All’epoca gli occhi del mondo erano tutti per lui. Matteo Salvini, il populista che aveva fatto il pieno di voti, da poco era entrato nel Sancta Sanctorum del potere italiano, il palazzo del Viminale, terreno esclusivo durante la prima repubblica per l’establishment democristiano. C’era quella strana alleanza con il Movimento Cinque Stelle, un laboratorio, diceva qualcuno. Di cosa era difficile dirlo, di ombre ve ne erano tante.
Si avvicinavano le elezioni europee. Dopo Trump – e il trumpismo dilagante – per quel movimento magmatico che riuniva le destre mondiali c’era da conquistare il vecchio continente. Potevano contare su uno schieramento variopinto in tutta Europa, dal blocco dei cattolici integralisti polacchi del PiS, alla figlia d’arte Marine Le Pen. In Ungheria il fedelissimo Viktor Orbán faceva il duro con i migranti, costruendo un muro di filo spinato, in Spagna un gruppo di ex dirigenti del partito popolare costruiva l’immagine e la retorica degli eredi della Falange franchista.
E poi c’era lei, Giorgia. Con molta discrezione, senza dare troppo nell’occhio, il circolo Usa del Make America Great Again inizia a puntare le carte sulla leader di un partito innamorato della fiamma postfascista. Per loro non era una sconosciuta. Lei sorride, ammicca, organizza. Manda i suoi colonnelli a tessere una complessa tela di alleanze. A Bruxelles il suo futuro capodelegazione, Carlo Fidanza, mette su un vero partito europeo: sigla che poi sparisce, ma non del tutto, diventando una sorta di ectoplasma politico ancora attivo in questa estate elettorale. Guarda ad est, verso Visegrad, Ma, soprattutto, incontra più e più volte l’amico americano. Non uno qualunque. Varie penne nel taschino, una improbabile doppia camicia, la barba trascurata. Steve Bannon, ex stratega di Donald Trump, era stato allontanato da poco dalla Casa Bianca per motivi mai chiariti fino in fondo. Alla ricerca di un ruolo, gira l’Europa insieme ad uno sconosciuto avvocato belga, Mischaël Modrikamen, offre gratis l’ingresso ad un club esclusivo, crea un’aura di sulfureo mistero attorno ai suoi progetti, in una sorta di spettacolo di freaks. Ma con Giorgia gioca sul serio. Donna, cristiana e molto americana. Perché non scommettere su di lei? Tutto ha inizio quattro anni fa.
Roma mon amour
Steve Bannon ha una sconfinata passione per l’Italia. Bazzica Roma da anni, dove si vanta di frequentare cardinali che contano, cercando di inserirsi nella capitale dell’aristocrazia nera papalina. Quando ancora lavorava per Breitbart (“In realtà Breitbart lavorava per lui”, commenta sorridendo dagli Usa chi lo conosce bene) aveva aperto due sedi in Europa, a Londra e a Roma. Fino a quattro anni fa era conosciuto da pochissimi fuori dagli Usa, e solo all’interno del circolo dell’alt-right. Poi tutto cambia, appare il nome di un movimento, anzi, The Movement.
L’Hotel Browns & St. George appartiene al giro chic e molto tradizionale della Londra che conta. Costo di una suite? A quattro cifre. È il 18 luglio 2018. Nelle sale vittoriane dell’albergo di lusso Bannon avvia una serie di incontri con esponenti della destra europea. Mancava meno di un anno al voto per il Parlamento dell’Unione. L’esperienza alla Casa Bianca si era conclusa, la Brexit – che lo aveva visto protagonista silenzioso attraverso Cambridge Analytica – era ormai avviata. Il suo obiettivo era alzare la posta in gioco. A fine luglio Bannon spiega al giornalista del Guardian Paul Lewis il suo piano: “Il cuore pulsante del progetto globalista è a Bruxelles, se infilzo con il paletto il vampiro, l’intera faccenda comincerà a dissiparsi. Tutto converge al maggio 2019, ed è quando letteralmente prenderemo la Ue”. Nell’audio dell’incontro pubblicato dal giornalista inglese lo stratega Usa ad un certo punto fa riferimento alla leader italiana che si preparava ad incontrare: “Giorgia Meloni è una di un vecchio partito fascista” per poi aggiungere il prefisso “neo”. Ma non sembra essere questo un grosso problema per lo stratega di Trump. Ha un piano ben chiaro in testa: “Ricordati il teorema Bannon, metti una faccia ragionevole al populismo di destra e sarai eletto”.
