In sei mesi da capo del governo, Giorgia Meloni ha compiuto 19 missioni all’estero; escludendo le sortite in Vaticano, sono 17, di cui quattro a Bruxelles per incontri di presentazione e/o collegiali Ue e Nato. Dalle 13 destinazioni restanti, emerge una geografia alternativa della politica estera italiana rispetto ai percorsi più tradizionali.
Non ci sono – ancora – gli Stati Uniti, dove una visita è prevista «prima dell’estate» (si attende l’annuncio ufficiale). C’è parecchia Europa, ma, accanto alla Germania, non ci sono né la Francia – con Parigi e con Macron, i rapporti restano altalenanti se non conflittuali sia sul piano governativo che su quello personale, né la Spagna. Ci sono, invece, Polonia e Svezia, Paesi i cui attuali governi hanno maggiore sintonia sui temi dell’integrazione e dell’immigrazione con quello italiano e i cui partiti di riferimento sono alleati di Fratelli d’Italia nel Parlamento europeo.
Sempre in Europa, c’è inevitabilmente l’Ucraina: una missione ben collocata, a un anno esatto dall’inizio dell’invasione, ma mediaticamente un po’ oscurata, almeno a livello internazionale, perché il giorno prima c’era stato il presidente Usa, Joe Biden. E c’è l’Albania, tassello di quella “diplomazia delle ex colonie”, per non dire dell’Impero, che ha avuto come altre tappe, la Libia e, solo la scorsa settimana, l’Etiopia, dove c’è stato un incontro congiunto di Meloni con i leader etiope e somalo. A completare il quadro, manca l’Eritrea, che è il Paese da cui proviene il maggior numero di migranti del Corno d’Africa.
Questione di priorità
Va detto che il presidente del Consiglio ha il vantaggio, rispetto al suo predecessore Mario Draghi, di potere contare su un ministro degli Esteri sperimentato e noto agli interlocutori internazionali, specie per i suoi trascorsi europei, Antonio Tajani, che si fa carico di tenere le fila dei rapporti più tradizionali e di cercare di ricucire gli strappi e di appianare le tensioni. Ruolo eccezionalmente assunto anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ad esempio verso la Francia.
E va, inoltre, ricordato che il “turismo geo-politico” è un intreccio di visite fatte e ricevute e che, specie in ambito G7 e Ue, ha oggi molto meno rilievo che in passato, perché le occasioni di incontro fra i leader, ai vertici o a margine di essi, sono numerose.
Il fatto più nuovo della “diplomazia meloniana” è la frequenza nei suoi viaggi di Paesi dell’Africa – Egitto ed Algeria, oltre a quelli già citati del passato coloniale – e del Medio Oriente, Iraq ed Emirati Arabi Uniti, mentre le missioni a Bali, in occasione del G20 del novembre scorso sotto la presidenza di turno indonesiana, e in India, che ha ora la presidenza del G20, sembrano avere un carattere più contingente.
Ne viene fuori l’immagine di una politica estera del premier tarata in Europa sulle affinità partitiche e segnata, fuori dall’Europa, dalle priorità energetiche e migratorie, guardando alla “stella polare” del “piano Mattei” di cui, per ora, oltre il nome si sa poco, anche se l’evocazione del presidente dell’Eni dell’immediato dopoguerra, Enrico Mattei, è più uno specchietto per le allodole che un riferimento concreto e fattuale: Mattei cercava la via italiana all’autonomia energetica ponendosi in concorrenza con le “sette sorelle” del mondo occidentale, mentre il governo Meloni sembra percorrere una linea d’ortodossia atlantista.
Le priorità energetiche erano già state affermate dal governo Draghi, sotto la spinta dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che ha spinto a ridurre, in tempi brevi e in modo drastico, la dipendenza da Mosca. L’operazione è sostanzialmente riuscita, ma questo non vuol dire che l’energia alternativa acquisita abbia certificazioni democratiche maggiori di quella russa.
Le priorità migratorie sono, invece, un portato del governo Meloni, sia per l’aumento dei flussi, che restano comunque di gran lunga inferiori a quelli gestiti da altri Paesi europei – nell’Unione, infatti, non si arriva solo traversando il Mediterraneo su imbarcazioni più o meno di fortuna –, sia per una tendenza delle forze politiche che sostengono l’esecutivo italiano a drammatizzare il fenomeno.
