Onorevole Cuperlo, si è aperto o no un dibattito congressuale nel Pd?
Mah…. A me pare soltanto che a Gori sia scappato il piede sull’acceleratore, anche se non è ancora chiaro per quale scopo.
Lo scopo non è dichiarato? Gori ha proposto la leadership di Bonaccini.
Ma per carità.
Per carità, ovvero no?
Per carità nel senso: lasciamolo in pace, Bonaccini, che e deve governare per una legislatura e che ha appena vinto le elezioni in Emilia-Romagna.
È esattamente questo il motivo per cui si fa il suo nome. Dicono che sia vincente.
Mi sembra la cosa più insensata, indotta anche da questo sistema mediatico.
Cioè?
Appena qualcuno vince una mano di Monopoli si vuole che metta gli alberghi a Parco della Vittoria.
Cioè, tradotto per chi non conosce il gioco da tavola, gli si chiede di allargarsi e di diventare il salvatore della Patria.
Bonaccini faccia la sua mano da presidente.
Gori dice in sostanza che il Pd va troppo a sinistra. Che ha atteggiamenti anti-imprenditoriali. Da più parti si critica il blocco dei licenziamenti.
Ecco, il cuore dell’attacco a Zingaretti è questo, e io voglio spiegarle bene cosa penso. Ma due cose sono già chiare: la prima è che non c’è nessun pregiudizio contro gli imprenditori nel nostro partito, oggi.
E la seconda?
Non capisco proprio quale senso potrebbe avere mettere milioni di persone in mezzo ad una strada in un momento drammatico come questo.
Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Costituente, il pensatoio del Partito Democratico. È stato lui ad organizzare il seminario che è diventato il nuovo biglietto da visita identitario del nuovo corso del Pd. I primi dissensi di Gori si manifestarono – non è un caso – proprio in quella occasione. Secondo Cuperlo c’è un filo che lega la battaglia politica alla proposta di sostituire il segretario avanzata dal sindaco di Bergamo con la sua intervista.
Allora, Cuperlo, cosa la preoccupa?
Se riavvolgi il nastro dei fatti di questi giorni l’intervento di Gori è difficile da capire.
Un antidogmatico come lei non può invocare il principio di lesa maestà perché si mette in discussione il segretario.
Me ne guardo bene. Tuttavia Zingaretti aveva detto: “Facciamo un congresso tematico, facciamolo sui temi, data la fase che stiamo vivendo”. A me sembrava una proposta più che ragionevole. Più avanti ci sarebbe stato tutto il tempo di avanzare candidature, e anche di contarsi, per chi ha questa esigenza.
E perché secondo lei, invece, sul tema della leadership deflagra lo scontro?
Vuole la verità? Malgrado il grande lavoro di Nicola, il Pd resta gravato da una brutta eredità di questi ultimi anni.
Cioè?
Il partito è ancora una confederazione di gruppi e correnti che non vuole fare un dibattito sui temi e sulle identità. E questa galassia di capi corrente spesso morde il freno e punta alla leadership come una scorciatoia per guadagnare potere.
È un quadro sconfortante, ma è tutto legittimo.
È la realtà che cerchiamo di cambiare da quando c’è la nuova segreteria. Ma la bacchetta magica non esiste.
Dice Gori: “Zingaretti non convince”.
In cosa? Zingaretti in realtà sta dicendo al partito una cosa chiara: “Prendiamo atto di questa situazione che ho ereditato e proviamo a fare tutto insieme un passo avanti”. Ma molte sono le cose che già sono cambiate.
Lei dice che le è tornato in mente l’intervento del sindaco di Gori al seminario di novembre.
La dinamica “a freddo” ricorda ciò che accadde nella giornata finale del nostro dibattito.
Quale?
Era domenica mattina: intervennero in sequenza Boccia, intendo il presidente di Confindustria, Vincenzo, non Francesco il ministro. E Aboubacar Soumahoro, il sindacalista anti-caporalato. Ci fu un attimo di magia, perché non sembravano due posizioni distanti e antitetiche, ma due facce di uno stesso racconto su come riformare l’Italia.
E poi?
