Il volto mediatico di Fratelli d’Italia, quello più moderato, ha le sembianze di Guido Crosetto. Il «gigante buono», per tutti, visto la stazza imponente e l’indole mite. Ma dietro le apparizioni televisive, c’è un profilo capace di consolidare legami con l’industria militare, tanto da aver rinunciato al mandato da deputato, nel 2019, per diventare presidente dell’Aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza, meglio nota con la sigla di Aiad. Una branca di Confindustria che mette insieme imprese nazionali, ad alta tecnologia, che lavorano nell’ambito dell’aerospaziale civile e militare, il comparto navale e terrestre militare e dei sistemi elettronici che sono legati a questi ambiti. E, come si legge sul sito ufficiale, l’Aiad «mantiene stretti e costanti rapporti con organi e istituzioni nazionali, internazionali o in ambito Nato al fine di promuovere, rappresentare e garantire gli interessi dell’industria che essa rappresenta».
Sponde molto prestigiose per Crosetto che porta in dote alla leader Giorgia Meloni. Ancora di più in tempi di nuova centralità dell’Alleanza atlantica, quando l’aspirante premier vorrà dare “del tu” a Jens Stoltenberg, attuale numero uno della Nato.
Ma c’è un altro filo rosso che lega la lobby delle armi, al di là dell’industria militare, a Fratelli d’Italia. Un patto inossidabile fatto di industriali e appassionati di pistole, fucili e munizioni, che inizia già dal 2018, a pochi mesi dalle elezioni politiche. Il comitato Direttiva 477, oggi diventata Unarmi (Unione degli armigeri italiani), aveva iniziato la propria sfida per fermare la direttiva europea, la 477 appunto, che chiedeva una regolamentazione sulla circolazione delle armi. Un modo per girare in maniera favorevole quella che poteva essere una riforma restrittiva sul possesso delle armi da fuoco. Una campagna nella campagna elettorale, sull’onda lunga della propaganda della legittima difesa, antico vessillo della Lega di Matteo Salvini. Con un obiettivo ben tracciato: creare consenso nelle forze politiche per garantire che la battaglia sarebbe stata vinta. Così è andata: il primo governo Conte ha addirittura allargato le maglie sulla detenzione di pistole e fucili. E, proprio mentre Salvini veniva accolto come un idolo agli eventi degli appassionati del settore, il partito di Giorgia Meloni tesseva la sua trama. Stringendo un sodalizio, destinato a durare, con la lobby delle armi che vanta un bacino elettorale niente male: a fine 2021, secondo i dati del Viminale, i titolari di licenze per possedere pistole e fucili erano 1 milione e 222 mila. C’è dunque una struttura consolidata, con il punto di riferimento di Unarmi, presieduta da Giulio Magnani, che rappresenta il pezzo italiano del network di Firearms United, con cui il punto di raccordo è Andrea Favaro, altro esponente di spicco della lobby delle armi. Senza tanti giri di parole Firearms United ammette che ha come «prima e più importante missione» quella di «impedire all’Unione europea di attuare nuove normative che rendano più difficile l’accesso dei cittadini dell’Ue alle armi da fuoco».
A fare da garante è Pietro Fiocchi, nome che a primo acchito non dice molto. Eppure si tratta di un eurodeputato di Fratelli d’Italia, che con le armi ci lavora nel vero senso della parola. «Appartengo a una famiglia di imprenditori che da cinque generazioni produce cartucce e soprattutto da cinque generazioni andiamo tutti a caccia», diceva Fiocchi in conferenza stampa, mentre presentava la sua candidatura da indipendente, ben piantato nella lista di Fratelli d’Italia. Una scelta che non ha rivisto dopo essere stato eletto nel collegio Nord Ovest: è nel gruppo dei fedelissimi di Meloni. La trafila professionale è tutta legata al mondo delle armi, da manager a presidente della Fiocchi of America, divisione statunitense dell’azienda specializzata nella produzione di munizioni di piccolo calibro. E Fiocchi non è stato un caso nel rapporto di FdI con il mondo delle armi. Al suo fianco, nell’Europarlamento, c’è Sergio Berlato, altro uomo che con le doppiette si trova a proprio agio. Meloni nel 2016 lo ha nominato coordinatore regionale del partito in Veneto, e in quegli anni il futuro europarlamentare rappresentava gli interessi dei cacciatori. Nel 2019 è diventato presidente della Confederazione delle associazioni venatorie italiane. La sua affinità con la destra post missina non è una novità: dal 2001 al 2006 è stato «consigliere particolare del ministro Gianni Alemanno al ministero delle Politiche agricole e forestali», come emerge dal curriculum consultabile sul sito dell’Europarlamento.
