Verso la fine del 2006 il New York Times pubblicò un colloquio fra l’intellettuale repubblicano Ben Stein e il miliardario Warren Buffett. Seduto nel suo mitologico ufficio a Omaha, nel Nebraska, Buffett, all’epoca 76enne, si lasciò andare a una riflessione: «È vero», disse. «È in atto una guerra di classe. Ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra. E la stiamo vincendo». In molti reagirono con un sorrisetto. Ma quella del magnate – tuttora la quinta persona più ricca del mondo, con un patrimonio stimato da Forbes in 118 miliardi di dollari – non era affatto una provocazione: la sua era semmai una lucida analisi di quel che stava accadendo sotto gli occhi di tutti senza che nessuno (o quasi) se ne fosse accorto.
Anche in Italia le classi meno abbienti erano sotto battuta ormai già da qualche anno: nel 1997 il governo di centrosinistra, con il Pacchetto Treu, aveva dato inizio al grande ballo della precarietà, poi seguito a ritmo dal centrodestra. Tuttavia è stato in particolare nei successivi quindici anni che la guerra ai poveri ha prodotto i suoi maggiori effetti a colpi di tagli alla spesa sociale, liberalizzazioni selvagge e sfruttamento del lavoro. Da Monti a Draghi, passando anche per i governi di Letta, Renzi e Gentiloni, sono stati, quelli, gli anni in cui la politica ha ceduto lo scettro alla tecnica economica: quella monopensiero del “bisogna fare così, non c’è alternativa”, quella del Patto di Stabilità, del Jobs Act, della Riforma Fornero.
Nel 2007, all’alba della crisi finanziaria, l’Istat contava poco meno di 1,8 milioni di cittadini in povertà assoluta, pari al 3,1% della popolazione italiana. Oggi, dopo quindici anni e svariati governi «senza colore politico», i cittadini in povertà assoluta risultano triplicati: sono 5,6 milioni, pari al 9,4% della popolazione. Significa che quasi un italiano su dieci fatica a permettersi persino i beni essenziali. E teniamo conto che, sempre secondo l’Istat, il Reddito di cittadinanza – introdotto solo nel 2019 – ha salvato dalla povertà circa un milione di persone.
«Tutto sommato il problema è molto semplice», fa notare l’economista Andrea Roventini, professore alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. «Da decenni l’Italia ha smesso di crescere. E se il Pil non cresce, la povertà aumenta». Ma determinante – osserva il docente – è stata anche la «austerità, che ha contenuto la spesa per sanità e istruzione: la ricerca economica ci dice infatti che le politiche pre-distributive sono molto importanti per ridurre le disuguaglianze». In più, «sono state introdotte liberalizzazioni del mercato del lavoro che hanno contenuto la crescita dei salari e reso sempre più difficile avere un’occupazione stabile».
I numeri parlano chiaro: oggi quasi un quinto degli occupati in Italia è precario; siamo l’unico Paese dell’area Ocse dove negli ultimi trent’anni i salari reali sono diminuiti (del 2,9%) e figuriamo al quarto posto in Europa per percentuale di working poor (lavoratori poveri). «I governi che si sono succeduti in questi anni sono stati tutti più o meno caratterizzati da politiche neoliberiste, qualche volta stemperate da correttivi in stile terza via blairiana», sottolinea Roventini, co-autore di una ricerca che ha scoperto come il sistema fiscale italiano sia, alla prova dei fatti, regressivo anziché progressivo: il 5% dei contribuenti più ricchi paga un’aliquota inferiore a quella dell’altro 95%. Insomma, parafrasando Indro Montanelli, si potrebbe dire che i neoliberisti amano i poveri a tal punto che quando vanno al governo li aumentano di numero (Montanelli lo diceva sarcastico a proposito della sinistra).
