Onorevole Cuperlo, lei ha detto a La Stampa che «potrebbe» candidarsi alla segreteria del Pd.
(Ride) «Lo ammetto, spero non sia una colpa».
No, ma non ha ancora sciolto la prognosi.
(Sorriso). «Vero. Ma è cosa talmente seria da rifletterci, e non da solo».
Confessi: è una strategia per accendere i riflettori su di lei?
«No, chi mi conosce sa che non è quello il mio peggior difetto. Casomai il contrario».
Allora, si candida o no?
«Non c’entra l’ansia da protagonismo, in questi anni tutto sommato quell’ansia più volte mi ha fatto fare passi indietro».
Lei nel 2013 perse contro Renzi alle primarie dopo aver vinto la consultazione nelle sezioni e tra i dirigenti.
(Occhi al cielo). «Si trattava di un’altra era geologica. E comunque Renzi vinse non di molto anche tra gli iscritti».
Molti elettori dem, con il senno di poi, dicono che, se potessero tornare indietro, voterebbero lei.
(Ride). «Più per demeriti di Matteo, in questo caso. Quindi non vale».
Quando Renzi perse il referendum e uscì dal Pd lei coniò una metafora automobilistica. Se la ricorda?
«Ah ah ah, lei mi provoca: Matteo, dicevo, mi sembra come un corridore che in pista le azzecca tutte, e poi, appena uscito, con la coppa del mondo in mano e la gente che applaude, cappotta nel parcheggio».
Stoccata perfida: si è mai pentito?
«Perché? Direi che l’immagine vale anche per quello che Renzi ha fatto dopo. A lui ho riconosciuto dei meriti ma anche gli errori che ci hanno portato a sconfitte pesanti».
Nel 2014 lei ottenne un incarico molto importante, la presidenza del partito. Ma poi, dopo essere stato insultato da Renzi, si dimise. Perché?
«Non era un problema personale, ma un disagio politico per come si sviluppava la sua politica, non condividevo alcune cose e mi pareva giusto dirlo».
Oggi rimpiange di aver rinunciato a quel ruolo?
«Sì, credo sia stato un errore, se fossi rimasto avrei difeso meglio le nostre idee. Potrei dirle che quanto a dimissioni mi ritengo un professionista ma ho capito che non sempre l’impulso è il consigliere migliore».
Però ha anche rinunciato ad una candidatura alla Camera. È rimasto fuori dal Palazzo.
«Ho dovuto stringere un po’ i denti ma è stata una salutare immersione nel mondo reale, proprio nel tempo della crisi».
Cioè?
«Si dice sempre che i politici siano distanti dalla gente, poi però conosci persone che faticano davvero e allora anche della politica riscopri il valore oltre cariche e ruoli».
È rimasto persino senza stipendio.
«Per quattordici mesi perché la cassa integrazione dei dipendenti del Pd giustamente non faceva differenze».
Ha pensato che, se si candidasse, sarebbe l’unico ex cassintegrato a correre?
«A dire il vero no».
Ha passato giorni duri?
«No, nessun dramma anche perché ero comunque un privilegiato che usciva dagli anni del Parlamento. Però fare un bagno di realtà spesso aiuta a capire meglio le cose».
Lei è stato l’ultimo segretario della Fgci, se avesse puntato i piedi….
«Ebbi un colloquio con il tesoriere di allora che mi spiegò come la cassa integrazione a zero ore, considerata la mia condizione di ex deputato, era la soluzione più giusta anche per evitare di essere un bersaglio di polemiche sui social».
Lei è stato ricattato.
«Ma neppure per idea, ho avuto lo stesso trattamento di altri, non è su questo che ho criticato quella gestione del Pd».
E come riassumerebbe la vicenda nella sua lingua?
(Sorriso). «Diciamo che il tesoriere mi ha suggerito quel trattamento per il mio bene!».
Cosa le è successo dopo?
