“Quando due esperienze culturalmente e ideologicamente agli antipodi si incontrano, non basta mettere sul tavolo i propri numeri e limitarsi a sommarli con la calcolatrice. Perché il rischio, quando la politica diventa un mero esercizio aritmetico, è trovare qualcuno dall’altra parte che i calcoli li fa molto meglio di te.
Fin quando si trattava di mettere insieme i numeri in Parlamento, a bocce ferme, l’operazione di ingegneria politica poteva anche funzionare. Ma quando estendi il progetto al di fuori del palazzo, misurandolo a livello elettorale, capita che gli effetti collaterali superino di gran lunga quelli immaginati. Col risultato di trasformare una prevedibile sconfitta in una resa identitaria e genetica dalle conseguenze potenzialmente fatali. Per entrambi”.
Queste poche righe le ho scritte su queste colonne il 14 ottobre scorso, a tredici giorni dalle elezioni regionali in Umbria. E, se assomigliano tanto a un’analisi post-voto, non è perché sono in grado di viaggiare nel tempo o sono un raffinato politologo.
La ragione è, in verità, piuttosto semplice: perché era già tutto scritto. Ogni cosa, dalla prima all’ultima. Bastava solo avere il coraggio di guardarlo senza pregiudizi o illusioni, mettendo per un attimo da parte lo spauracchio di Salvini, che a sinistra e dintorni è passato nel giro di pochi mesi da essere un pericolo (autentico) per la democrazia a “ragion di Stato” per giustificare ogni genere di alchimia politica-elettorale. Anche le più innaturali.
Ora lo certificano impietosamente anche i numeri reali. E sarebbe un tragico errore rifugiarsi – come sta facendo in queste ore il segretario dem Zingaretti – in un tardivo rimpallo di responsabilità ai renziani e a chi, legittimamente, ha scelto un’altra strada.
Se c’è una cosa che il voto umbro ha detto chiaramente, è che: a) Salvini non lo sconfiggi con fredde operazioni di ingegneria politica ma rimettendo al centro dell’agenda le idee, assumendosi la responsabilità di scelte impopolari, se necessario, come l’abrogazione dei due decreti sicurezza, senza strizzare l’occhio alle comode scorciatoie dell’anti-politica (leggi taglio dei parlamentari). Facendo, per una volta, qualcosa di sinistra. Se non altro per sentire l’effetto che fa.
b) Il Movimento 5 Stelle, specie sui territori, è precipitato ormai in un lungo inverno elettorale da cui non si riprenderà certo indossando la pelle di chi avrebbe dovuto mandare a casa, ma tornando, se non alle origini, a quel ruolo di outsider vero o presunto che, solo poco più di un anno e mezzo, l’aveva portato al suo massimo storico. Non è più il tempo del “Vaffa”, ma nemmeno degli inchini. La realtà è che oggi Di Maio e soci sono materia altamente radioattiva per chiunque vi si avvicini. Zingaretti prenda nota e corregga la rotta, prima che sia troppo tardi.
c) Chi in Umbria cercava la prova dell’esistenza di Dio ha avuto, piuttosto, una prova dell’esistenza della politica. E, in politica, quando per battere l’estrema destra ti allei con la sua brutta copia, finisce sempre per vincere l’originale.
Vero è che le regionali in Umbria rappresentano un test tutto sommato marginale e in cui il centro-sinistra partiva già azzoppato dallo scandalo Sanità e dalle dimissioni anticipate dall’ex governatrice Catiuscia Marini. Tutto vero.
Ma i risultati di ieri ci dicono in modo chiaro e incontrovertibile che non basta sommare due bacini elettorali distantissimi tra loro per ottenere un risultato, senza prima aver costruito intorno un’idea, un progetto, un retroterra comune.
Può funzionare in Parlamento, a bocce ferme, facendo la conta dei gruppi parlamentari, ma fallisce miseramente quando ti presenti di fronte agli elettori chiedendogli un voto sulla base di un unico programma politico: fermiamo Salvini.
Pd e 5 Stelle avevano di fronte a sé due strade. Potevano scegliere se perdere fragorosamente le elezioni o perdere la faccia. Hanno scelto di perdere la faccia e hanno finito per perdere (fragorosamente) le elezioni.
L’Umbria è il primo, assordante, campanello d’allarme. Nessuno si può permettere di non ascoltarlo.
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