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    Giorgia, maschile singolare: ecco il nuovo dizionario Meloni

    Credit: Ufficio Stampa Palazzo Chigi

    La prima premier italiana si fa chiamare “il” presidente del Consiglio. Mentre il mondo delle professioni, col supporto dei linguisti, vira invece verso il femminile. Così una desinenza di genere diventa una battaglia culturale

    Di Massimiliano Salvo
    Pubblicato il 4 Nov. 2022 alle 19:29 Aggiornato il 4 Nov. 2022 alle 19:31

    Giorgia Meloni ha scelto il maschile: è “il presidente del Consiglio”. E hanno scelto il maschile pure le ministre Eugenia Roccella (Famiglia), Marina Elvira Calderone (Lavoro), Daniela Santanché (Turismo) Alessandra Locatelli (Disabilità) ed Elisabetta Casellati (Riforme), che già lo aveva preferito da presidente del Senato: lo stesso Senato che con i voti del centrodestra ha stoppato parità di genere e linguaggio inclusivo nel regolamento. «No a ideologismi», la motivazione.

    Poco importa che siano passati 35 anni da quando la linguista Alma Sabatini pubblicò “Il sessismo nella lingua italiana”, evidenziando un linguaggio che dà un’immagine negativa della figura femminile o subalterna rispetto all’uomo. Sui femminili professionali si gioca una battaglia culturale e politica: e chi si schiera a loro favore, Treccani compresa, viene irriso da destra con l’accusa di «storpiare l’italiano».

    Rebel Architette

    Tra i protagonisti di questa battaglia spicca l’associazione RebelArchitette, che ha richiesto il timbro femminile ai 106 ordini professionali. Oggi sono 42 a prevederlo, da Trento a Palermo. «Significa il 75% delle iscritte», spiega Francesca Perani di Bergamo, presidente di RebelArchitette e tra le prime a ottenere, nel 2017, il timbro da “architetta”. «Le progettiste subiscono discriminazioni economiche, assistenziali e di visibilità. Un uso corretto della lingua favorisce le pari opportunità in ambiti storicamente maschili».

    Oggi la battaglia di RebelArchitette si è estesa agli atenei, con il supporto a Valentina Lucich, 30 anni, di Bolzano, la prima a ottenere dall’Università di Bologna l’abilitazione al femminile. «Ma anche se la parola architetta è nei dizionari da anni c’è molta resistenza», aggiunge Cinzia Bigoni di RebelArchitette. «Sette ordini negano il timbro femminile. Terni, Teramo, Varese, Fermo, Reggio Calabria, Latina e Massa Carra». Nell’ordine di Varese precisano di aver lasciato «libertà di scelta» e citano la presidente Elena Brusa Pasquè, che si definisce “architetto” «perché la professionalità non ha sesso». Altrove parlano di cacofonia («architetta suona male») e benaltrismo («ci sono questioni più importanti»). E questo nonostante tra i 158 mila iscritti agli ordini le donne siano il 45%, mentre tra gli under 35 sfiorino il 62%.

    L’ok dei linguisti

    In italiano, dove non esiste il neutro, i termini riferiti a un essere maschile tendono a essere di genere maschile; lo stesso accade con il femminile. «Non c’è nessuna ragione di tipo linguistico per riservare ai nomi di professione e di ruoli istituzionali un trattamento diverso», scrive la linguista Cecilia Robustelli nelle Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo (2012).

    I termini che finiscono in -o mutano in -a (maestra, architetta); quelli in -iere diventano -iera (infermie- ra, ingegnera); in -sore si trasformano in -sora (assessora); in -tore mutano in -trice (imperatrice) o talvolta in -tora. Ci sono poi termini che non mutano e prevedono solo l’articolo femminile: quelli che finiscono in -e e -a (giudice, pediatra); i participi presenti latini (presidente); composti con capo-: (capofamiglia).

    Alcuni termini hanno solo il maschile o il femminile (guardia, sentinella, genio). Per diversi autori è meglio conservare i femminili già radicati in -essa (dottoressa, professoressa), anche se si tratta di poche attività svolte in passato dalle donne con il benestare degli uomini.

