La rivincita di Letta senza clamore: cronache di un pomeriggio al Nazareno
È un pomeriggio fiacco quello che accoglie la proclamazione di Enrico Letta a nuovo segretario del Partito Democratico a largo del Nazareno. Mentre la capitale si prepara a tre settimane di lockdown, a seguire l’Assemblea Nazionale del Pd fuori dalla sua sede ci sono solo giornalisti: nessun militante e nemmeno qualche sardina “avanzata” dal fine settimana precedente, quando il movimento aveva chiesto un incontro con la presidente Valentina Cuppi. “Oggi è un giorno fortunato”, dice il responsabile del chiosco che vende souvenir di fronte alla sede del partito dopo che un cliente ha acquistato un “power bank”. Di quello che succede dall’altro lato della strada gli importa poco, ma in anni di attività qualcosa deve aver capito.
“Non mi piacciono molto“, dice dei suoi dirimpettai. E non è il solo. Gli inquilini del Nazareno, palazzo simbolo dell’immobilismo di un partito che in 14 anni di vita non ha mai vinto le elezioni ma è stato quasi sempre al governo, non piacciono a nessuno, non piacciono a se stessi e non piacciono neanche a Enrico Letta. Tanto che, nell’intervento che i cronisti ascoltano dai telefoni e dagli i Pad camminando di fronte all’ingresso, il segretario in pectore esordisce parlando di problemi: il primo, quello della scarsa rappresentanza femminile.
E poi cambi di casacca, guerre tra correnti, governismo, che hanno reso il partito una “torre di Babele” – in cui “c’è qualcosa che non va se la logica delle correnti non l’ho capita nemmeno io” – e fatto diventare la democrazia “malata”, con sette governi e sei primi ministri che hanno avuto tutti o quasi maggioranze diverse. Per curarla Letta propone nuove idee (voto ai 16enni, legge contro il trasformismo, nuova legge elettorale, sfiducia costruttiva) e ritorna su quelle che non sono mai diventate battaglie, rimaste tra gli slogan e le promesse all’apertura di ogni nuova fase, o dopo una vittoria locale, come lo ius soli e, appunto, la parità di genere.
Il nuovo segretario quasi si scusa di aver occupato quel posto vacante, di essere stato lui il “prescelto”, in quanto uomo: “lo stesso fatto che sia io qui, e non una segretaria donna, come avrebbe potuto essere il caso, dimostra che abbiamo un problema”, afferma: un’ammissione di colpa che per Debora Serracchiani, una delle poche esponenti dem a parlare fuori dal Nazareno, è già “un impegno per il Paese”. Poi rilancia il tema dello ius soli, una “norma di civiltà” a cui “sarebbe felice di dar vita” proprio nel governo Draghi, proposta che provoca subito gli attacchi e le perplessità della destra, e a cui in tanti non credono più.
Anche Zingaretti ne aveva parlato a ottobre 2020, ma le proposte di legge presentate un anno prima da Laura Boldrini, Matteo Orfini e anche da Renata Polverini sono rimaste bloccate in Parlamento, e con i numeri attuali non avrebbero possibilità di passare in Senato. Il nuovo segretario dovrà dimostrare se la menzione alla cittadinanza per i figli di genitori stranieri nati in Italia sia stata solo la liturgia obbligata che ogni leader di un partito di sinistra deve pronunciare o l’inizio di una battaglia vera.
Intanto parla delle Agorà democratiche, incontri tematici che ha intenzione di lanciare in autunno e aprire anche a membri esterni al partito, che richiamano un po’ il progetto di Piazza Grande lanciato da Zingaretti e abortito per via della pandemia. “Ci sarà l’Agorà sulla giustizia diretta da Gianrico Carofiglio”: ironizza qualcuno. La sensazione che trasmette chi ascolta l’intervento nella direzione inedita, diffusa in streaming anche se il nuovo segretario parla a pochi metri, è che tutto sia stato già detto, già provato, già fatto, con gli stessi volti e gli stessi nomi che hanno percorso migliaia volte il chilometro che porta a Palazzo Madama e a Montecitorio senza cambiare rotta.
Eppure nel deserto del Nazareno il discorso placido del segretario pianta un seme di concreta speranza. Letta dà l’impressione di aver riflettuto a lungo durante l”esilio” durato sette anni, e aver beneficiato di un’assenza attiva in cui si è occupato di formare i politici e le classi dirigenti del futuro dalla cattedra di una delle più prestigiose Università d’Europa. E se ha deciso di lasciarla per “un incarico di partito” (e non un ruolo di governo) è perché crede di poter traghettare il Pd che gli è “rimasto nel cuore” non verso la prossima poltrona, ma verso la vittoria: un obiettivo diverso, che può permettere di governare con la forza dei numeri e dei voti e trasformare quelle promesse vuote in vere possibilità di ridisegnare il Paese.
Allora tranquillizza chi ha paura di perdere e per questo vuole tenere in vita il governo Draghi il più possibile. Un timore “non detto” che però Letta dice di aver colto appena atterrato a Roma giovedì scorso. “Io vi ho detto cosa voglio fare, e penso che se lo faremo, vinceremo“, assicura. “Sono qui perché so che se faremo insieme quanto ho provato a condividere con voi, l’Italia nella sua maggioranza ci seguirà”, aggiunge tra i pochi battiti di mani dell’aula semi-deserta, dove solo pochi intimi lo hanno ascoltato in presenza: Valentina Cuppi, Andrea Orlando, il nuovo tesoriere Walter Verini, Cecilia D’Elia, Beppe Provenzano, Nicola Oddati. Ma se in passato i numeri e gli applausi scroscianti sono stati la cifra dell’ipocrisia e del fallimento, proprio l’elezione discreta potrebbe essere l’auspicio di un percorso più sincero.
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