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    Codice antimafia, testimoni di giustizia e rapporti mafia-massoneria. Intervista a Rosy Bindi

    La presidente della commissione parlamentare antimafia ha fatto il punto con TPI sui disegni di legge contro la criminalità organizzata al vaglio di Camera e Senato e sui presunti legami tra mafia e logge regolari

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 26 Set. 2017 alle 12:39 Aggiornato il 18 Apr. 2019 alle 10:38

    Dopo anni di lavoro, la commissione parlamentare antimafia guidata da Rosy Bindi spera di concludere quanto iniziato. Due disegni di legge nati in commissione – quello sui beni confiscati alla mafia e quello sui testimoni di giustizia – in questi giorni sono al vaglio definitivo rispettivamente di Camera e Senato. La speranza è che diventino legge prima della fine della legislatura.

    Sul tavolo della commissione restano altri due dossier aperti: quello sui presunti rapporti tra mafia e massoneria e quello sulle stragi degli anni Novanta. La prima inchiesta, anche se non si è ancora conclusa, ha accertato la presenza di persone condannate in via definitiva per mafia (o per reati con l’aggravante mafiosa) tra gli iscritti alle logge massoniche regolari di Sicilia e Calabria, secondo quanto anticipato da Bindi.

    Dopo che diverse obbedienze della massoneria regolare si sono rifiutate di consegnare gli elenchi degli iscritti siciliani e calabresi, invocando il diritto alla privacy, a marzo 2017 la commissione ha inviato la guardia di finanza a sequestrare tali documenti. La principale associazione massonica in Italia, il Grande Oriente d’Italia, ha annunciato il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro questo provvedimento.

    In un’intervista telefonica con TPI, la presidente della commissione antimafia ha spiegato perché è importante approvare i disegni di legge in esame e ha fornito nuovi dettagli sulle scoperte della commissione sul tema dei rapporti tra mafia e massoneria.

    Presidente Bindi, il lavoro della commissione parlamentare antimafia è ora sotto lo scrutinio del Senato, con la legge per la protezione dei testimoni di giustizia, e della Camera, con la legge sui beni confiscati alla mafia. Cosa possiamo aspettarci?

    Vorremmo vedere il completamento del nostro lavoro. I primi tre anni li abbiamo sostanzialmente dedicati a questi due temi. Abbiamo prodotto due progetti di riforma molto significativi che hanno subito a loro volta dei cambiamenti nel corso dell’approvazione a Camera e Senato. Vorremmo che vedessero la luce entrambi. In commissione rimangono due inchieste aperte: quella sui legami tra mafia e massoneria e un contributo alla verità sulla stagione delle stragi degli anni Novanta, e in particolare la strage di via d’Amelio.

    Esiste un rischio di depotenziamento per il testo del nuovo codice antimafia?

    L’auspicio è che il testo venga approvato così come ci è tornato dal Senato. Non era nato così in commissione parlamentare antimafia. Sono state apportate significative modifiche in prima lettura, sia alla Camera sia al Senato. Soprattutto nel punto più contestato, che è quello dell’estensione delle misure di prevenzione ai reati contro la pubblica amministrazione, la formulazione uscita dalla commissione era molto diversa da quella del testo che andrà in approvazione.

    Ma al di là delle possibili modifiche credo che sia meglio approvare la nostra proposta, piuttosto che farla fallire per amore di perfezione. È una riforma che contiene innovazioni significative, il nostro lavoro ha messo a frutto le esperienze di questi anni su sequestro, confisca e utilizzo dei beni delle mafie. Se in futuro ci sarà da cambiare ancora qualcosa, al governo non mancherà la possibilità di intervenire.

    Ma il punto che viene invocato, cioè che non si dovrebbero estendere le misure di prevenzione ai reati contro la pubblica amministrazione, mi pare veramente un pretesto. Perché questo già avviene. Le misure di prevenzione, sequestro e confisca dei beni, oggi vengono applicate per caporalato, reati ambientali, per i corrotti seriali, per gli evasori fiscali.

    Alcuni mesi fa in un’intervista a TPI il prefetto Umberto Postiglione auspicava un potenziamento dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia, soprattutto relativo al personale. Questo è ancora previsto nel testo? Di che potenziamento si tratta?

    Nel testo questo è uno dei punti centrali. Il potenziamento non è inteso solo come aumento del personale, ma soprattutto come qualifica di chi vi lavorerà. L’agenzia è stata dotata prevalentemente di personale votato ad attività burocratiche. Invece deve essere capace non solo di conservare i beni sequestrati ai mafiosi, ma anche di farli fruttare, trasformandoli in ricchezza per il paese. Quindi vanno gestiti sicuramente mantenendo le garanzie giuridiche, ma vanno gestiti anche con mentalità imprenditoriale, manageriale.

    Per noi l’agenzia deve diventare come una piccola IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale.