Fra le ricette proposte, una non originale, ma di buon senso, è dare sostegno alle economie dei Paesi di provenienza, così da creare posti di lavoro, stimolare la crescita, ridurre la spinta a partire. Di qui il “Piano Mattei”, i cui effetti potranno però misurarsi negli anni – e non nei mesi – a venire, senza contare che una strategia del genere può rivelarsi efficace, a livello di continente africano, solo se attuata dall’Unione europea nel suo insieme e non da un singolo Paese, che non ne ha le risorse. Attualmente, gli abitanti dell’Africa sono un miliardo e mezzo, oltre tre volte la dimensione dell’Ue, quasi 30 volte quella dell’Italia.
E perché l’Ue assecondi le spinte dell’Italia bisogna avere sponde a Bruxelles, Parigi, Berlino; quelle a Varsavia o – peggio – a Budapest possono risultare addirittura controproducenti.
In attesa del lancio del piano previsto a ottobre, il 24 maggio, cioè fra poco più di un merse, l’Italia organizzerà e co-presiederà con l’Onu a New York una conferenza di donatori sulle sfide umanitarie e le emergenze nel Corno d’Africa: lo riferisce OnuItalia, pubblicazione online specializzata sull’interazione tra Italia e Onu. L’ultimo evento di questo genere si svolse l’anno scorso a Ginevra e raccolse impegni per 1,4 miliardi di dollari di aiuti.
Aiutarli a casa loro
In questo senso, l’Italia pare intenzionata a fare della Tunisia un “test case” del “Piano Mattei”: il Paese maghrebino sta vivendo una fase di instabilità democratica e di crisi economica e le partenze verso l’Italia si stanno intensificando. A breve termine, una risposta potrebbe essere quella adottata dall’Italia con la Libia e dall’Ue con la Turchia: pagare perché i governi blocchino le partenze dei migranti dalle loro coste. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ottenuto così dall’Unione europea sei miliardi di euro, ma i migranti hanno creato vie alternative, come la “rotta turca”, che per cinque o seimila euro porta afghani e siriani fin sulle coste calabre, proprio quella percorsa da “Summer love”, il barchino del naufragio di Cutro.
Per Meloni, in Africa «l’Europa è rimasta indietro»: «Si recupera decidendo e capendo – e l’Italia cerca di spingere su questo – che l’Africa per noi è strategica». Discorsi, in realtà, non nuovissimi: sono almeno vent’anni che, su input in particolare della Francia, il G7 lancia piani per l’Africa e invita ai suoi vertici leader africani; ed è un tempo analogo che l’Unione europea lancia iniziative per il continente e le dedica sessioni dei suoi summit, con i medesimi invitati. Ma, dal punto di vista dello sviluppo, i risultati restano insufficienti. E in Africa l’Occidente, nel XXI Secolo, cede terreno alla Cina, che è diventata partner essenziale di molti Paesi.
Parlando ad Addis Abeba, in un punto stampa al termine della sua visita, la premier ha spiegato che «il lavoro» che sta «cercando di fare è accendere i riflettori sulla necessità» di sostenere lo sviluppo dei Paesi africani. «L’Italia può fare sicuramente la prima fila di questo lavoro, ma una cosa è farlo come Italia, e una cosa è farlo come Europa nel suo complesso».
Aiutare l’Africa è strategico, insiste Meloni, «non solo perché siamo i dirimpettai, i vicini di casa», ma anche perché «è un continente che, a differenza della percezione che se ne ha, non è povero, ma talora viene sfruttato e talora non ha gli strumenti per tirare fuori le proprie ricchezze, con cui potrebbe tranquillamente vivere e prosperare».
L’Etiopia attualmente ospita oltre un milione di rifugiati: «Se queste nazioni non vengono sostenute in questo lavoro – ha spiegato Meloni – a cascata i problemi arrivano da noi. L’Italia lo capisce di più, ma comincio a vedere un cambio di attenzione e la percezione dell’errore che è stato fatto nel momento in cui l’Europa, indietreggiando, ha favorito la presenza di altri attori (leggasi Cina, ndr) che possono avere un approccio diverso dal nostro, anche per questioni geografiche».