«Questo è il risultato di un lungo processo di demolizione dello Stato sociale», commenta Nadia Urbinati, politologa che insegna alla Columbia University di New York. «Fino agli anni Settanta non c’erano i “poveri” ma solo “disoccupati” verso i quali si facevano politiche di impiego. Oggi la democrazia accetta l’idea che ci sia un parte di cittadini in povertà: questo è un mutamento paradigmatico enorme. In favore di cittadini poveri non si interviene con politiche programmatiche, ma con degli aiuti finanziari, dei bonus: un meccanismo monetario che deresponsabilizza lo Stato rispetto alle condizioni di povertà che non sono rimosse». «Si è affermata – prosegue Urbinati – una concezione per cui il merito e la responsabilità sono del singolo cittadino: un’idea secondo la quale “se studio e mi impegno ci riuscirò, altrimenti sarò punito”.
Ma questo è un vero e proprio inganno, perché sappiamo bene che, se si vive nella regione sbagliata o nella famiglia sbagliata ci si può anche impegnare al massimo ma è molto difficile avere successo o anche non affondare». A tutto questo, conclude la politologa, va aggiunto che in Italia «le politiche sociali attive sono state da tempo abbandonate in favore di piani di esternalizzazione verso soggetti terzi, privati». Il welfare, in altre parole, è delegato.
Costretta a fare i conti con una situazione d’emergenza quasi strutturale, più volte in questi trent’anni l’Italia si è affidata al cosiddetto “uomo della provvidenza” (Berlusconi, Monti, Renzi, Draghi). «Ma la democrazia – osserva Urbinati – è la controprova che questa figura non esiste. Kelsen diceva che la democrazia è un sistema che produce molti leader che competono: non c’è alcuna “provvidenza” anche perché nessuna decisione è mai l’ultima. Gli “uomini della provvidenza” sono falsamente provvidenziali e, sono spesso iatture, utili a pochi; non fanno il bene del Paese, ma quello di alcuni o alla fine di se stessi».
E peraltro, se veniamo da venticinque anni di Pil stagnante e oggi ci ritroviamo con quasi 2 milioni di famiglie in povertà assoluta – sostiene la sociologa Chiara Saraceno, che l’anno scorso ha presieduto la commissione di valutazione sul Reddito di cittadinanza voluta dal ministro del Lavoro Orlando – la colpa è di «tutta la classe dirigente: non solo quella politica». «Ci metto dentro anche quei tanti imprenditori che hanno puntato su bassi salari anziché sull’innovazione: così hanno finito per trovarsi poco attrezzati alla competizione sui mercati». «Di fronte alla crisi finanziaria del 2011 e a quella pandemica del 2020, l’Italia si è fatta trovare più impreparata rispetto ad altri Paesi: fino a tre anni fa, ad esempio, nel nostro Paese non esisteva nemmeno un reddito minimo di garanzia. E il fatto che nel 2021, un anno di ripresa economica, la povertà sia rimasta stabile ci fa capire la gravità della nostra situazione. E adesso – avverte la professoressa – sta arrivando la terza grande crisi: l’inflazione avrà un impatto fortissimo sulle famiglie a reddito modesto, perché investe aspetti essenziali della vita quotidiana, come la capacità di nutrirsi e riscaldarsi. Se le due precedenti crisi hanno colpito principalmente sul piano del lavoro, questa colpirà anche in termini di costo della vita. Non c’è dubbio purtroppo sul fatto che ci sarà un nuovo forte aumento della povertà».
A gestirlo sarà il neonato Governo Meloni. «Questa – puntualizza Urbinati – è una destra reazionaria dal punto di vista dei diritti, che si oppone ai valori liberal come inclusione, tolleranza, pluralità delle scelte di vita. Ma dal punto di vista economico sono liberali, e non cambierà niente rispetto al Governo Draghi: basta vedere chi hanno messo alla guida del ministero del Tesoro (Giancarlo Giorgetti, tra i leghisti più fedeli a Supermario, ndr).
Vedremo una politica economica che segue quella precedente, concepita del resto come adesione a qualcosa di dato, di non discutibile; quella economica è più una scienza naturale che umana». A dispetto dei proclami anti-establishment, insomma, anche questo sarà un governo della tecnica. Meno Stato, più libera impresa. Meno welfare, più incentivi. Non a caso, tra i suoi primi obiettivi c’è quello di smantellare il Reddito di cittadinanza. Togliere ai poveri per dare ai ricchi. La guerra di classe continua.
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