«Cassa integrazione al 50%. Ma sempre da privilegiato, direi».
Come ha vissuto? Economicamente, intendo.
«Gliel’ho detto, della mia liquidazione da deputato».
Per cinque anni?
«Il mio vizio più grande sono i libri, per fortuna non è tra i più dispendiosi…».
Con una moglie e una figlia.
«Non ci è mancato nulla. Però posso dire una cosa della precarietà, che è molto diversa dal “non avere soldi” dei nostri padri».
Cioè?
«Sei precario quando hai uno scoperto e non puoi sanare un debito. Se non sai quando ti arriveranno i soldi per pagarlo. Mi è capitato anche di recente e non me ne vergogno. Ma ripeto: ci sono cassaintegrati che sono stati molto peggio di me».
E quindi, correrà per la segreteria?
«Ma, vede, io credo davvero che prima vengono le idee, vorrei che chi ci legge al pari del partito dove milito riscoprissero questa passione perché poi ogni ragionamento o scelta deriva da lì».
Gianni Cuperlo, ultimo segretario della Federazione Giovanile Comunista fra il 1988 e il 1992. Poi deputato, leader della sinistra interna: si dimise dalla presidenza del Pd nei giorni in cui Renzi imponeva l’accordo con Berlusconi sulla legge elettorale. Dopo cinque anni fuori dal parlamento è stato rieletto in Lombardia. È stato uno dei dirigenti più impegnati contro l’ipotesi di Letizia Moratti. Ospite prediletto di “Forrest”, su Radio 1, Luca Bottura lo chiama «Gary Cooperlo», Marianna Aprile «Cuperlativo assoluto».
Si è opposto alla Moratti perché è contrario alle alleanze al centro?
«A dire il vero ero contro la candidatura Moratti perché per il Pd sarebbe stato uno Harakiri. Un suicidio politico».
E Majorino?
«È una ottima candidatura, abbiamo possibilità di vittoria».
Bisogna fare l’alleanza con il M5S in Lombardia?
«Bisognerebbe farla ovunque».
Per la segreteria del Pd non lo bastano i tre candidati in campo?
«Sarò sincero. Mi fa molto piacere che ci siano due donne in campo. Stimo tutti e tre, ma la sinistra in questi anni è stata opposizione nel partito, e ha delle cose importanti da dire, perché ha avuto ragione su tante scelte cruciali».
La Schlein non è di sinistra?
«Certo, viene da un percorso importantissimo, ma diverso: le donne, i movimenti, l’ambientalismo e i diritti. Dal Pd era uscita e ora è rientrata con una scelta che ho apprezzato».
Ricostruiamo la sua storia?
«Sciascia direbbe che è una storia semplice».
Cioè?
«Mia madre Gianna, quando sono nato, faceva la casalinga, e poi la lavoratrice saltuaria».
Non era nata benestante.
«Noooo….. c’è un piccolo episodio che mi unisce a lei, tutto sommato attuale nel dibattito sul presunto merito».
Quale?
«Io ho fatto l’esame di terza media lo stesso anno in cui lo ha fatto mia madre».
Possibile?
«Sì. Perché lei ha potuto prendere la licenza primaria solo da giovane donna e madre grazie alle 150 ore organizzate dai sindacati».
E non erano gli anni Cinquanta…
«Nooo… ha preso il suo diploma a 33 anni, io ne avevo 13».
Gianna è del 1940.
«Suo padre era morto quando era piccola. Questa storia dei diplomi mi è tornata in mente quando si è discusso di istruzione e merito».
La nuova bandiera del centrodestra.
«Quando tu lo separi dalle condizioni di partenza, il merito diventa privilegio!».
Perché c’è questa discussione?
«La destra contemporanea ha una visione profondamente distorta della povertà, e non solo in Italia».
Si può essere populisti ma elitari?
«Assolutamente sì. Consiglio la lettura di un bel libro di Michael Sandel che si intitola “Contro l’ideologia del merito”».
