Onorevole Fratoianni, voi rossoverdi in questa campagna lottate per il quorum del 3%?
«Mi aspetto di prendere molto di più».
Dica la verità.
«È la verità. Noi siamo il vero voto utile di questa campagna elettorale».
Che cosa intende?
«Il nostro è un voto utile per almeno tre ragioni: siamo nell’unica coalizione che può battere la destra, o impedirle di avere i numeri per cambiare la Costituzione in solitudine. Siamo anche il voto che meglio difende i valori della sinistra e dell’ambientalismo, i diritti, l’ambiente, il lavoro. E infine siamo gli unici che non hanno mai governato con la destra: chi vota noi spinge per un governo progressista e dice no alle larghe intese».
Mi faccia un esempio.
«La pace. Noi siamo gli unici che hanno votato contro l’invio delle armi in Ucraina. Anche il M5S, pur protestando, quei decreti li ha votati».
Però per quel voto qualcuno vi apostrofa come amici di Putin.
«Sì, qualche miserabile si è permesso di chiamare con questo epiteto persino una donna con la storia di Luciana Castellina. Grottesco».
Hanno attaccato anche lei, per il suo voto in Parlamento.
«Anche per me è una medaglia. La guerra in Ucraina è stata, anche, un tentativo di imporre egemonia culturale sulla sinistra».
Riuscito?
«Fallito. Gli italiani restano un popolo della pace. E noi dell’alleanza Verdi e Sinistra siamo gli unici a non aver ceduto alla pressione unanimistica dei partiti e dei media».
Molti hanno detto: votiamo sì alle armi, ma da pacifisti.
«Io rispetto tutte le idee, ma seguo il più importante insegnamento di Gino Strada».
Quale?
«Essere contro la guerra “Senza se e senza ma”. Le armi, come si è visto, producono più vittime e più distruzione. Non è un caso che la nostra sia l’unica lista che ha la bandiera arcobaleno e la colomba della pace nel suo simbolo».
Sono passati mesi da quel voto.
«E adesso è molto più chiaro che molti lavorano perché quella guerra non finisca».
Ma l’alleanza con i Verdi tiene?
«Al contrario dei tanti matrimoni di interesse e dei tanti patti di pura convenienza che si sono celebrati per queste elezioni, la nostra è una unione sinergica e solidale».
Cioè?
«Con Angelo (Bonelli, ndr) e con gli altri dei Verdi c’è un rapporto di stima e di fiducia. Oggi ci ritroviamo gli uni nelle battaglie degli altri, dall’ambiente ai diritti, senza nessuna fatica ed anzi, imparando reciprocamente».
Anche quella contro i jet privati? Vi accusano di pauperismo vetero-marxista.
«Ignoranti. E Boomer. In Francia questa battaglia l’ha sostenuta persino Macron».
E in Italia?
«Abbiamo avuto gli endorsement più diversi, da Selvaggia Lucarelli a Mario Monti. Vetero-marxista anche lui?».
Lei sembrava che si candidasse nel suo collegio a Pisa, poi non lo ha più fatto.
«Ho dato una mano a risolvere un problema di coalizione».
Cedendo il suo posto al senatore Ceccanti?
«Sono così sicuro del nostro progetto che ho rinunciato a qualsiasi paracadute di collegio».
Quindi se non superate il quorum sarà fuori dal Parlamento.
«Per me è stato il modo per lanciare un messaggio: nei due collegi più sicuri che avevamo ottenuto abbiamo candidato due persone con una storia straordinaria come Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro».
C’è stata polemica anche per la candidatura di sua moglie, Betta Piccolotti.
«Polemiche di chi non conosce la sua storia, per almeno due buoni motivi».
Il primo?
«Anche Betta non è garantita. Sta sul proporzionale e la sua elezione dipenderà dal nostro risultato».
E il secondo?
«Quando l’ho conosciuta era già una dirigente dei Giovani Comunisti».
E poi?
«Io sono stato coordinatore nazionale dal 2002 al 2004. Lei dal 2006 al 2008. Ci siamo messi insieme e sposati dopo».
Siete come Juan ed Evita Perón? Vita e politica insieme?
«Non sfotta. Semmai il fatto che fossimo due compagni di vita è stato un gigantesco ostacolo al suo impegno».
Perché?
«Il maschilismo imperante, talvolta anche a sinistra, riproduce questa idea becera che la donna sia favorita dall’uomo. Nel suo caso, come chiunque nel nostro mondo la conosca sa, è vero esattamente il contrario».
