È uno dei pochi partiti a conservare ancora meccanismi di selezione della classe dirigente, per quanto discutibili, compiutamente democratici. Per queste e altre ragioni, il PD rimane ancora oggi il soggetto politico di riferimento per coloro che si riconoscono nell’obiettivo dell’attuazione dei valori e delle prescrizioni contenute nella Costituzione repubblicana.
Sono però evidenti limiti che è ora di affrontare di petto, dal momento che rischiano di pregiudicare la funzione che fin qui abbiamo svolto, pur tra tante difficoltà: garantire, come si diceva, la tenuta del sistema politico italiano e l’ancoraggio del Paese al percorso di integrazione europea, che necessita oggi più che mai di un contributo italiano forte e consapevole delle carenze che ne minano la prosecuzione.
Non possiamo infatti nasconderci che rivendicare il merito di aver scongiurato il rischio che l’Italia finisse fuori strada in più di un tornante della storia recente, a fronte di un calo sistematico e costante del consenso elettorale (fino ad esserci assestati, nelle ultime due elezioni politiche, al di sotto del 20%), può apparire lunare.
Dobbiamo allora chiederci perché il servizio che rivendichiamo di aver reso all’Italia non ci ha mai premiato nelle urne. In primo luogo, non ha pagato una retorica della responsabilità sconnessa da un contesto sociale sempre più sofferente. Chi fatica ad arrivare a fine mese, o anche chi perde certezze consolidate pur rimanendo al di sopra della soglia di povertà, si interessa dell’andamento dello spread solo a patto che gli si spieghi anche quale progetto politico può garantirgli di migliorare le proprie condizioni e di coltivare la possibilità di vivere una vita felice.
E non è certo per distrazione se per una fase relativamente lunga siamo apparsi incerti in questo senso. Il PD paga lo scotto di essere un partito nato in un mondo che nel frattempo è venuto meno. Pensiamoci: nel 2007, prima dello scoppio della grande crisi, l’idea prevalente era che l’espansione del processo di globalizzazione avrebbe portato ricchezza e opportunità a beneficio di tutti, in un quadro di progressivo consolidamento della democrazia liberale come modello politico sociale dominante.
Abbiamo dunque fondato un Partito nato sul presupposto ideologico di dovere (e potere!) dare rappresentanza, indistintamente, a interessi anche molto diversi tra loro. Possibilità venuta meno con l’esplodere, a seguito della crisi globale scoppiata appena un anno dopo, di diseguaglianze e contraddizioni, che però per essere tematizzate e affrontate avrebbero comportato la messa in discussione di alcuni dei nostri tratti fondativi.
A distanza di anni, possiamo rivendicare di esserci lasciati definitivamente alle spalle certi riflessi condizionati. Oggi, ad esempio, le teorie di ichiniana memoria circa quanto fosse necessario un mercato del lavoro sempre più flessibile, verrebbero viste con diffidenza anche da coloro che più si riconobbero in quella stagione.
Tuttavia, non abbiamo ancora pienamente recuperato la credibilità necessaria a farci portatori delle istanze oggi più sentite. Sarebbe meschino addebitare questa responsabilità a chi ha ereditato di recente il compito di riportare il PD in connessione con parti di Paese che ci hanno voltato le spalle. Prima ancora che “quale gruppo dirigente?” il problema del PD è piuttosto “quale identità?”.
Per proporsi credibilmente come interpreti di interessi, ambizioni e sentimenti, bisogna anzitutto esser chiari su chi si è. In un mondo attanagliato da questioni grandi e terribili come quello in cui ci troviamo catapultati, occorrono parole d’ordine nette e un’identità chiara e riconoscibile. Giorgia Meloni, purtroppo, insegna.
Per farlo, serve anzitutto mettere in soffitta divisioni anacronistiche, come quella tra sinistra radicale e sinistra riformista. In tempi in cui alle difficoltà economiche si unisce un sentimento diffuso di solitudine e di abbandono, un logoramento costante dei legami sociali, il venir meno di riferimenti culturali unificanti e diffusi, non si deve aver paura di definirsi a seconda del tipo di società che si vuole costruire.
Darsi un’identità dichiaratamente socialista non presuppone l’abbandono di una pratica riformista, anzi, ne esalta la necessità. Né significa rinunciare al contributo del filone del cattolicesimo democratico, al contrario prevede attingervi a piene mani: l’elaborazione cattolica sulla Pace e sul nesso tra Uguaglianza e salvaguardia del pianeta, ad esempio, è tra le più avanzate tra quelle presenti nel dibattito pubblico.
L’esigenza è piuttosto quella di sfuggire all’illusione che una sommatoria di proposte tematiche di buon senso, magari ben raccontate, possa convincere qualcuno della bontà di un progetto politico. Reinventare una cultura politica e ricavarne un’azione quotidiana comprensibile e capace di intercettare bisogni e mobilitare coscienze, è oltretutto anche un presupposto per crescere in modo sano classe dirigente.
Il fatto che intere generazioni di militanti si stiano formando senza che nessuno si preoccupi di che idea di Partito e di Paese abbiano maturato è a dir poco angosciante. Il rischio è che nella testa di molti si sedimenti l’idea per cui il metro per misurare il valore di una persona sia il successo elettorale, il piglio comunicativo e la capacità di giostrarsi più o meno efficacemente nelle pieghe di un partito sempre più permeato da logiche di filiera amicale, che nulla hanno a che vedere con l’appartenenza ad aree politiche organizzate attorno a una cultura politica e pronte ad arricchirsi attraverso un confronto continuo con altri punti di vista.
È un terreno su cui dovremmo tutti vigilare con ben più attenzione. Il fatto che l’organizzazione giovanile del PD, tra il tredicesimo e il sedicesimo anno di vita del nostro partito, sia stata e tutt’ora sia lasciata a morire non fa ben sperare. Ciò che fa ben sperare, è invece la passione e la perseveranza di tante e tanti ragazzi che non rinunciano a pensare e praticare la battaglia politica andando oltre la dimensione di un post Instagram. Se nel PD c’è ancora speranza, lo dobbiamo anzitutto a loro.