E dall’altro lato?
«Mio nonno paterno faceva il tipografo. Era repubblicano, nel senso del Pri, i polpastrelli impregnati dall’inchiostro».
Altri parenti importanti, per lei?
«Una zia, sorella di mia madre, che era partita nel 1957 sul piroscafo per l’Australia solo perché erano chiuse le porte per l’America e l’America latina».
Vi siete visti poco.
«Ma è stato un rapporto intenso anche a distanza. Da bambino, con gli zii di Melbourne capitava di scambiarci una volta all’anno messaggi sui nastri a bobina. Poi se li spedivano da un continente all’altro».
Veltroni ci avrebbe scritto un romanzo.
«Possibile. Mio padre era impiegato in una ditta di spedizioni. E questi miei zii, Adriana e Mario, tornarono una sola volta nel 1975, e vennero ad abitare da noi per tre mesi».
Fu uno choc?
«Fu la scoperta, per me ragazzino, di cosa implicava andarsene e tornare. Vissi attraverso i loro occhi il trauma della partenza e del ritorno».
Poi vi siete persi?
«Al contrario. Grazie a Internet e al lavoro di mio fratello, mia madre e sua sorella negli ultimi anni sono riuscite a a collegarsi e a parlarsi, a 15mila chilometri di distanza!».
Incredibile.
«Sono dinamiche sociali che non sarebbero potute esistere senza Internet».
Lei ha lavorato con suo padre?
«Ero affascinato da quella ditta di spedizioni tipicamente triestina, che lavorava con mezzo mondo. Nelle pause estive, da ragazzo, ho fatto il fattorino per 100mila lire al mese, almeno mi pare di ricordare una cifra simile».
Ci si pagava una vacanza?
«Certo: i primi soldi guadagnati. Ci ripenso quando rifletto su come si è svilito il valore sociale del lavoro».
Mi faccia un esempio.
«Ricordo una inchiesta anni Settanta sui desideri dell’italiano medio se avesse vinto al Totocalcio».
E cosa dicevano?
«Finalmente posso fare quello che ho sognato: cambiare lavoro».
E oggi?
«Guardo gli strilli del gratta-e-vinci: “Incassa il premio e smetti di lavorare”».
Ah ah ah.
«“Anziano Fiat” era una qualifica, quasi una onorificenza. Oggi, se gli va bene, è un cassaintegrato».
Le piace ricordare una aneddoto del 1948.
«Dopo l’attentato a Togliatti gli operai di Pontedera, come molti altri in tutta Italia, insorsero e occuparono la fabbrica».
Ma il Migliore disse: «Non perdete la testa». E loro?
«Cessarono l’occupazione, si autotassarono e gli regalarono una Vespa. Il frutto del loro lavoro!».
Togliatti in Vespa, un mito. Le sue scuole?
«Liceo classico al Petrarca: 55 alla maturità, perché la testa era già alla politica».
Cioè?
«Mi ero iscritto alla Fgci, in una scuola in cui non era forte… Ho conosciuto allora il futuro sindaco di Trieste Roberto Cosolini. La politica da ragazzi è stata davvero una grande palestra».
Non era una città di sinistra all’epoca.
«Trieste è una città complessa».
Spieghiamo?
«C’era intorno a noi la memoria drammatica della guerra. La repressione fascista. L’occupazione da parte di Tito nel primo maggio del 1945… l’unico campo nazista in Italia con forno crematorio, la risiera di San Sabba, le foibe. I settori occupati inglesi e americani… solo nel 1954 la città torna italiana, ma divisa dagli odi nazionalistici».
Questa tensione finisce solo con il trattato di Osimo.
«Ma la Dc paga un prezzo: nel 1978 la lista Per Trieste diventa il primo partito e svuota lo scudocrociato».
Non è l’unica sorpresa.