Ma la rete di relazioni lobbistiche, e di sostegno elettorale, arriva anche da altri versanti, molto caldi, e vanta una connessione antica. Basti pensare a quanto avvenuto a inizio luglio a Roma, negli ultimi giorni del governo Draghi, con le proteste dei tassisti contro il ddl Concorrenza, che prevedeva una riforma del settore. Mentre le auto bianche assediavano i Palazzi della politica, gli unici interlocutori ben accetti erano i deputati di Fratelli d’Italia. Non è un caso che Loreno Bittarelli, storico rappresentante degli interessi dei tassisti, sia stato candidato nel 2013 con FdI. Un rapporto impossibile da scalfire. Così le decine di migliaia di tassisti – l’ultimo dato aggiornato parla di 40 mila licenze – formano una lobby inattaccabile che supporta il partito di Meloni. Cadono i governi, ma loro resistono a ogni tentativo di riforma. Il legame va oltre il singolo Bittarelli. Il 28 giugno scorso, i sindacalisti del comparto si sono confrontati con una delegazione di FdI, capitanata da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e uno degli uomini più potenti nella cerchia vicina alla leader. «Torniamo a chiedere al governo di stralciare una norma che aprirebbe le porte alla concorrenza sleale delle piattaforme tecnologiche multinazionali», è stata la posizione assunta, senza apertura alcuna, dai meloniani. Identica e precisa a quella di Claudio Giudici, presidente di Uritaxi, una delle sigle che si è battuta contro il governo per eliminare l’articolo dal ddl Concorrenza. Una battaglia vinta: con le dimissioni di Mario Draghi, la norma è stata stralciata dal testo. E nell’urna, senza nemmeno grandi segreti, lo sforzo dei Fratelli di taxi sarà ripagato.
Sempre legato al corporativismo ostile alle liberalizzazioni c’è la galassia dei balneari, una roccaforte di 30mila imprese, resistenti a qualsiasi ipotesi di riforma. Il principale trait d’union è senza dubbio la senatrice Daniela Santanchè, che con Flavio Briatore gestisce il Twiga a Forte de’ Marmi, in Versilia. Un volto noto che rappresenta gli interessi degli imprenditori del settore. Del resto l’azione parlamentare è stata costante da mesi: già a febbraio scorso, FdI aveva presentato una mozione alla Camera per stoppare l’idea di mettere a gara le concessioni demaniali marittime. Iniziative che, nonostante il tentativo di trovare una sponda con gli alleati di destra, non hanno prodotto il risultato sperato: ci saranno i bandi dal 2024 e gli indennizzi saranno determinati dai decreti attuativi. Per questo Meloni&Co. vogliono mettere le mani sul governo e gestire il capitolo. Sul dossier, la leader di Fratelli d’Italia ha puntato su un uomo di fiducia che di più non si può: il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida, che è anche cognato di “Giorgia”, avendo sposato la sorella. Un altro deputato, piazzato a guardia delle concessioni balneari, è Riccardo Zucconi, storico proprietario del Gran Caffè Margherita, a Viareggio. L’interlocutore principale è Antonio Capacchione, numero uno del Sib, sindacato di settore legato alla Confcommercio. La vicinanza è messa nero su bianco dalla costante pubblicazione degli interventi dei rappresentanti di FdI sul sito mondobalneare.com, punto di riferimento di chi vuole difendere con le unghie e i denti le concessioni che gestisce da decenni.
