Cosa deve fare il nuovo governo di destra sull’Ucraina?
(Pausa, sospiro). «Non ho dubbi».
Cioè?
«Giorgia Meloni ha una grande opportunità».
Quale?
«Dispone di tutto quel che le serve per l’impresa: prestigio, ruolo, relazioni internazionali giuste».
Quale impresa?
«Mettersi al tavolo della pace, lavorare e incidere su un accordo diplomatico».
Rompendo la solidarietà atlantista?
«No, l’Italia è nella Nato, e ci deve restare. Ma anche nel perimetro di questo campo esiste il margine per fare quel che Draghi non ha voluto o potuto fare».
Cosa?
«Sulla guerra, sull’energia, sull’economia, va ricostruito il patto fondamentale della convivenza civile, in Italia e in Europa. Se Giorgia lo fa, può passare alla storia».
Alessandro Giuli, giornalista, opinionista (ex vicedirettore de Il Foglio), editorialista e firma di Libero, intellettuale ascoltato dalla nuova maggioranza (lui oggi si definisce «Un ex ragazzo della destra radicale con un nonno a Salò, e un presente neogobettiano»). Giuli ha molta influenza sulla nuova classe dirigente meloniana e dice: «Non ho nessuna remora a definirmi “pacifista”. Lo sono. Oggi, nel nostro Paese e in Europa, uno dei veri discrimini è tra chi vuole che la guerra finisca e tra chi, per un motivo o per un altro, ha interesse che prosegua».
Sai che la tua posizione è controcorrente.
«Rispetto a chi? Non certo rispetto alla maggioranza degli italiani, contrari alla guerra, sia secondo i sondaggi sia per l’esperienza che ognuno di noi fa nel mondo reale».
«Controcorrente» nel mondo dei media.
«Bene, allora».
E come spieghi l’antibellicismo degli italiani?
«I cittadini di questo Paese vogliono pace e prosperità. La guerra gli toglie entrambe le cose».
E quindi?
«Il nuovo governo, se vuole avere un ruolo, deve assicurare questo: pace e prosperità. È il mandato che la leader di Fdi ha ricevuto».
Cosa significa?
«Fine della guerra. E, di conseguenza, fine della crisi energetica».
Ma la solidarietà con il popolo invaso?
«Diciamolo così, un po’ brutalmente: per gli italiani Zelensky è il sottoprodotto di una serie televisiva che ha fatto il 2%. Non un eroe».
Ti diranno che sei «amico di Putin»?
«Basta! Ho detto e scritto che Putin è “un tiranno, un autocrate e un genocida”».
Ti accusano lo stesso, lo sai.
«Questo giochino dialettico di squalificare chi si oppone alla guerra con l’accusa di essere filo-russo è finito. Ha stancato».
Perché?
«Il complessismo è il secondo nome del putinismo. So che secondo la santa inquisizione che alberga in molti media è una eresia, ma credere nell’Alleanza atlantica non vuol dire obbedire all’Alleanza atlantica».
Vuoi la resa di Kiev?
«L’obiettivo è una pace giusta».
Andresti a manifestare con il Pd davanti all’ambasciata russa?
«No».
La Meloni deve andare a Kiev?
«Fossi in lei non lo farei».
Perché?
«Ha già detto quel che doveva. In questo clima vorrebbe dire sostenere una posizione diplomatica precisa, schierarsi univocamente. La solidarietà a Zelensky la puoi manifestare anche da qui».
Anche in Italia molti auspicano la caduta di Putin.
«Sono contro l’estetica guerrafondaia. Non mi piace l’invocazione del “regime change” in Russia».
Perché?
«È un errore coltivare l’idea che Putin vada abbattuto. Se si mette la Russia in un angolo l’alternativa potrebbe essere peggiore».
La Nato sta combattendo contro la Russia in Ucraina?
«Non credo che ci sia un piano pre-ordinato per combattere una guerra per procura. Accade. Ma adesso gli ucraini vogliono accelerare».
Un male?
«Sì. Con le iniziative militari non concordate, la situazione sta sfuggendo di mano.
Cosa lo può impedire?
«Se c’è una alleanza, è d’obbligo una consultazione. Se non c’è, non siamo incatenati alle scelte di Kiev».
L’accordo di pace è impossibile, dicono.
«Non credo, servono almeno due garanzie. La prima è una iniziativa strategica perché l’Ucraina si riappropri dei suoi spazi di sovranità».
E la seconda?
«Che diventi uno Stato libero, disarmato e protetto dall’Europa».
Ti diranno: il tuo è «antiamericanismo di destra».