«In quel consiglio sedevano contemporaneamente come consiglieri sia Giorgio Almirante che Marco Panella! Uno l’anima nazionalista, l’altro a quella libertaria di Trieste».
Lei studia al Dams di Eco.
«Anche se non ho dato esami con lui: ho avuto professori straordinari come Luciano Nanni, Luigi Squarzina…».
Una lezione utile?
«Quella di un professore, Fabrizio Cruciani: aveva una tale passione da farmi immaginare che nella vita avrei fatto lo storico del teatro».
Mi dica un dettaglio.
«“Mangan doveva essere capitalista anche nei gesti”. Quando leggo che gli spin doctor parlano di prossemica ripenso a quelle lezioni».
Come diventa segretario della Fgci?
«Alla fine del 1988 Pietro Folena, segretario uscente, mi dice: “Vorrei che tu diventassi il nuovo segretario”. Dirigevo gli universitari, ai tempi in in cui c’erano Roberto Gualtieri, Ignazio Vacca, Giancarlo Schirru, Stefano Fassina, Antonio Luongo, poi deputato della Basilicata, e che oggi non c’è più».
Perché scelsero proprio lei?
(Ride). «Ero il più laterale».
Chi era il nome più probabile?
«Andrea Cozzolino, oggi eurodeputato».
Non c’erano le primarie.
«Ma si facevano le consultazioni, un punto di forza del Pci».
Spieghiamolo.
«D’Alema ha detto: “Se si fosse votato alle primarie Berlinguer non sarebbe mai stato eletto”. Beh, è vero. Ma così è diventato il segretario più amato».
Cade il Muro e…
«Ci fu la Svolta di Occhetto. E io la sostenni».
Si divisero anche i giovani.
«Si ruppero legami, amicizie, amori. Un dramma umano. Soffrii».
In che senso?
«Mi sentii non all’altezza di quella prova. Ci ripenso spesso. L’evento del Muro era più grande degli strumenti che avevo allora per affrontarli».
Quanto guadagnava da funzionario comunista?
«Un milione e mezzo di lire. Ma la Fgci non navigava nell’oro, arrivava saltuariamente».
E quando lasciò la Fgci?
«Per diversi mesi non feci nulla. Ero come svuotato».
E poi?
«Mi propongono di fare il responsabile della propaganda. Accetto. Prendo il mio ufficetto al sesto piano di Botteghe Oscure».
Emozionante?
«Non era una sede. Era uno Stato nello Stato. Lo studio ambulatoriale, dove una volta a settimana veniva il pediatra e si riempiva di bambini… C’era la tipografia, l’armeria della vigilanza… l’ufficio postale…».
Divenne un dirigente.
«Folena mi dice: “Chiama i grandi vecchi, fatti conoscere”. Un mondo incredibile».
Un dettaglio su quei dirigenti?
«Natta, con il suo intercalare ottocentesco: “Nevvero?”».
Un altro?
«La direzione con il tavolo a ferro di cavallo e i 40 più importanti dirigenti».
Lei diventa uno di quelli?
«Ci misi due mesi solo a prendere la parola. Non per paura delle posizioni politiche, ma del livello di quel gruppo dirigente: se sbagliavi una consecutio eri finito».
Come erano i grandi vecchi?
«Molto curiosi. Ma non c’era indulgenza verso i giovani. Rigore. Severità. Un altro mondo».
Esempio?
«A margine dell’ultimo congresso del Pci, Pajetta mi parlava dell’elezione diretta di Craxi nel Psi. Era indignato: “Ma ti rendi conto? Se il segretario impazzisce si rifà il congresso?”. Per questo difendeva il voto del comitato centrale».
E oggi lei cosa pensa?
«A Pajetta almeno è stato risparmiato scoprire che 4 milioni di passanti, versando 2 euro, decidono il leader di un partito che forse non voteranno mai».
Lei usa Pajetta per dire ciò che pensa».
