Il funerale di Enrico Berlinguer segnò la fine di un’epoca. Un milione e mezzo di cittadini, operai, classe dirigente e gente comune affollò le vie di Roma per salutare il leader che ebbe nella piazza e nel suo essere popolare la cifra di massimo rappresentante dei comunisti italiani. Trentanove anni dopo, si chiude un’altra fase storica, all’opposto. Invece, a dare il commiato a Giorgio Napolitano, il più iconico dei comunisti rimasti, non c’era folla, se non poche decine di curiosi in piazza di Monte Citorio. In compenso, però, il “Palazzo” in grisaglia era – singolarmente – al gran completo. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. I presidenti delle Camere. Il capo del Governo, Giorgia Meloni, con tutti i ministri. Il vertice della Corte costituzionale, deputati e senatori, uomini del deep state come Gianni Letta e principi della Chiesa come il cardinale Gianfranco Ravasi, accorsi al funerale (laico e senza salma) del primo comunista ad avere abitato al Quirinale, del primo uomo politico eletto per due volte alla presidenza della Repubblica, del più anziano tra capi dello Stato, del primo uomo di sinistra che fece il ministro degli Interni e che fu ammesso negli Stati Uniti, di un protagonista molto discusso del Novecento, amico di Kissinger, ma nemico di Solženicyn.
Si devono leggere diacronicamente questi due riti collettivi: i funerali del comunista che doveva essere segretario del Pci e non lo fu, e quello dello statista che non fu mai uomo di governo né delle istituzioni. Una storia di contraddizioni, perché Giorgio Napolitano fu il leader aristocratico di un partito popolare.
Rigore proletario
La sua stessa immagine fisica, austera e blasonata, la cura maniacale dell’abbigliamento, l’amore per la forma come sostanza, incutevano un rispetto naturale anche per chi lavorava a stretto contatto con lui: «Era esigente, molto esigente», rivela a TPI una sua stretta collaboratrice che ha ereditato la riservatezza proverbiale di Napolitano e che, dunque, non vuole essere citata. «Amava la precisione, e chiedeva sempre una grande attenzione. Voleva che le segretarie che fossero sempre ordinate ed eleganti, che parlassero a voce bassa, che fossero adeguate al via vai di ambasciatori e personalità che avevamo sempre in ufficio. Ma sempre con grande rispetto. Sapeva di avere un ruolo importante e attendeva che gli venisse riconosciuto». Un uomo difficile, di sicuro. Dal 1979 il compagno che lo accompagnava nelle missioni in giro per l’Italia è stato Roberto Bertuzzi, che poi fu parte essenziale della scorta di Berlinguer. «Aveva l’aria di un principino, ma aveva anche aspetti “proletari”. Una volta a Caserta andammo a visitare un caseificio e i compagni ci regalarono una treccia. Al ritorno Napolitano mi fece fermare per strada, comprammo un pezzo di pane e mangiammo quella mozzarella squisita appoggiati sul cofano». Un uomo dal carattere temibile e dalla precisione proverbiale. I suoi bigliettini con istruzioni alla segreteria o ai compagni scritti con grafia oblunga e tendente a salire verso la fine della riga incutevano un certo timore: «Ogni particolare era curato – continua una delle sue segretarie – e nulla era lasciato al caso. Per fare un esempio quando, da ministro ombra degli Esteri, doveva partecipare al Congresso del Psoe in Spagna, faceva tradurre le tesi e arrivava perfettamente preparato alla kermesse. E pretendeva il riserbo più assoluto: quando si preparava la caduta del Muro di Berlino, già da qualche mese prima di quell’ottobre 1990, Napolitano ci impose che la corrispondenza su questo argomento con Willy Brandt, ad esempio, fosse battuta con le vecchie macchine da scrivere e a casa, perché il computer poteva essere intercettato e in ufficio poteva cadere un occhio sulle carte».