    Il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, però avverte: «Non bisogna obbligare a usare il femminile, e nemmeno accusare chi usa il maschile di fare un errore di grammatica. C’è un’area grigia. La lingua è diversa da generazione a generazione, si muove lentamente».

    Avvocate, mediche, ingegnere

    È per questo che la 32enne Alice Serafini si definisce «medica di famiglia» e fa parte del Movimento Giotto, associazione di medici e mediche di medicina generale che dal 2019 ha uno statuto declinato al femminile. «Il nome medica fa la comparsa anche sui libri di testo, ma siamo tacciate di dedicarci a cose inutili». La stessa accusa è rivolta a WeWomEngineers, rete di ingegnere biomediche. «Dietro una lettera c’è la libertà di essere esempio alle generazioni future», precisa l’ingegnera Manuela Appendino, torinese di 41 anni. «Ma per alcune colleghe il femminile è una vergogna».

    Tra gli ingegneri le donne sono il 16,1%, le neolaureate quasi il 30%. Ma il Consiglio Nazionale degli Ingegneri parla di “donna ingegnere” o “componente femminile dell’ingegneria”. Nel 2021 sono arrivate richieste di timbro al femminile che non hanno ottenuto risposta. «La parola “ingegnera” è ridicola», il commento informale dal Cni.

    Nel Consiglio nazionale forense esistono invece protocolli che invitano a utilizzare avvocata (identico a impiegata), per esempio a Milano, Udine, Bergamo, Cremona, Reggio Calabria. «Un’istituzione deve dare l’esempio», spiega l’avvocata Pina Rifiorati, che coordina il gruppo che si occupa di linguaggio e comunicazione. «Le differenze vanno nominate». Nell’avvocatura le donne che scelgono il maschile sono però la maggioranza, e così in altri settori. Nel 2021, al Festival di Sanremo, Beatrice Venezi disse «non chiamatemi direttrice d’orchestra, ma direttore». E così pure Isabella Fusiello, prima donna a capo della Questura di Bologna: «Sono il questore al pari del collega».

    La magistrata

    Sono dinamiche note alla magistrata Paola Di Nicola Travaglini, 56 anni, che dopo essersi firmata “il giudice” per 20 anni percepì di non essere riconosciuta come istituzione da un camorrista, in quanto donna. «Così ho acquisito la consapevolezza di genere», racconta. «Nel 2011 mi sono firmata “la giudice” e fui accusata di levare neutralità all’istituzione. Che non è neutra, visto che sino al 1963 le donne ne erano escluse».

    A maggio la magistrata ha di nuovo creato scalpore: in una sentenza di Corte di Cassazione si è firmata “la consigliera estensora”. «La realtà è che le donne sono ancora considerate ospiti nei luoghi del potere», aggiunge. «Usare il femminile rompe un assetto che dura da millenni».

    La prima conseguenza sono le accuse di protagonismo, che rendono molte donne restie a utilizzare il femminile. Secondo la sociolinguista Vera Gheno, ricercatrice dell’Università di Firenze, accade perché «ogni cambiamento è visto come un disturbo di uno status quo, non come un’evoluzione socioculturale. Il femminile è percepito come una rivendicazione, così per quieto vivere si usa il maschile sovraesteso: ma porta a pensare che quelle cariche siano rivestite solo da uomini».

    Il problema non tocca le donne del governo Meloni, ma era noto all’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, cui le scolaresche in visita chiedevano: “Quando arriva il sindaco maschio?”. Questo meccanismo, spiega Vera Gheno, funziona anche al contrario: basta vedere che succede in Germania. «I più piccoli sono cresciuti con Angela Merkel. E ora chiedono: può esistere una cancelliera uomo?».

    * In seguito alla pubblicazione dell’articolo, l’ufficio stampa della ministra Eugenia Roccella precisa quanto segue: “Si fa presente che l’onorevole Eugenia Roccella ha scelto l’appellativo di ‘Ministra’ con declinazione al femminile. La circostanza è stata chiarita nelle dichiarazioni fin qui rilasciate agli organi di informazione e negli interventi sui canali social della Ministra e fissata nell’indirizzo email già attivo. È in corso di aggiornamento il sito internet istituzionale che a breve riporterà la dicitura corretta, e il Vostro articolo ci è in tal senso utile a provvedere con maggiore sollecitudine”.

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