Meloni scalda i motori
Il 31 agosto del 2018 davanti ad un notaio di Charleroi in Belgio, Giorgia Meloni, Carlo Fidanza e Francesco Lollobrigida firmano lo statuto di un nuovo partito europeo L’Alliance pour l’Europe des Nations. Lo stesso giorno Fabrizio Bertot firma la costituzione della collegata fondazione, con lo stesso indirizzo. L’indirizzo scelto per domiciliare il nuovo partito è curioso. Non si tratta di uno dei tanti edifici del quartiere europeo di Bruxelles, ma di un vicolo di Charleroi, dove ha sede l’ufficio di uno sconosciuto contabile di origine italiana. In quello stesso appartamento si era trasferita appena quattro mesi prima la fondazione Identités & Traditions Européennes, legata al partito dell’estrema destra europea filorussa Aemn, nel cui board sedeva Luca Romagnoli, esponente della Fiamma tricolore passato negli anni scorsi a Fratelli d’Italia.
L’ufficio stampa di FdI ha dichiarato a TPI di non avere avuto nessun rapporto con questa fondazione: “Abbiamo successivamente appurato che l’esperto contabile che ha curato le pratiche di registrazione del nostro partito e della nostra fondazione e presso cui gli stessi erano domiciliati, aveva precedentemente seguito professionalmente lo stesso processo per Ite”. Insomma, un puro caso, sostiene il partito di Giorgia Meloni. Legato al mondo russo era anche Fabrizio Bertot, che sempre il 31 agosto firma l’atto costitutivo della Fondation pour l’Europe des Nations, collegata con l’omonimo partito messo in piedi da Giorgia Meloni. Bertot, che oggi milita in Fratelli d’Italia, è stato eurodeputato tra il 2013 e il 2014 per Forza Italia. Nel marzo del 2014 era in Crimea, partecipando come osservatore alle elezioni non riconosciute dalla comunità internazionale dopo l’invasione della Russia. Non ha mai nascosto la sua simpatia per il giro moscovita, tanto da collaborare con una certa continuità per Sputnik, uno dei canali informativi controllati dal governo Putin.
La creazione del nuovo partito europeo e della fondazione collegata rimangono riservate, mai annunciate pubblicamente da Fratelli d’Italia. In apparenza i due soggetti erano stati pensati come strumento legale per costituire il partito politico europeo, il veicolo per ottenere i fondi pubblici del Parlamento, dopo le elezioni del maggio 2019. Rimarranno semplici creature di carta, progetti abortiti, ma, curiosamente, oggi ancora attivi, come TPI ha potuto verificare. Perché? Carlo Fidanza – che insieme a Giorgia Meloni e Francesco Lollobrigida partecipò alla costituzione della Alliance pour l’Europe des Nations – non ha voluto rispondere direttamente a TPI su questo punto specifico. L’ufficio stampa di FdI ha così commentato: “Una volta definita la totale sintonia e di conseguenza l’ingresso di FdI nella famiglia politica di Ecr il nuovo contenitore viene immediatamente dismesso. Non c’è stata mai alcuna attività, né il partito né la fondazione hanno nemmeno mai aperto i rispettivi conti correnti bancari, non hanno quindi mai ricevuto né fondi dalle istituzioni Ue né da alcun altro soggetto”. Una “dismissione” quantomeno parziale, visto che ancora oggi l’Alliance pour l’Europe des Nations appare come “attiva” nel registro delle imprese del Belgio.
Un certo fascino per il pensiero russo però Fidanza all’epoca lo aveva. Il 4 novembre di quell’anno, mentre Giorgia Meloni si preparava, come vedremo, ad entrare nella famiglia dei conservatori ultra-atlantisti, l’eurodeputato si mostrava in prima fila a Palazzo Reale a Milano, in una conferenza di Aleksandr Dugin, il politologo moscovita, la cui figlia Darya è rimasta vittima di un attentato nei giorni scorsi. È una sorta di alter ego russo di Bannon, tessitore di una invisibile rete ultra tradizionalista in Europa. In quell’incontro Fidanza si sentiva a suo agio, salutando con la mano sull’avambraccio i camerati milanesi, come si vede in alcuni video della serata. Tra gli organizzatori c’erano Rainaldo Graziani e Maurizio Murelli, esponenti di punta dall’area della destra radicale oggi dichiaratamente schierati con Putin.
