Per Viktor Orban era semplicemente Finkie. Stratega geniale, con decenni di esperienza alle spalle. E tanti amici in comune. L’ambiente repubblicano più estremista, prima di tutto, quella destra dura e pura neoliberista, cresciuta con il mito del cowboy Ronald Reagan. E poi l’inossidabile Benjamin Netanyahu, protagonista del partito Likud, la parte più reazionaria della politica di Tel Aviv, che tanto piace ai nazionalisti Usa ed europei.
Finkie, ovvero Arthur J. Finkelstein, lo specialista in elezioni, sondaggi e messaggi politici che prendono le viscere dell’elettore, morto nel 2017 dopo una brillante carriera di spin doctor. Fin dall’epoca di Nixon aveva capito che il trucco per vincere le elezioni era, alla fine, uno solo: la paura. Demonizzare l’avversario e, soprattutto, polarizzare l’elettorato. Radicalizzare lo scontro su temi sensibili e divisivi. Un vero mago nello spargere veleno.
Finkie sbarca in Ungheria nel 2008 con il curriculum di stratega per i repubblicani più estremisti Barry Goldwater, Richard Nixon e Ronald Reagan. Quel «Rendiamo di nuovo grande l’America», il Make America Great Again, in sigla “Maga”, ovvero l’acronimo della fazione trumpiana, era nato con lui già nel 1980, proprio durante la campagna del cowboy hollywoodiano diventato presidente degli Stati Uniti e simbolo della destra mondiale.
Negli anni Novanta, insieme al suo allievo George Birnbaum, aveva creato l’ascesa di un allora semi sconosciuto dirigente di azienda israeliano, Benjamin Netanyahu, portandolo a vincere contro Shimon Peres. Nel 2003 Finkelstein e Birnbaum – come si legge nel sito web archiviato nel 2010 della loro società di consulenza – puntano sull’Europa orientale: Romania, Bulgaria, Kossovo e Serbia.
Nel 2008 arrivano a Budapest, dove iniziano a lavorare per Viktor Orban. Le elezioni del 2010 sono un vero trionfo per l’autocrate di Budapest, ma la battaglia per la conquista piena del potere non era finita. Finkie sapeva perfettamente cosa mancava, un nemico. Anzi, il nemico. Chi meglio di George Soros?
L’ultima risata
Come ha ricostruito minuziosamente un’inchiesta di Buzzfeed, Finkelstein e Birnbaum dal 2003 hanno iniziato a contribuire al successo elettorale della destra nell’Europa orientale, affrontando sul campo un “avversario” presente dagli anni Novanta nell’ex blocco sovietico: la democrazia liberale promossa dalla Open Society di Soros.
A Budapest il finanziere aveva realizzato la migliore università del Paese, la stessa dove peraltro aveva studiato Orban. Soros era nel frattempo divenuto il nemico numero uno di Vladimir Putin, che temeva l’ondata delle rivoluzioni arancioni, autentico spauracchio per il sistema illiberale della Russia contemporanea.
L’esordio della campagna contro Soros – il nemico costruito abilmente dai consulenti Usa – avviene nel 2013, su un tema ben preciso, le organizzazioni non governative. Molte Ong in Ungheria erano finanziate dalla Open Society e per Orban rappresentavano il vero avversario da abbattere, dopo il crollo elettorale dell’opposizione socialista.
Incarnavano la visione democratica e liberale della politica, la tutela dei diritti umani, della libertà di stampa, la difesa dei diritti civili, delle famiglie non tradizionali, della sessualità liberata. E, non ultimo, la tutela dei migranti.
Come trasformare tutto questo nel male assoluto? Mettendo davanti all’opinione pubblica il volto e la storia di George Soros. Un finanziere che nel 1992 guadagnò un miliardo di dollari speculando sulla crisi valutaria, attaccato per anni dalla sinistra, odiato dalla destra. Ebreo ungherese, in grado, dunque, di stimolare anche il mai archiviato antisemitismo dei Paesi dell’Europa orientale. Perfetto come nemico.
L’escalation della campagna anti-democrazia liberale in Ungheria sarà devastante. La Central European University della Open Society – fondata da Soros nel 1991 – nel 2018 è costretta ad annunciare il trasferimento delle principali attività a Vienna, mentre il governo Orban elabora una durissima legislazione contro le Ong, arrivando ad organizzare un referendum con lo slogan «Stop Soros».
Budapest era ricoperta dai manifesti con il volto del fondatore dell’Open Society e la frase «Non lasciare che George Soros faccia l’ultima risata!». L’accelerazione era iniziata nel 2015, con la crisi migratoria lungo la rotta balcanica. I confini ungheresi vengono coperti dal filo spinato, mentre la retorica contro la società civile pronta ad aiutare chi fugge dalla guerra in Siria diventa sempre più aggressiva.