    L’agenzia deve gestire un patrimonio di circa 25 miliardi. Non possono farlo i comandati dell’amministrazione del ministero degli Interni, per di più a Reggio Calabria.

    Questo si intreccia anche con il tema della tutela dei lavoratori che operano in quelle imprese.

    Il grande scontro ideologico che ruota purtroppo intorno a questo tema è: un’azienda mafiosa deve essere venduta o bisogna puntare al suo rilancio? Il disegno di legge scommette sulla possibilità che queste aziende possano restare sul mercato, non escludendo che ci siano delle situazioni insanabili, e che quindi si debba procedere allo smantellamento dei beni aziendali.

    Per restare sul mercato però servono investimenti: portare un’impresa dall’illegalità mafiosa alla legalità ha dei costi, perché spesso le imprese mafiose vivono di mafiosità – di clienti mafiosi, di fornitori mafiosi, di personale mafioso, di relazioni mafiose. Questo noi non possiamo più permetterlo, quindi è evidente che è un’impresa che ha costi maggiori.

    Vanno fatte delle valutazioni, vanno presentati dei piani da parte degli amministratori giudiziari insieme all’agenzia, e poi si deve verificare la possibilità di dare continuità.

    Per questo il disegno di legge ha anche bisogno di finanziamenti. Già sono previsti nella riforma, ma contiamo soprattutto sull’impegno del governo con la legge di stabilità.

    A quanto ammontano i finanziamenti?

    Per il momento sono 10mila euro, che sono pochissimi, ma è un segnale. Vanno istituiti i fondi per le aziende, noi auspichiamo che sia istituito anche un fondo per gli immobili, perché anche loro hanno bisogno di investimenti per essere riutilizzato. Spesso i mafiosi portano via anche i componenti del bagno, in segno di disprezzo. Quando si assegna a un ente locale un bene confiscato, spesso si tratta in realtà di un onere finanziario, un peso, perché magari l’ente locale non ha i soldi per ristrutturarlo.

    Questo patrimonio può diventare un volano di sviluppo per il nostro paese, oltre che di giustizia. Però bisogna anche investirci. Poi diventeranno beni fruttuosi, ma è necessario che l’agenzia abbia queste capacità di trovare investitori, creare relazioni.

    L’altro disegno di legge, in esame stavolta al Senato, è quello sui testimoni di giustizia. Lo scorso 26 luglio si sono commemorati i 25 anni dalla morte di Rita Atria. Dopo tutto questo tempo forse è il momento di ammettere che lo Stato non ha compiuto a pieno il suo compito, che Rita è stata lasciata da sola e che quello che è successo poteva essere evitato?

    Rita è il testimone di giustizia che interroga più di tutte le nostre coscienze. Tutti le interrogano, ma Rita più di altri. La sua morte è un segnale di sconfitta delle istituzioni. Molta strada è stata fatta da quella triste vicenda, ma noi abbiamo fatto una riforma perché avevamo ben presenti tre aspetti.

    Il primo è la distinzione tra collaboratori di giustizia e testimoni di giustizia. Nella legge precedente le due figure erano confuse. Il collaboratore di giustizia è una persona che ha fatto parte dell’ambiente mafioso o terroristico. Quando decide di collaborare con lo Stato dà vita ad uno scambio. Il testimone di giustizia invece è una persona che è vittima del contesto mafioso, non si è macchiata di complicità delle mafie. Queste due figure andavano assolutamente distinte. Basti pensare che per i collaboratori siamo sull’ordine di migliaia di persone, mentre i testimoni di giustizia qualche centinaio. Se non si distinguono le due figure si rende più debole la figura del testimone, che invece merita maggiore protezione da parte dello Stato.

    Il secondo aspetto – e Rita è stata da questo punto di vista un’ispirazione con la sua storia – è che ciascun testimone di giustizia è un caso a parte. È una persona con una sua storia, in comune con gli altri testimoni di giustizia ha solo il fatto di aver assistito a un reato di mafia e di voler collaborare con la giustizia. Quindi non possiamo avere misure standardizzate nei loro confronti. Ciascuno di loro deve avere un trattamento costruito sull’originalità della sua persona, della sua storia. Rita nella sua fragilità ci inchioda a questo. Ma ciascuno di loro è così.

    L’altro aspetto è che tutti i programmi di protezione si sono basati sull’allontanamento del testimone di giustizia dal suo territorio. Uno sradicamento dal loro territorio. Il disegno di legge invece punta a proteggere prioritariamente il testimone di giustizia nel suo territorio. Chi deve lasciare i territori sono i mafiosi, non i testimoni.

    Infine c’è un altro aspetto che abbiamo appena introdotto. Riguarda le donne che per proteggere i loro figli stanno progressivamente prendendo le distanze dalle famiglie mafiose. Noi dobbiamo creare delle forme che possano accogliere chi vuole rompere con l’ambiente mafioso. Anche prima che questa rottura avvenga. Forme che mostrino il volto accogliente delle istituzioni, in modo da rendere possibile per queste persone abbandonare la sponda mafiosa in cambio della sponda della legge, perché questa gli spalanca le braccia.