Il king maker di Giorgio Napolitano è stato, per sua stessa ammissione, l’allora segretario dei Ds, Piero Fassino: «Noi avanzammo come centrosinistra la candidatura di Massimo D’Alema, che incontrò però degli ostacoli perché troppo esposto nella battaglia politica quotidiana. Valutammo l’idea di avanzare l’opzione Napolitano. Negoziai con Casini e con Fini, che la considerarono accettabile e dignitosa. Poi ne parlai con il Cavaliere: “Non è il mio candidato ma capisco benissimo il valore di questa proposta”, mi disse. Io ho lavorato fianco a fianco di Napolitano per molti anni e ho avuto la fortuna di conoscerlo da vicino. Mi colpisce la lucidità del suo pensiero, la profondità delle sue analisi, e naturalmente la severità dei suoi comportamenti. Napolitano era severo prima di tutto con sé stesso e chiedeva a chi lavorasse con lui di avere lo stesso rigore, la stessa puntualità, la stessa precisione. Era, da questo punto di vista, una grande scuola, è stato un educatore, un pedagogo per me importantissimo».
Borsalino imperturbabile
Severo si, ma a due velocità. Pare che appena arrivato nella sua città, luogo del cuore che Re Giorgio molto amava e frequentava, virasse, proprio come una cartina al tornasole. È sempre Roberto Bertuzzi a regalare un aneddoto del Napolitano segreto: «A Napoli, in auto, attendevamo al semaforo rosso. Napolitano mi disse di passare. Gli indicai il semaforo. “È solo un consiglio!”, mi rispose. E un’altra volta, mi disse di percorrere il Lungomare contromano. Protestai, ma mi disse che lo facevano tutti e mi obbligò a passare». Era anche capriccioso, come quando una domenica fu ospite a pranzo del vecchio sindaco di Napoli, Maurizio Valenzi (che era sposato con Litza Cittanova, naturalizzata francese) e si lamentò della cucina d’Oltralpe, scarsa e poco condita. Troppo raffinata, anche per lui che non usciva mai senza bretelle e borsalino e che voleva tornare sempre a casa per pranzo, per stare con Giulio e Giovanni e consumare «un etto di prosciutto» che si faceva comprare dal pizzicagnolo di Piazza Campitelli.
Il leader democristiano Pier Ferdinando Casini lo ricorda con affetto: «Da presidente della Camera istituii la Fondazione della Camera e scegliemmo Giorgio Napolitano come presidente della Fondazione. Quando lo chiamai per chiedergli di accettare l’incarico, mi rispose la moglie e mi disse “Mio marito sta guidando per Capalbio, le garantisco che è un pericolo pubblico, se per caso gli passo il telefono andiamo fuori strada. La farò richiamare quando saremo arrivati”. Ci conoscevamo già molto bene, ma da quella telefonata e dagli anni della collaborazione con la Fondazione è nata la mia stima verace per Napolitano, veramente un uomo delle istituzioni. Un timbro molto particolare, molto preciso; era difficile fare un documento politico con lui o anche solo fare un invito per un convegno, perché sembrava di andare all’esame del liceo, nel senso che era un professore esigente. Un grande in tutti i sensi».
Cuore tenero
Eppure, è dai suoi più stretti collaboratori che si capisce la complessità di quel borsalino imperturbabile. È sempre Roberto Bertuzzi, l’uomo che insegnò al figlio Giovanni a guidare e al figlio Giulio a saltare la cavallina a Villa Pamphilj, a ricordare due episodi di grande umanità di quest’uomo, algido nell’aspetto, ma appassionato. Il primo è quando, accorrendo al Bottegone per la camera ardente di Enrico Berlinguer, Napolitano incontrò il suo vecchio autista, passato nella scorta del segretario, lo abbracciò e pianse affranto.
E l’altro aneddoto, meno conosciuto ma forse più paradigmatico, offre un’immagine tenerissima del Presidente che ha attraversato la vita politica del Paese, lo ha unito e diviso al contempo, ed al quale non è stato perdonato di essere troppo a destra dalla sinistra né troppo a sinistra dalla destra: «Giulio, da ragazzetto, era un tifoso avvelenato della Lazio. Se la sua squadra avesse perso, la famiglia sarebbe stata condannata a una domenica sera di lamento e penitenza. Allora, il lunedì mattina, quando accompagnavamo Giulio a scuola, il padre gli leggeva il giornale e gli articoli dedicati alla partita. E, guarda caso, erano sempre pezzi che parlavano benissimo della Lazio, ne vantavano il valore sportivo e ne magnificavano le gesta. Io ascoltavo un po’ stranito. Poi Giulio scendeva dalla macchina e io chiedevo conto di quegli articoli. Napolitano si inventava tutto, ma anche io ci credevo». Un cuore amorevole sotto un borsalino d’acciaio.