Nel referendum del 2017 il governo Orban, nella sua propaganda, affermava che era necessario fermare «piano Soros» per evitare che «milioni di africani invadessero l’Europa». La tattica della paura dei consulenti arrivati dagli Usa funzionava.
Dichiarazione di guerra
Il 20 ottobre 2012 a Poiters, in Francia, un gruppo giovanile fino ad allora sconosciuto sale sul tetto di una moschea in costruzione, occupando il cantiere. Il luogo e la data sono simbolici: il 10 ottobre del 732, Carlo Martello aveva fermato nella città della Nuova Aquitania l’avanzata delle truppe del califfato Omayyad. Un simbolo, dunque. «Oggi la scelta è la stessa di allora», scrivono sul comunicato stampa diffuso dopo l’azione, richiamando la battaglia di Carlo Martello. «Vivere liberi o morire».
Poi aggiungono: «Non vogliamo più immigrazione extra-europea, né la costruzione di moschee sul suolo francese». Il gruppo si chiama Generation Identitaire, costola giovanile del Bloc Identitaire, nato nel 2002. «Voi siete SOS Razzismo, la “diversità”, il ricongiungimento famigliare, la libertà sessuale e i sacchi di riso di Bernard Kouchner (fondatore di Medici senza frontiere, ndr). Noi siamo il 25% di disoccupazione, il debito sociale, l’esplosione della società multiculturale, il razzismo anti-bianco, le famiglie disgregate, ed un giovane soldato francese che muore in Afghanistan», recitava il manifesto video dell’organizzazione diffuso nei giorni dell’azione a Poitiers.
La conclusione era tagliente: «Non vi sbagliate: questo testo non è un semplice manifesto, è una dichiarazione di guerra». Di nuovo i diritti – come la diversità, l’accoglienza, la libertà sessuale – diventano il nemico, questa volta nel cuore dell’Europa occidentale. Il riferimento a Kouchner, tra i fondatori dell’organizzazione umanitaria francese più nota, non era assolutamente casuale.
Cinque anni dopo, nel 2017, la sigla diviene nota in tutta Europa grazie ad un’azione lanciata nel Mediterraneo centrale: una nave inviata a bloccare i salvataggi dei naufraghi da parte delle organizzazioni umanitarie. Nel mirino finiscono le Ong impegnate nella flotta della società civile, che aveva iniziato a salvare chi fuggiva dalla Libia naufragando davanti alle nostre coste, dopo la chiusura, da parte del Governo Renzi, dell’operazione Mare Nostrum. Era appena un pezzo di una strategia molto più ampia.
Il nome di Soros appare in una ventina di tweet di Giorgia Meloni, dal 2018 in poi, associato direttamente con il «pericolo invasione» e le teorie del complotto: è il «finanziere che sostiene e finanzia in tutto il mondo l’immigrazione di massa e il disegno di sostituzione etnica», «impone col denaro l’immigrazione di massa e la distruzione degli Stati nazionali per fare dell’Europa il suo parco giochi», «fa gli interessi della grande speculazione, per questo usa anche le vite umane di chi muore in mare», sono alcune delle frasi pubblicate negli ultimi quattro anni dall’attuale presidente del Consiglio.
Tanto livore ha ancora una volta un obiettivo ben chiaro: fermare le organizzazioni non governative usando la retorica contro il fondatore di Open Society. Fratelli d’Italia, la Lega e, per un breve periodo, il Movimento 5 Stelle, tra il 2016 e il 2018 hanno inondato social, giornali e pubblicazioni di think tank con questa retorica, facendo da contraltare istituzionale alla guerra navale (un’operazione tra il cialtronesco e lo sgangherato richiamo all’azione di Fiume di D’Annunzio) di Generazione Identitaria. Due piani che si sono incrociati più e più volte, per alla fine incontrarsi.
Oggi il leader della sezione italiana dell’organizzazione identitaria francese – che nel frattempo è stata sciolta dal ministro dell’Interno di Parigi per istigazione al razzismo e per aver organizzato milizie private – Lorenzo Fiato, salito anche lui a bordo della nave anti Ong, milita nella Lega di Matteo Salvini, apparendo in tantissime foto di iniziative dei giovani padani.
Uno dei leader francesi, Damien Rieu, è oggi vicino all’area guidata da Éric Zemmmour, il candidato dell’estrema destra alla presidenza della Repubblica lo scorso anno. I fascisti di mare hanno messo la giacca e la cravatta, ma la retorica è sempre la stessa.
L’inchiesta di Trapani
È il 2015, l’anno della chiusura della missione navale Mare Nostrum, partita dopo il naufragio di Lampedusa schierando nel Mediterraneo centrale le unità navali italiane per salvare le migliaia di naufraghi partiti su barchini precari dalle coste libiche.
A Berlino un gruppo di ragazzi ventenni guarda le immagini delle tragedie in mare. Nessuno interviene più a sud di Lampedusa, le acque tra la Libia e l’Italia tornano a diventare un immenso cimitero. «Se non interviene l’Europa lo facciamo noi», ragionano i ragazzi tedeschi. Creano una Ong, Jugend Rettet, “la gioventù che salva”. Raccolgono i soldi e dopo pochi mesi, nel 2016, partono con una nave, la Iuventa.