Ma la rete di relazioni di Meloni non è solo formata dalle lobby. C’è anche una questione economica da seguire, il più tradizionale del “follow the money”, attraverso le donazioni che negli anni sono affluite nelle casse del partito. Per Fratelli d’Italia non c’è l’equivalente di Davide Serra per Matteo Renzi, che fa arrivare copiose risorse per la gestione della macchina partitica. Le informazioni, nero su bianco nei bilanci di FdI, dimostrano comunque come ci siano dei sostenitori molto generosi. È il caso di Daniel Hager, amministratore delegato della Hc Consulting srl, con sede a Livorno, che risponde alla voce “spedizionieri e agenzie di operazioni doganali”. Hager è marito di Ylenja Lucaselli, deputata di FdI, e gestisce un colosso della distribuzione di vini in tutto il mondo. Così, nel 2018 ha versato 95 mila euro a cui si sommano altri 15 mila dati dalla società livornese. Anche la Moby spa, gestita da Onorato armatori, ha spesso fornito un contributo, ripetendo quanto fatto con altre forze politiche: nel 2018 e nel 2019 ha donato 5 mila euro per ogni anno. Più pesante, invece, il supporto del Gruppo villa Maria, che opera nel settore della ricerca sanitaria. Fondata nel 1973 è guidata da Ettore Sansavini, che ha mostrato generosità nei confronti del partito di Meloni, donando 50 mila euro nel 2020. Il supporto economico arriva inoltre da Confagricoltura, che nel 2019 ha fatto donazioni per 25 mila euro totali, cifra che è calata a poco più di 3 mila euro per l’anno successivo. Non manca, poi, un circuito esclusivamente romano di donatori, riportati nell’elenco che ogni soggetto politico è tenuto ad aggiornare. Nel 2020 la Confapi (associazione di piccole e medie imprese) di Roma ha elargito 4 mila euro, mentre l’anno precedente la costola capitolina di Federalberghi aveva provveduto a donare la stessa cifra finita nelle casse del partito. In alcuni casi le società, come la Pata (che produce patatine), ha versato 2 mila euro alla sezione di Mantova di FdI, città in cui c’è la principale sede della stessa società.
E da Mantova si va oltre, fino a valicare i confini nazionali. L’European conservatives & reformists party (Ecr) è la casa europea di Giorgia Meloni, condivisa tra gli altri con l’estrema destra spagnola di Vox e il PiS polacco, oltre a rappresentare il megafono di Fratelli d’Italia all’estero. Soprattutto è un prezioso contributor in termini economici. In tre anni l’Ecr ha destinato a Fratelli d’Italia la somma totale di 250 mila euro. Niente di sconvolgente, visto che le risorse dell’Europarlamento sono aumentate nel tempo per il Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti: solo nel 2022 sono affluiti nelle casse più di 4 milioni di euro distribuiti dall’Eurocamera. L’aspetto curioso, tuttavia, è la mancanza di trasparenza dell’Ecr, che sul proprio sito – ecrparty.eu – non pubblica i bilanci dal 2017, rendendo indecifrabile l’impiego complessivo delle risorse. Stesso destino è condiviso dalla New Direction foundation, altra organizzazione che ha sempre sostenuto FdI. Il motivo? La fondazione, ispirata alla filosofia politica di Margaret Thatcher, è un think tank del pensiero conservatorie che ha come vicepresidente Raffaele Fitto, altro eurodeputato di Fratelli d’Italia. Dal 2018 al 2020, la New Direction ha girato oltre 50 mila euro alle casse del partito meloniano. Anche per la fondazione, però, non è possibile consultare gli ultimi rendiconti: il più recente – si fa per dire – risale al 2018.
Il respiro internazionale è anche dato dall’attività all’Europarlamento, condotta principalmente da Procaccini, che si occupa di tutto quanto ruota intorno al mondo digitale, e dal suo collega Carlo Fidanza, che porta le istanze delle realtà italiane nell’alveo dell’Ue. Da Google a Facebook (che non hanno alcun rapporto economico con FdI) è Procaccini a tenere i fili degli incontri sui provvedimenti che transitano negli uffici europei, mentre Fidanza ha portato Confcommercio, Coldiretti, Assolatte ma anche l’Associazione Italiana Pellicceria, in sede comunitaria.
Qui Meloni non è una semplice comprimaria, ma recita da anni un ruolo da protagonista. La sua ascesa al vertice dell’Ecr arriva nel settembre 2020, quando ne diviene presidente nonostante FdI sia solo il secondo partito per numero di membri del gruppo all’Europarlamento. I polacchi di Diritto e Giustizia (PiS) guidato dal premier Mateusz Morawiecki contano infatti oltre un terzo dei componenti ma lo scettro va comunque a Meloni, segno del livello raggiunto dalla leader di FdI nei rapporti internazionali. Non a caso ben due premier dell’Ue – lo stesso Morawiecki e il ceco Petr Fiala, il cui Partito Democratico Civico siede nel gruppo Ecr – sono intervenuti (in collegamento video) alla conferenza programmatica del suo partito tenuta ad aprile a Milano: «L’Europa conta su di voi», ha dichiarato allora il primo ministro polacco. «Insieme restituiremo libertà e sicurezza» all’intero continente, ha chiosato il capo del governo ceco, che ha incentrato il suo messaggio sul ringraziare Giorgia Meloni «per la posizione ferma assunta contro l’invasione russa dell’Ucraina». La leader di FdI è tutt’altro che l’ennesima capofila del sovranismo in Europa à la Trump, almeno sul piano internazionale. È infatti ben diversa dal suo alleato Matteo Salvini, che da anni appoggia l’ex presidente Usa e si accompagna a personaggi come Marine Le Pen ma soprattutto Viktor Orbán, i cui rapporti con il Cremlino proseguono nonostante il conflitto. La vicinanza di ideali di Meloni (e dei suoi alleati nell’ormai quasi ex gruppo di Visegrad) al Viktator ungherese non basta per superare le differenze sul piano delle alleanze geopolitiche. In primis con gli Usa e la Nato e contro le ambizioni di Russia e Cina. È su questo punto che l’ex ministra si gioca quella credibilità internazionale necessaria ad ambire a Palazzo Chigi. Se Morawiecki e i suoi piacciono poco a Bruxelles, le loro posizioni fieramente antirusse, espresse ben prima della guerra in Ucraina, sono molto gradite alla Casa Bianca.