«Le primarie aperte servono nelle cariche istituzionali. Ma non per chi dirige il partito«».
L’amministratore della Coca Cola non viene scelto da chi compra le lattine.
«Esatto».
Parliamo dello scandalo di Bruxelles.
«Ho detto che mi vergogno».
Non è esagerato?
«La questione morale teorizzata da Berlinguer è entrata dentro di noi, nella sinistra».
Non è una mela marcia?
«C’è un abbassamento della soglia di sorveglianza. L’accesso al potere è diventato, in alcuni casi, il fine ultimo. Il resto è conseguenza».
Ovvero?
«Se sopprimi ogni forma di finanziamento della politica, rimanere nelle istituzioni diventa il traguardo a cui non puoi rinunciare. I soldi gli strumenti per conservare lo status».
Quindi non esistono casi personali?
«Le responsabilità sono sempre personali, ma paghiamo anche gli errori di questi anni, a partire dalla selezione dei gruppi dirigenti».
Ovvero?
«C’è il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Chi non è nelle istituzioni non esiste».
E poi?
«Da quanto non eleggiamo un operaio, una casalinga, una precaria, un insegnante? La legge elettorale sciagurata con cui abbiamo votato accentua tutto questo».
Anche Letta ha criticato il Rosatellum voluto da Renzi.
«Io quella legge non l’ho votata. C’era un dissenso nel gruppo dirigente: era la fase in cui Matteo tirava dritto per la sua strada».
Cosa rimprovera?
«Non si è mai discusso della sconfitta al referendum 2016, alle politiche 2018 e nel 2022. Non è strano?».
Di chi è la colpa?
«Di tutti, me compreso. Invece di interrogarci, abbiamo pensato di compensare l’appartenenza di classe conquistando il consenso del ceto medio. E quando la crisi ha colpito il ceto medio, rischiando di diventare il partito delle elites».
L’errore più grande?
«Rinunciare alla redistribuzione e accettare come Vangelo il mantra “Non mettere le mani nelle tasche degli italiani”».
E invece?
«Aveva ragione Enzo Visco: l’unico sistema per fare riforme è una politica fiscale redistributiva».
Letta ci ha provato?
«Per una modesta tassa di successione è stato aggredito dalla destra. Il partito ha rinunciato a difendere il punto».
Quale?
«Se copiassimo una qualsiasi legge fiscale in materia Europea avremmo 2 miliardi in più da spendere».
La prima cosa che va fatta?
«Ricostruire un blocco sociale: quali interessi e quali bisogni, senza ridursi a un decalogo programmatico».
Perché non si è discusso?
«Un segretario del Pd, Zingaretti, si è dimesso con un tweet dicendo che si vergognava di un partito che discuteva solo di posti. Non convenne a nessuno affrontare quel problema».
E Letta?
«È stato chiamato da Parigi e lui generosamente è tornato ma per coprire un vuoto. Adesso anche Enrico se ne va, chi sarà il prossimo?».
Bisogna allearsi con il M5S?
«Certo, avremmo dovuto farlo».
Perché?
«Io credo che il M5S abbia fatto un errore a far cadere Draghi. Ma rompere l’alleanza è stato un secondo errore che hanno pagato tutti. Su questo mi prendo la mia parte di responsabilità».
Potevate vincere?
«Forse no. Ma certo non avremmo avuto la Fiamma che arde a Palazzo Chigi».
Che destra è?
«Quella che colpevolizza la povertà, reintroduce i voucher, che taglia l’indicizzazione delle pensioni, 3 miliardi quest’anno e 15 nei prossimi due. Che porta la flat tax a 85mia euro per autonomi e professionisti e incentiva l’evasione. Anche per tutto questo dovrebbe esserci una candidatura della sinistra».
La sua?
«Io vorrei solo che un pizzico di utopia restituisse di nuovo alla parola sinistra il valore che ha. Fosse solo per questo potrei esserci».
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