La polemica sul Ministro dell’Agricoltura, sul suo titolo di studio, i suoi vestiti e il curriculum sta appassionando milioni di Italiani, eppure nessuno sembra farsi l’unica domanda davvero importante: per quale motivo un settore che vale il 2 per cento del PIL nazionale deve avere un ministero?
È così: il settore agricolo vale, per l’Italia, il 2.1 per cento circa del prodotto interno lordo. Un valore molto modesto, se lo confrontiamo con altri settori. Nonostante questo, la storia dell’Unione Europea e dell’Italia repubblicana raccontano frequenti episodi di imposizione delle “battaglie” del settore: dazi, coperture, sussidi, finanziamenti, protezioni dalla concorrenza estera.
È questo il motivo per cui il 40 per cento del bilancio dell’Unione Europea è investito in contributi per agricoltura, allevamento e protezione (la famosa “Politica Agricola Comune”), di cui il nostro paese beneficia in modo particolare, insieme a Francia, Germania, e Spagna.
Eppure basterebbe consultare i dati economici, occupazionali e le tendenze di mercato per comprendere che l’agricoltura è un settore in cui non ha senso continuare a promuovere politiche assistenzialiste e protezionistiche, e lo dimostrano i dati stessi.
La verità è che la politica si è servita dell’agricoltura (e viceversa), spesso per fini elettorali: non esiste un settore che sia, in Europa e in Italia, così poco rilevante e così tanto ben organizzato da presupporre un peso elettorale e politico di tale importanza.
Tuttavia, se commercio e terziario crescono, in Italia, senza bisogno di sussidi e di dazi, mentre l’agricoltura ha dimezzato il valore di produzione dagli anni ’60 ad oggi, chi sta sbagliando? Purtroppo è così che funziona così la politica italiana: quasi nessuno prende atto dei cambiamenti della storia, in pochi verificano dati e in pochissimi elaborano proiezioni utili a promuovere politiche pubbliche che guardino al futuro, e non alla conservazione.
Ad oggi servirà a questo il Ministero di Teresa Bellanova: a continuare a promuovere contributi economici alle attività del settore, ad ostacolare la crescita dei paesi in via di sviluppo, che devono contrastare i dazi nelle esportazioni dei loro prodotti, e a continuare a promuovere anacronistiche battaglie contro le nuove tecnologie.
Sarà facile sollevare polemiche con questa opinione, perché non è culturalmente accettabile mettere in discussione lo status quo e dimostrarsi aperti al cambiamento: ciò che importa è non cambiare nulla, mantenere il consenso della classe demografica dominante e non creare troppi problemi alle categorie che possono spostare una piccola parte di consenso.
Insomma, titolo di studio o meno, vestito blu o meno, l’Italia continuerà a dotarsi di un Ministero non indispensabile, che macina milioni di euro di soldi pubblici con migliaia di dipendenti e che continuerà a proporre politiche contro la concorrenza e a favore di un assistenzialismo economico che, come abbiamo visto, semplicemente non funziona.
Non basta quindi dover fare i conti con oltre 2.000 miliardi di debito pubblico, alti tassi di disoccupazione, enormi problematiche su giustizia, trasparenza, istruzione e welfare, per avere una classe politica che abbia il coraggio di concentrare energie e risorse in riforme che guardino al futuro. Una classe politica che sia per gli investimenti e non per i sussidi, che non ostacoli, ma gestisca il cambiamento tecnologico, che guardi allo sviluppo, alla trasparenza, al merito, al domani: quello di cui avrebbe bisogno il Paese.