L’amico americano
Giorgia Meloni, nel frattempo, guardava decisamente ad ovest, verso Donald Trump e il suo movimento Maga, Make America Great Again. Un doppio forno, si direbbe. In quell’estate di quattro anni fa gli incontri tra la leader di Fratelli d’Italia e Steve Bannon diventano quasi frenetici. A Roma l’ex stratega della Casa Bianca poteva contare su un collaboratore fidato, l’inglese Benjamin Harnwell. Pesa con cura le parole quando racconta a TPI quei mesi dell’agosto del 2018: “Ci sono stati diversi incontri tra Bannon e Giorgia Meloni a Roma – spiega – c’era un dialogo tra loro due. Bannon ha un’opinione molto alta, la stima molto. Parla sempre della sua energia e carisma”. Fino ad oggi erano noti due incontri tra Meloni e Bannon. Il primo documentato dalla troupe del Guardian e poi la Convention ad Atreju, a fine settembre. In realtà il rapporto tra i due era decisamente più solido e di vecchia data: “Gli incontri tra Steve e Giorgia erano cordiali, c’era intesa, c’era feeling. Quando Bannon ha iniziato a tornare a Roma, dopo essere uscito dalla Casa Bianca, lui la conosceva già”, aggiunge Harnwell. E anche oggi Bannon è pronto a puntare le sue carte su Giorgia: la chiama “una rockstar”. La definisce “la Margaret Thatcher d’Italia”. Cosa si siano detti in quei colloqui riservati, organizzati lontani da occhi indiscreti, ancora oggi è difficile da capire.
La rete atlantista
Proviamo a tirare una riga. Fratelli d’Italia si preparava all’appuntamento elettorale delle europee con due mosse. Una prima, affidata soprattutto a Carlo Fidanza – che all’epoca si occupava dei rapporti internazionali del partito – con la fondazione di una associazione a Charleroi, che poi viene rapidamente abbandonata. La seconda stringendo stretti contatti con uno degli uomini più vicini a Trump, rappresentante del movimento Maga, la parte del partito repubblicano Usa più vicino all’estrema destra d’oltreoceano. Fidanza guardava ad est, mostrandosi in prima fila negli incontri con Dugin, Giorgia Meloni creava una stretta connessione con Steve Bannon, puntando le sue carte sul Make America Great Again. Sullo sfondo c’era il progetto The Movement, il club sovranista che lo stratega politico statunitense stava pubblicamente promuovendo, ufficialmente per fornire supporto tecnico (sondaggi, dati, strategie) ai partiti dell’ultra destra europea in vista delle elezioni. Ma il vero progetto stava prendendo un’altra forma.
C’è una dichiarazione del novembre 2018 riportata dal quotidiano conservatore Usa legato alla setta del reverendo Moon, il Washington Times, del leader di Vox Santiago Abascal, in grado di mostrare con maggiore chiarezza qual era l’asse che si stava costruendo all’epoca: “Steve Bannon ci ha dato consigli e ha contribuito a stabilire connessioni con altri partiti che la pensano allo stesso modo attraverso organizzazioni come l’Alleanza dei Conservatori e Riformisti in Europa”. Il riferimento è all’European Conservatives and Reformists, l’Ecr, il partito di cui Giorgia Meloni diventerà leader due anni dopo, nel 2020. L’Ecr fin dalla sua nascita è stato il vero link tra la destra repubblicana Usa e i conservatori europei. È il santuario del neoliberismo targato Ronald Reagan, Margaret Thatcher e Milton Friedman, l’economista padre dei Chicago boys. Sull’atlantismo non hanno dubbi, Donald Trump è il leader a cui guardare oltre oceano. Tanto tea party, pochissimo Stato. La casa europea di Giorgia Meloni ha un marchio inconfondibile, rimasto intatto anche quando la leader di Fratelli d’Italia ne è diventata presidente. L’iconografia, le citazioni, l’intero apparato ideologico non è cambiato, anzi. Della vecchia destra sociale alla fine non è rimasto nulla.
Negli stessi giorni in cui il leader di Vox raccontava come Bannon lo avesse aiutato ad entrare nella rete che si stava costituendo attorno al partito dei conservatori europei, Fratelli d’Italia entrava formalmente in quella famiglia europea. Il 9 novembre aderendo al gruppo Ecr, nei giorni successivi versando 17.500 euro alla fondazione collegata, New Direction. Nel febbraio del 2019 Giorgia Meloni, durante la “Blu Convention” del partito europeo, annuncia formalmente l’adesione. The Movement era appena un ballon d’essai, nato nell’estate del 2018 si è dissolto nel nulla poco dopo. La vera strategia di Steve Bannon era un’altra.