Magari a Washington possono non condividere il discorso tenuto in Andalusia a sostegno di Vox contro «la lobby Lgbt, l’ideologia di genere, la cultura della morte, la finanza internazionale e i burocrati di Bruxelles» ma, al di là delle boutade identitarie per non perdere l’appoggio dei nostalgici, sono altri i temi che interessano davvero agli Usa e su cui Meloni si è completamente allineata, come dimostra una lettera pubblicata ad aprile dal Foglio. Qui la leader di FdI si dice favorevole a «un’Europa confederale, più armata, che non dipenda da Paesi terzi» e che faccia da argine a Russia e Cina nei Balcani occidentali. Una sorprendente convergenza con la Casa Bianca, cominciata già l’anno scorso con l’appoggio di Meloni alla global tax per le multinazionali e i colossi del web, di cui FdI denuncia da anni «l’elusione e le tasse ridicole» nonostante il dialogo aperto a Bruxelles. Insomma, tutt’altra musica rispetto al Trumpismo, da cui l’ex ministra si tiene lontana, almeno oggi. In molti ricordano il suo incontro nel marzo del 2018 con l’ideologo Steve Bannon, invitato a parlare ad Atreju nei giorni in cui cominciavano le trattative tra Lega e M5S per poi formare il primo governo Conte. L’allora consigliere di Trump indicò Salvini, Meloni e il britannico Farage come i «veri disgregatori» di «ciò che le élite hanno rifilato alla civiltà occidentale», invitandoli a seguire il modello del miliardario americano. Un appello che l’ex ministra non raccolse completamente, tenendosi fuori dall’alleanza sovranista tra Salvini e Di Maio benedetta da Bannon, ma annunciando l’adesione al suo think tank “The Movement”. Un percorso che raggiunse l’apice nel febbraio 2020, quando Meloni presenziò come ospite al tradizionale “National Prayer Breakfast” organizzato a Washington dal partito Repubblicano e a cui prese parte anche Donald Trump, da cui però la leader di FdI avrebbe poi progressivamente cominciato a sganciarsi. «Il rapporto di Giorgia Meloni è sempre stato con – se vogliamo definirlo così – il “deep state” del partito conservatore americano che andava al di là di Trump», aveva spiegato tempo fa Crosetto a TPI. «Non ha mai avuto simpatie per Trump: hanno approcci diversi».
L’ex ministra non ha comunque mai messo in discussione l’alleanza con Washington anche dopo l’arrivo alla Casa Bianca del democratico Joe Biden, la cui agenda politica interna è molto lontana da quanto propone FdI che però ne condivide sempre di più la visione geopolitica, come dimostra il recente convegno svoltosi proprio nei giorni della crisi del governo Draghi nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera, dal titolo: “L’Italia e l’Unione europea nel futuro della Nato”. All’evento, promosso dal partito meloniano e a cui erano presenti anche alcune delegazioni diplomatiche estere e il presidente del Copasir Adolfo Urso, sono intervenuti tra gli altri il generale Claudio Graziano, già presidente del Comitato Militare dell’Ue; l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation; e l’ex ministro degli Esteri e responsabile del Dipartimento Rapporti Diplomatici del partito, Giulio Terzi di Sant’Agata. Il tutto si è chiuso con un discorso del capogruppo di FdI alla Camera, Francesco Lollobrigida, che ha sottolineato come il titolo stesso dell’evento «non lascia dubbi su quello che è il punto di riferimento» del partito meloniano: l’adesione al progetto europeo e il rafforzamento della Nato, appunto. Musica per le orecchie di Washington.