Poi prese la parola Gori, ed ebbi l’impressione che l’intervento più a destra fosse quello del sindaco di Bergamo, e non quello del presidente di Confindustria.
Ricapitoliamo i titoli di accusa.
Gori disse che nella nostra assemblea si coglieva un sentimento anti-imprenditoriale. Che lui trovava nel nostro dibattito le tracce di una vecchia cultura laburista venata di anti-modernità, e – infine – una piegatura sui diritti civili, privilegiati rispetto al valore del riformismo e del mercato.
Vuol dire che questa è la piattaforma culturale critica di chi si oppone a Zingaretti?
Rilevo che, di fatto, lui oggi ripropone quello stesso schema, aggiungendo in più solo il tema della leadership.
E cosa risponde?
Era singolare, se ci pensa, che queste accuse non venissero dal presidente di Confindustria ma da chi milita nel Pd. Il cuore di quel seminario – piuttosto – era proprio nell’idea che un moderno riformismo non poteva non partire dalla centralità del lavoro e dalla difesa dei più deboli.
E questo dilemma riappare anche nel dibattito di questi giorni sul blocco dei licenziamenti.
Qui però vorrei partire da una premessa. La tragedia che ci ha investito non ha eguali, non ha paragoni della storia. L’epidemia ora ha perso di intensità, per fortuna, ma non l’onda d’urto della crisi economica, che è appena iniziata.
È pessimista?
Al contrario. Noi non abbiamo mai avuto dei fondamentali economici così deteriorati, prima di oggi, ma non abbiamo neanche mai avuto così tante risorse a disposizione. Ecco perché il dibattito sull’identità riemerge adesso.
Perché siete ad un bivio.
E qui rispondo sul nodo, non solo simbolico, dei licenziamenti.
In che senso?
In una condizione di tale debolezza del nostro tessuto sociale io credo che si debba prorogare il blocco dei licenziamenti partendo da un’idea molto semplice e dritta: non si può mettere la gente sulla strada quando già molti faticano a rialzarsi.
I suoi compagni di partito dicono che non hanno nulla contro quella gente, ma dicono che quei posti di lavoro sono già persi. Che è inutile prolungare una agonia.
E io rispondo che trovo assurdo giocare al darwinismo sociale sulle macerie di una crisi ancora in pieno svolgimento.
Ed ecco perché vi accusano di essere conservatori e attendisti.
Non siamo né gli uni né gli altri. Proprio per questo oggi io dico che bisogna innovare la pubblica amministrazione, semplificare gli appalti, investire sull’economia green e sulle economie sostenibili, puntare su Scuola e Università. Il Pd è il partito che vuole cambiare più profondamente il paese.
Vi dicono che il rischio – tuttavia – è quello di sostenere un modello di paese fondato sull’assistenza e sullo statalismo. Che in questo siete succubi delle idee del M5s.
A me sembra ridicolo. Queste sono le mie idee di sempre, quelle di Gianni Cuperlo. Ma non capisco il punto: davvero tutto questo sarebbe in contrasto con l’esigenza di tutelare lavoratori in difficoltà? Di uscire dalla fase dura della crisi senza lasciare che i più deboli restino sul campo?
Gori dice che il Pd oggi non è all’altezza della sfida.
Sinceramente questo discorso non l’ho capito. Mi pare un atteggiamento ingeneroso. Io ho letto con grande attenzione l’intervista che lui ha rilasciato a La Repubblica.
Ebbene?
Non mi pare che si possa tacciare questo partito di conservatorismo e nemmeno dire che la sua attuale leadership manchi di coraggio.
Lo dice perché lei e Zingaretti siete compagni di vecchia data, fin dai tempi della Fgci?
Lo dico perché di fronte a quella Confederazione di componenti di cui parlavo prima, il tratto di cautela e di saggezza di Nicola è stato la garanzia che ha permesso di garantire tutte le identità.
E qui si arriva alla proposta di Bonaccini segretario. Che ne pensa?
Mah… andiamo: per tutto quello che ho detto, il Pd ha bisogno di una opera di rinnovamento, non di un gioco di figurine da attaccare sull’album, una sopra l’altra.