«Ho imparato a conoscere l’America. Sono diventato più realista di quanto non fossi da ragazzo. Ho riconosciuto la grandezza di quello che a vent’anni mi sembrava un nemico».
Scuola “Il Foglio”.
«Giuliano (Ferrara, ndr) ha influito molto nella mia seconda formazione, su artisti, temi…».
Ti senti un “intellettuale di riferimento” del nuovo governo?
«Persone come Pietrangelo Buttafuoco, o il sottoscritto, non hanno tessere in tasca. Abbiamo relazioni personali antiche con molti esponenti di questa nuova classe dirigente».
È vero che sei amico della Meloni?
«Sì, abbiamo un rapporto amichevole».
Sai che farà ciò che dici?
(Sorriso). «Penso che possa farlo. In questo l’amicizia non ha ruolo».
Perché dovrebbe riuscire dove hanno fallito Berlusconi e Salvini?
«Giorgia non ha il difetto dell’alterigia. Ascolta. Studia, chiede consiglio, quando sa di non sapere. Doti preziose in un leader. Potrebbe resistere al processo di mostrificazione».
Il potere «mostrifica»?
«Sempre: chi governa deve arrivare al compromesso, ma evitare che diventi compromissione».
Come?
«Trovando punti di equilibrio senza perdere la propria idealità».
Sembra una frase di Tolkien.
«L’ho letto, senza mitizzarlo. Ma ora la nuova destra deve uscire dall’epica trasfigurata del Signore degli anelli per entrare nella realtà “Entrare nell’era del ferro e del fuoco”, come diceva Carlo Rosselli».
Citi un martire antifascista?
«Ovviamente sì. Ho fatto i conti con la mia memoria familiare, ho già fatto la mia Fiuggi privata».
E lo dici proprio tu, che hai carbonizzato Fini nel tuo pamphlet, “Il passo delle Oche”?
«Non rinnego la mia critica alla “destra ancillare” di An, che si accontentava di una operazione sostanzialmente trasformistica sul rapporto con il fascismo».
E come si fa a non essere trasformisti?
«Tutti gli esponenti del nuovo governo dovranno andare a festeggiare il 25 Aprile».
Per necessità di abiura?
«No, per senso dello Stato. Quando ti dico che da “nipote” di un nonno a Salo ho fatto i conti con il mio karma, intendo riconoscere che oggi lo Stato è la Repubblica nata dalla Resistenza, punto».
La Meloni può fare questo?
«Lo ha già fatto. Nessuno lo dice, o lo ricorda, ma ha già giurato sulla Costituzione antifascista, da ministro della Gioventù. Quando sarà primo ministro renderà più visibile quello che è già».
Lei ha detto che «consegna il fascismo alla storia».
«Ora questo slogan non basta».
Cioè?
«Gli storici devono consegnare alla storia. I politici devono dare un giudizio politico. E non può che essere la condanna di un regime».
«Consegnare» può significare «eludere», intendi.
«Ma un politico non può farlo. Un architetto può dire che c’è del buono nell’architettura del Ventennio. Un ingegnere può trovarlo nelle bonifiche. Ma un politico non può eludere il giudizio sul totalitarismo».
La tua storia, quella “dei vinti”, era un errore?
«Noi eravamo dalla parte del torto, anche se gli altri non avevano sempre ragione».
Cosa unisce fascisti e antifascisti?
«Una cosa complessa che provo a spiegare in modo semplice: fascisti e antifascisti si sono combattuti nel perimetro della patria. E da questo sono rimasti uniti anche dopo il 1945. Adesso manca l’ultimo passo».
Quale?
«Nel centenario della Marcia su Roma la destra vince».
Una nemesi, per la sinistra.
«Per la destra, invece, la nemesi deve mutarsi in astuzia della ragione: riconoscendo l’antifascismo come un valore. E facendosi sistema».
Non sarebbe un tradimento, per te?
«No, perché non riguarda i valori, ma la legge fondamentale dello Stato: è il compito di ogni classe dirigente. Non c’è più niente a cui omologarsi. Giorgia è aiutata dal fatto di essere davvero l’ultima spiaggia. Per tutti».
Ma “Dio, patria e famiglia“ ti piace?
«Figurati. Era già contestato nel Msi. Per me semmai è “Dei patria e famiglie”».
Dei e non Dio?
«Più d’uno, a seconda dei credi».
E famiglie, non solo quella tradizionale?
«La famiglia tradizionale non esiste: è una federazione tribale, in cui si sposano comunità, parenti, popoli, non singoli. E per questo io riconosco anche il valore della famiglia arcobaleno».