    In che senso è stato appena introdotto?

    Nel senso che abbiamo appena accennato nel nostro disegno di legge a questa esigenza, ancora non è definito in maniera compiuta. Potrà avere degli sviluppi, come già li ha in via giurisprudenziale. Parlo ad esempio dell’affidamento di molti figli di mafiosi a delle strutture da parte del tribunale dei minori di Reggio Calabria. Se dovessi citare un altro simbolo parlerei di Lea Garofalo. Lei non fu accolta neanche dopo che aveva rotto. Ma ci sono tante Lea Garofalo “in incubazione”. Dovremmo riuscire a portarle fuori dall’incubatrice.

    Per quanto riguarda invece l’inchiesta della commissione sui rapporti tra mafia e massoneria in Calabria e Sicilia, dopo il sequestro delle liste degli iscritti al Grande Oriente d’Italia e alle altre obbedienze, sia il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri sia il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti hanno detto che a essere interessate sono le logge deviate. È d’accordo?

    Non abbiamo ancora dati definitivi, ma noi già adesso siamo in grado di dire che persone condannate per il 416-bis, o che hanno in corso procedimenti per reati di mafia o reati con aggravante mafiosa, sono iscritte a logge regolari. E in una quantità significativa nelle regioni in cui abbiamo sequestrato i dati, cioè Sicilia e Calabria.

    Si tratta prevalentemente del Grande Oriente, e in alcuni casi anche delle altre obbedienze. Noi non faremo mai i nomi, perché riteniamo che se uno vuol tenere riservata l’adesione alla massoneria la legge lo consente, e come tale non saremo noi a renderli noti. Ma i dati giudiziari sui quali abbiamo lavorato sono dati ostensibili, quindi dal punto di vista numerico potremo renderli noti.

    Come spiega allora le osservazioni di Gratteri e Roberti?

    È un dato di fatto che i mafiosi diventino massoni prevalentemente attraverso cosidette logge irregolari, questo lo sappiamo per precedenti processi. Ma noi siamo in grado di dimostrare che sono presenti anche tra gli iscritti a obbedienze regolari.

    Il gran maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi ha detto che se la commissione farà i nomi provvederà a prendere le misure adeguate.

    Noi segnaleremo loro i nomi, ma dovrebbero già averli. Strano che non si siano accorti di avere iscritti già condannati per il 416-bis. È singolare questo dato da parte di chi dichiara nei propri regolamenti che la finalità delle obbedienze è di rispettare la legge e di applicare un’etica pubblica. Dovrebbero essere i primi a verificare. Questi non sono dati segreti, sono condanne definitive, e queste persone hanno continuato ad essere iscritte alle logge.

    Dovrebbero interrogarsi, perché per avere all’interno persone già condannate, vuol dire che l’ambiente nel quale vivono non è in grado di espellerle. E quindi è colluso l’ambiente, non solo i singoli.

    A giugno 2017, poco prima del voto amministrativo, il comune di Castelvetrano, paese del capomafia Matteo Messina Denaro, è stato sciolto per mafia. Alla luce delle motivazioni la scelta secondo lei è stata giusta?

    Penso che lo scioglimento di Castelvetrano sia stato corretto e opportuno. La nostra commissione ha fatto la sua parte in questo. Il grande latitante d’Italia è il simbolo della mafia e della massoneria che collaborano. Matteo Messina Denaro è un mafioso e un massone, questo è un dato di fatto riconosciuto da tutti.

    In una relazione alla commissione parlamentare antimafia lei citò un’intercettazione dell’inchiesta Golem II in cui veniva nominato l’ex sindaco di Castelvetrano Gianni Pompeo, e che parlerebbe di “presunti legami tra Pompeo e ambienti mafiosi”. Tuttavia sia il Pd locale, sia lo stesso Pompeo, hanno sottolineato che il nome di Pompeo in quelle carte compariva solo come destinatario di una minaccia (“è un morto che cammina”). Inoltre Pompeo non è stato né indagato né tantomeno condannato in quel processo. Si è trattato di un errore o lei ha elementi che non conosciamo?

    Vede, noi non siamo una sede giudiziaria. Non abbiamo bisogno di condanne. Il nostro lavoro dovrebbe permettere di bonificare la vita pubblica prima di arrivare a condanne di politici o esponenti della vita pubblica. A noi bastano gli indizi, non abbiamo bisogno di prove.

    Anche lo scioglimento dei comuni non ha bisogno di condanne penali, perché è una misura di prevenzione. Anche noi agiamo su quel terreno. Magari in sede giudiziaria certi elementi possono non essere ritenuti prove, ma ciò non significa che non ci troviamo in un contesto quantomeno grigio, se non grigio antracite nel caso di Castelvetrano.

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