D’accordo, ma è una proposta politica che si accompagna ad una indicazione per la nuova segreteria.
Mi sembrano entrambi poco convincenti nel merito. Sa che effetto mi fanno queste parole di Gori?
No, quale?
Mi ricordano di quando Enrico Ghezzi parlava fuori sincrono a Blob. Il discorso in apparenza aveva senso, eppure il senso di spiazzamento, nel guardarlo, era sempre lunare. Ecco, anche quando dice cose apparentemente sensate, Gori è fuori sincrono rispetto al tempo che stiamo vivendo.
Ma non è giusto che il Pd comunque discuta?
Ma certo! Abbiamo già in programma un appuntamento. Una assemblea “in presenza” da tenere a luglio.
Con la gente in platea, gli applausi come una volta?
Sarà la prima occasione fisica in presenza per riattivare i motori della politica dopo il Covid. E lì vorrei discutere guardano le persone in faccia delle tante domande che ci ha posto questa crisi.
Ad esempio?
Vuole la prima immagine che mi colpisce? Il passaggio ideale di consegne dai baby boomers agli zoomers che si è verificato sul caso Trump.
Ovvero quelli che hanno boicottato la grande convention di lancio della candidatura presidenziale.
Ho trovato divino questo elegantissimo boicottaggio. Lo staff del presidente aveva comunicato che sarebbe stato una grande Rentrée, aveva costruito la sua comunicazione sul tutto esaurito, e poi si scopre la beffa.
Cioè le prenotazioni fittizie.
Hanno occupato 6.200 posti su 19.200. Hanno infranto la virtualità del plebiscito mediatico con un boicottaggio gentile. Attenzione: c’è dentro anche l’idea che tornare alla fisicità è essenziale.
A che si riferisce?
Alla politica in presenza, come alla didattica in presenza. Io sono rimasto turbato – non so voi – dalle infinite riunioni che ho dovuto sostenere online. Ho sul telefono una batteria di App di cui prima nemmeno conoscevo l’esistenza.
Perché?
Perché tutti ti vorrebbero virtualmente connesso in qualsiasi momento. E invece abbiamo bisogno di guardarci negli occhi per affrontare i nuovi pericoli.
Usa una parola forte.
Fra le altre cose sono rimasto turbato, lo confesso, da una intervista che La Repubblica ha fatto al teorico e consigliere del presidente Duda (presidente della Polonia, ndr).
Come mai?
Era una manifesto prefetto del neoconservatorismo polacco. Ma forse qualcosa di più.
Cioè?
La destra non si risolve solo nelle gaffes di Salvini sulle ciliegie e dagli sgangherati cortei del no-mascherina. La destra mondiale esce da questa epidemia in parte sconfitta, per le soluzioni che ha proposto rispetto al dilagare del virus. E in parte radicalizzata.
Come mai secondo lei?
Perché a questi leader populisti, che hanno dimostrato impotenza e incapacità di comprendere, è rimasta una sola risposta.
Quale?
Un nucleo di valori profondamente reazionario e aggressivo.
Tuttavia adesso rischia di perdere.
Bisogna studiare la risposta al Covid e il caso Floyd: la crisi radicalizza interiormente la destra sovranista, ma in realtà nazionalista. Non potendo più diventare unanime, l’idea è quella di vincere nella divisione e nel conflitto.
E qui torniamo all’intervista del consigliere di Duda.
Questo pensiero neo-conservatore, assetato di radicalità, teorizza che la vera ideologia sconfitta dal Covid siano l’illuminismo e i diritti umani.
Perché a loro avviso hanno prodotto la globalizzazione e il meticciato.
Esatto. È l’inseguimento di slogan semplici e inclusivi: sei polacco se ti riconosci nella nostra tradizione. E noi non dobbiamo mai dimenticare che Polonia e Ungheria hanno usato il Covid per restringere gli spazi democratici.
In fondo è la stessa scommessa di Trump che si pone come baluardo contro il caos.
Esatto. Sono idee grossolane, che però in tempi di crisi possono essere non del tutto prive di fascino. Per questo dobbiamo rispondere tenendo insieme i diritti e la tutela della persone. Un’altra via io non la vedo.
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