Quando un anno fa si è insediato il Governo Draghi, i suoi propugnatori e sostenitori lo hanno battezzato come «il governo dei migliori». Non concordavo, e non concordo tuttora, con quella definizione. Questo è un esecutivo costruito per essere sostenuto dalla quasi totalità delle forze parlamentari e, quindi, per non essere espressione di alcuno schieramento in particolare. Un governo di tutti e, in questo, senso, di nessuna maggioranza specifica. Si tratta di un governo che, benché di nessun “colore”, è tuttavia governo politico, non “tecnico” (persino i suoi ministri tecnici – fatta eccezione per il titolare dell’Economia, che in questo anno praticamente non abbiamo mai visto – hanno dimostrato di essere schierati).
Il fatto è che in questo anno c’è stata una forte discrepanza tra il linguaggio usato per presentare l’esecutivo (con toni superlativi) e quello che si è empiricamente visto. È stato lo stesso Capo dello Stato a criticare il Governo per aver reso il Parlamento un organo di ratifica notarile. Nel suo recente discorso di insediamento, il presidente Mattarella ha ricordato che l’assemblea legislativa deve essere messa nelle condizioni di avere il tempo necessario a esaminare le proposte che arrivano dal Consiglio dei ministri. Un principio che, durante questo anno, è stato sistematicamente ignorato.
Un’assemblea di notai
Va detto che questa deformazione notarile della democrazia parlamentare è iniziata ben prima della formazione del Governo Draghi, da quando (a partire dagli anni Novanta) il tema della governabilità è stato coniugato come alternativo a quello della rappresentanza. Ciò è stato facilitato anche dal fatto che i partiti hanno abdicato alla loro funzione di essere organizzatori della rappresentanza e formatori di opinioni. Il vigore del Parlamento dipende molto dal legame con la società, e questo legame dovrebbe essere mediato dai partiti: oggi, però, questi corpi politici intermedi sono evanescenti e inesistenti come associazioni incardinate nella società. Dunque a limitare la centralità del Parlamento non è stato sicuramente per primo il Governo Draghi. Mentre è senza dubbio una responsabilità ascrivibile a questo esecutivo il mancato coinvolgimento del Parlamento nell’elaborazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che è stato presentato all’assemblea poche ore prima del termine di approvazione. Peraltro, proprio dopo il voto sul Pnrr il Governo sembra aver cambiato aspetto. Non tanto per la sua composizione, che è rimasta la stessa, né per il suo scopo primario, che è stato sempre quello di contrastare la pandemia, quanto per l’attitudine rispetto alle questioni politiche altre.
Stato di emergenza
Nel suo discorso di insediamento, un anno fa, il presidente del Consiglio aveva annunciato una serie di riforme a cui poi non si è dato seguito. Dal fisco al catasto, passando per le pensioni, il Governo ha scelto di non scegliere, parcellizzando i problemi (fisco) o rinviandoli (catasto): parliamo di riforme di struttura che un presunto «governo dei migliori» avrebbe dovuto ambire a fare. L’unica riforma approntata, quella della giustizia, non è sgombra da controversie e (secondo gli esperti) neppure ben fatta. Stendiamo un velo pietoso, poi, sul governo caotico della scuola. Questo ha voluto essere un esecutivo dell’emergenza, concentrandosi unicamente sull’approvazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e sull’avanzamento della campagna di vaccinazione anti-Covid. Su queste due emergenze l’obiettivo è stato fin qui centrato. Ma l’ambizioso progetto illustrato all’atto dell’insediamento è restato una teoria. Staremo a vedere, in questo anno che ci separa dalle prossime elezioni politiche, come si passerà alla fase di attuazione del Pnrr (nella mission della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, ad esempio, già intravediamo segnali di insoddisfazione da parte dei cittadini e degli enti locali).