Non sono i soli. Medici Senza Frontiere (nemico giurato degli identitari francesi), il Moas (Migrant Offshore Aid Station), il colosso Save the Children: la flotta umanitaria si va componendo. In quegli stessi mesi al Viminale alcuni funzionari preparano una nota: «Le Ong sono diventate una piattaforma in attesa dei gommoni provenienti dalla Libia (…) Tale modalità di pattugliamento potrebbe costituire un indice rivelatore di un preventivo accordo tra le organizzazioni criminali e l’equipaggio delle imbarcazioni». Dietro lo slancio dei ventenni tedeschi c’è ben altro, scrivono.
Ottobre 2016, Trapani. Due ex poliziotti si presentano alla Squadra mobile. Fanno parte di una società di security, la Imi, che opera a bordo della nave di Save the Children. Si sono presentati per denunciare una banale lite a bordo, ma approfittano per dire altro. Indicano una nave “sospetta”, la Iuventa, raccontano di un prete eritreo troppo amico di quei naufraghi partiti dalla Libia.
Pochi giorni prima avevano messo nero su bianco in alcune e-mail quella che per loro era una trama oscura. I destinatari diverranno noti mesi dopo: l’Aise (ossia l’Agenzia dei Servizi segreti), Alessandro Di Battista (che non ha mai risposto a quella comunicazione) e Matteo Salvini (che invece riceverà a braccia aperte una ex poliziotta assoldata dalla Imi, pronta a fornire video e documenti contro le Ong per la campagna elettorale della Lega).
La Procura di Trapani decide di dare corda a quella denuncia: apre un fascicolo, manda un agente undercover a bordo della nave di Save the Children. Alla fine, dopo quattro anni di indagini e migliaia di ore di intercettazioni, la “gioventù che salva” finisce indagata. I ragazzi di Berlino rischiano pene pesantissime.
L’udienza preliminare oggi stenta a decollare, tra errori procedurali, mancate traduzioni degli atti ed un senso generale di inconsistenza delle accuse. Le azioni di salvataggio che finiranno nelle informative di polizia come prove di una presunta connivenza con i trafficanti libici sono nel frattempo state smontate pezzo dopo pezzo dall’inchiesta del gruppo Forensic Architecture dell’Università di Londra. Al di là dell’esito giudiziario che avrà il processo, le accuse nate da un gruppo di agenti privati sono diventate ulteriore benzina sul fuoco dell’attacco alle Ong e alla difesa dei diritti dei migranti.
La Iuventa, è bene ricordare, era anche uno dei principali obiettivi della missione navale di Generazione Identitaria, definita dal ministero dell’Interno francese come una delle «diverse azioni intraprese che dimostrano la volontà di agire come milizia privata», tentando di impedire «i salvataggi delle imbarcazioni dei migranti». Accuse riprese da un esposto presentato nei mesi scorsi alla magistratura francese contro l’equipaggio della nave dell’estrema destra, con l’accusa di associazione criminale e tentato sequestro di persona.
Destra di lotta al governo
Dal 2016 diversi piani si sono incrociati. Chi salva le vite dei migranti viene indicato come una sorta di traditore, finanziato da oscuri poteri finanziari, strumento di chi vorrebbe una «sostituzione etnica», l’eterno complotto sempre presente nella cosmogonia post fascista. La retorica anti-Ong della destra – divenuta, dopo anni di “lotta”, di governo – che ha preso ispirazione dalla campagna di Orban anti-Soros come simbolo della difesa dei diritti, in fondo nasconde altro.
La necessità del nemico, insegnano Finkelstein e Birnbaum, è la chiave del successo elettorale per il modello illiberale. Non solo per conquistare il potere, ma soprattutto per mantenerlo, come insegna l’Ungheria, dove la guerra contro le organizzazioni non governative e la difesa dei diritti ha raggiunto il culmine con il referendum del 2017, anni dopo la prima elezione di Orban. Una strategia che va di pari passo con la costruzione della paura. Chi meglio del migrante?
Da anni influencer della destra radicale – come la militante di Casapound Francesca Totolo – amplificano quotidianamente tutti gli episodi di cronaca nera che vedono coinvolti immigrati, con una particolare predilezione per le persone provenienti dall’Africa. Una strategia comunicativa ripresa anche da Matteo Salvini e da tanti esponenti di Fratelli d’Italia. E, alla fine, appare chiaro il vero obiettivo: non tanto – o non solo – bloccare la migrazione.
Chi salva in mare, chi difende i diritti, chi si oppone allo Stato illiberale è il vero nemico. La prova è, ancora una volta, nel Mediterraneo centrale: allontanare le Ong è la vera ossessione del nuovo governo.
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