Fratelli d’America
“Per noi questa non è una alleanza tattica, l’abbiamo voluta e perseguita continuamente”, spiegò Giorgia Meloni mentre annunciava l’adesione all’Ecr, qualche mese prima delle elezioni europee. Il partito dei conservatori era nato nel 2009, per iniziativa dei Tories inglesi guidati all’epoca da Cameron. Il leader storico, rimasto in carica fino al 2018, era Daniel Hannan, tra i promotori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Definito dal Guardian “l’uomo che vi ha portato la Brexit”, è stato tra i fondatori della campagna “Vote Leave”. Durante il suo lungo mandato europeo, a capo del partito dei conservatori oggi guidati da Giorgia Meloni, ha fatto di tutto per screditare dall’interno l’Unione europea. Secondo la testimonianza di un suo ex assistente a Bruxelles, raccolta dal Guardian, “i compiti erano divisi tra rispondere agli elettori “le cose più cattive” e cercare sprechi e ipocrisia a Bruxelles per la rubrica di Hannan sul Sunday Telegraph”. Nel contempo l’Ecr costruiva un’immagine e una ideologia fortemente liberista, mostrando ovunque il proprio santuario politico di riferimento, da Ronald Reagan a Margaret Thatcher.
L’Ecr ha avuto – e in parte continua ad avere – uno sponsor importante, un nome che conta molto nel mondo delle lobby politiche internazionali. È l’Heritage Foundation, il potente Think-tank finanziato dai fratelli Koch, per anni principali finanziatori del partito repubblicano Usa. Anche sotto la guida di Giorgia Meloni, la Heritage continua ad avere un’ottima vetrina, partecipando ai principali eventi di alto livello dell’Ecr.
“Bruxelles è il cuore del globalismo”, spiegava Bannon nel suo tour europeo del 2018. L’attacco all’Europa era iniziato anni prima con la Brexit ed aveva il suo avamposto nel Parlamento dell’Unione grazie al partito dei conservatori. E la Heritage scommetteva su quel manipolo di politici inglesi in trasferta a Bruxelles: “Il voto sulla Brexit è stato l’altro esperimento di laboratorio su come i patrioti possano schiacciare i transnazionalisti in futuro”, scriveva nel 2017, sul sito dell’Ecr, Mike Gonzalez, uno dei principali analisti della fondazione Usa.
Il conservatorismo nazionalista
L’incoronazione di Giorgia Meloni all’interno del solido establishment ultraconservatore e tradizionalista arriverà meno di due anni dopo gli incontri riservati con Steve Bannon. Di nuovo è Roma lo scenario, al Grand Hotel Plaza di via del Corso.
Il 3 e 4 febbraio 2020 va in scena la convention “National Conservatism” del Think-tank statunitense Edmund Burke Foundation, al grido di “Dio, onore e patria”. Numi tutelari Giovanni Paolo II e Ronald Reagan, ovvero quell’asse che negli anni ’80 aveva combattuto il nemico di sempre, il comunismo e il socialismo nel mondo. Giorgia Meloni apre i lavori: “Condivido in pieno le valutazioni di Yoram sulla necessità di riportare il conservatorismo al suo ambito tradizionale, quello delle identità nazionali. Il nostro principale nemico è oggi la deriva mondialista di chi reputa l’identità, in ogni sua forma, un male da combattere e agisce costantemente per spostare il potere reale del popolo a entità sovranazionali guidate da presunte élite illuminate”. Sposa in pieno le tesi del fondatore e chairman della Fondazione Burke, Yoram Hazony, fedele supporter di Benjamin Netanyahu, autore del libro “La virtù del nazionalismo”. È lui il vero guru a cui si richiama, apertis verbis, Giorgia Meloni. Sostiene il concetto delle tribù alla base delle nazioni, dove la coesione è fondata sulla fedeltà e non sul consenso. Un sistema da contrapporre agli “imperi globalisti”, che così declina, in stretto ordine cronologico: l’impero romano, quello asburgico, l’Unione sovietica. E, infine, l’Unione europea. Il nemico oggi, per Hazony, sono tutte le organizzazioni internazionali nate dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, dal Consiglio di sicurezza dell’Onu fino all’Organizzazione mondiale del commercio, passando per la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Eccola la “deriva mondialista” che Giorgia vuole combattere.
Passano pochi mesi è c’è l’incoronazione finale, presidente di quel partito europeo nato per sabotare dall’interno il sogno di Altiero Spinelli, l’Unione europea. Tornando alle “tribù” basate su “onore e fedeltà”.
Leggi anche: Altro che nostalgico fascismo, il piano di Giorgia Meloni è un altro, ben più pericoloso (di G. Gambino)