La democrazia dell’audience
Un terreno sul quale questo esecutivo si è distinto nettamente rispetto ai suoi predecessori è stato la comunicazione. La nostra è come sappiamo una “democrazia dell’audience”, dove il discorso politico viene inghiottito dal chiacchiericcio quotidiano dei salotti televisivi: un teatro che rende tutto uguale a se stesso e finisce per gettare fumo sulla comprensione delle tematiche con un pessimo servizio ai cittadini. In questo contesto, ho apprezzato la scelta comunicativa del presidente del Consiglio di intervenire solo nelle occasioni istituzionali e attraverso le conferenze stampa, sottraendosi a quegli spettacoli. Al contrario, mi ha inquietato assistere, durante quelle stesse conferenze stampa, ad esaltazioni e applausi al presidente da parte dei giornalisti. I mezzi di informazione dovrebbero fungere da cani da guardia della democrazia; sembrano invece cagnolini da salotto. Nel nostro Paese (non ben posizionato nelle graduatorie mondiali delle democrazie quanto a pluralismo dell’informazione), purtroppo, i media hanno imparato l’arte del pontificare e dismesso quella dell’analisi, del monitoraggio, del chiedere conto. Ciò è ancora più grave se consideriamo che, nella democrazia dell’audience, il consenso lo fanno i media e non più i partiti, i quali coincidono di fatto con il volto del leader di turno che appare in televisione.
Irresponsabili
In questo anno Draghi è servito ai partiti per coprire le loro manchevolezze, le loro debolezze, la loro incapacità. Molte leadership sono mediocri e vivono unicamente nello spazio dei talk show televisivi, dove autocelebrano la loro rappresentatività. Si tratta di un problema non piccolo per la nostra democrazia. Lo abbiamo visto anche in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica: le forze parlamentari (quelle di centrodestra in primis) non sono state in grado di definire candidature, pretendendo di imporre figure di parte in un Parlamento dove nessuna parte ha una chiara maggioranza. A fronte dell’incapacità e dell’irresponsabilità dei partiti, la figura di questo presidente del Consiglio svetta e diventa una garanzia di stabilità. Per questo non vedo il rischio di una possibile fine anticipata della legislatura: il Governo ha davanti a sé un altro anno, fino alle politiche del 2023. Ma qui si apre un altro tema. Negli ultimi mesi Draghi è stato più volte “posizionato” in un campo o nell’altro: l’area centrista ha espressamente detto che lo vorrebbe in carica ancora dopo le elezioni del prossimo anno. Il tecnocrate, però, ha ricordato ai partiti di non essere di parte e quindi a loro disposizione: con quel «Il lavoro me lo trovo da solo» pronunciato davanti ai giornalisti la scorsa settimana Draghi ha voluto avvisare l’opinione pubblica che lui è esterno ed estraneo al tritacarne partitico e non si presterà a fungere da salvagente. In vista delle elezioni, fa bene invece il segretario del Pd Enrico Letta a parlare di riforma della legge elettorale (in senso proporzionale con sbarramento) e, soprattutto, di riforma dei regolamenti parlamentari.
Larghe intese forever
A causa dello scellerato referendum costituzionale del 2020 il prossimo Parlamento sarà composto da 600 membri: avremo l’assemblea legislativa nazionale più piccola in rapporto alla popolazione dell’Europa occidentale. Questa decurtazione della rappresentanza determinerà che alla Camera e al Senato molti degli attuali gruppi parlamentari non ci saranno. Tra i rischi possibili vi è quello di un Parlamento poco differenziato con l’eventualità di avere permanentemente governi di larghe intese. Anche per contenere questo rischio è necessaria una riforma dei regolamenti che intervenga, ad esempio, sulla disciplina del Gruppo misto, che oggi è persino più numeroso di diversi partiti. La libertà dei nostri rappresentanti va regolata per impedire loro di essere un’oligarchia eletta fuori da ogni vincolo. Una legge è necessaria, proprio perché i partiti non sono più capaci di essere garanti del mandato politico e disciplinare i rappresentanti. Ma anche per riformare i regolamenti parlamentari occorre che vi sia senso di responsabilità da parte dei, e nei, partiti. I quali farebbero bene a smettere di nascondersi dietro la foglia di fico di Draghi e tornare a svolgere la loro funzione di classe dirigente politica. Solo così il Parlamento potrà riacquistare la sua centralità. Ma fin qui, più che «il governo dei migliori», abbiamo visto «il governo dei peggiori partiti».
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