Il leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni dice scherzando: «Dovrò fare un regalo a Carlo Calenda: la campagna elettorale ce l’ha fatta lui, che gode di grande visibilità sui media, coprendoci di insulti». Non è una battuta.
Fratoianni lo dice per scherzo?
«No, sul serio. Ci ha dato degli “scappati di casa”, degli “incompetenti”, “inaffidabili”, “frattaglie”. Come è andata è noto: lui è scappato, noi “inaffidabili” siamo rimasti».
È stata una sua battuta il casus belli dello strappo.
«Avevo fatto l’alba per delle riunioni. Mi sono svegliato tardi, e ho visto su Twitter che Carlo continuava a strepitare contro di noi».
E allora?
«Ho scritto in un tweet: “Agenda Draghi? Non esiste. Povero Calenda, deve correre in cartoleria a comprarsene un’altra”».
E lui se n’e andato.
«Cercava un pretesto, come si è capito bene ora: voleva le mani libere a destra. E per poter lanciare i suoi programmi mirabolanti come le cinquanta centrali nucleari!».
Capisco. Ripartiamo dall’inizio. Cosa faceva suo padre, onorevole Fratoianni?
«Il professore di scuola superiore».
E sua madre?
«Anche. Si sono conosciuti all’università».
A chi assomiglia di più?
«Ho preso da entrambi. Ma mia madre, Anna, è il tipo che ama prendersi sempre il mondo sulle spalle, si preoccupa di tutto e di tutti. E mi ha trasmesso una cosa che considero importante: il senso della cura».
E suo padre, invece?
«Alla fine della sua carriera ha fatto il preside, prima insegnava filosofia. Si chiama Aldo, viene da Ururi, provincia di Campobasso. Da maniaco della lettura, mi ha trasmesso la passione per i libri. L’uomo meno pragmatico del mondo».
Cioè?
«Avevo 10 anni quando Zico arrivò in Italia: lo pregai in ogni modo di portarmi a vederlo allo stadio a Pisa, dove abitavamo…».
E lui rifiutò?
«Noohhhh… Ma lui, senza accorgersene, prese i biglietti del settore Ospiti».
Risultato?
«Io, mia madre e lui, unici pisani in mezzo alla marea degli ultras bianconeri dell’Udinese. A ben vedere il destino della mia vita».
Cioè?
«Abituarsi ad andare controcorrente».
Ah ah ah.
«Ecco l’immagine: 5mila tifosi dell’Udinese, un bambino con i colori del Pisa al collo, e mio padre che, imperturbabile, passa tutta la partita a testa china leggendo un saggio su Kant».
Però vi hanno trattato bene.
«Ci hanno preso per matti. Forse li abbiamo inteneriti».
Enrico Mentana una volta l’ha presentata scherzando: «Delle grandi battaglie perdenti di Fratoianni ne condivido almeno una».
(Ride). «Ovviamente si riferiva all’Inter: sono diventato tifoso nerazzurro dopo il 1982. Una causa disperata, per un decennio. Ora, dopo lo scudetto, temo un ritorno al nostro eterno destino: belli ma incompiuti».
Dove ha studiato?
«A Pisa, dove sono cresciuto: liceo scientifico sperimentale Buonarroti».
Primo contatto con la politica?
«I collettivi studenteschi».
Quanto ha preso alla maturità?
«Non ero un secchione ma me la cavavo: 52 su 60».
Suo padre era severo?
«Entrava nella mia stanza con una pila di libri. Poi me li piazzava davanti al naso: “Leggi! C’è tutto quello che serve per capire ciò che stai studiando”. Ehhh…».
Pensava di diventare deputato da bambino?
«Macché, astronauta. Un classico».
E poi?
«Mentre studiavo mi immaginavo professore».
Come mai?
«Spesso ho avuto rapporti con persone che avevano competenze enormi, ma che erano incapaci di trasmetterle. Sognavo di poter fare il contrario».
Invece la prende il demone della politica.
«Ehhhh… Università a Pisa. Divento rappresentante di facoltà con i collettivi universitari, e poi mi iscrivo a Rifondazione. Il dado è tratto».
Nel 1992, quando Bertinotti diventa segretario.
«A volte accade così, fu una grande passione: il nostro collettivo si trasformò in una sezione del partito».
Il primo dirigente con cui ha a che fare fu Marco Rizzo.
«Aveva avuto l’incarico di costruire l’organizzazione giovanile dalla direzione, ora è un nostro avversario. Come Gennaro Migliore, primo responsabile dei Giovani Comunisti, oggi renziano. Dopo fu il turno di Peppe De Cristofaro, che è uno dei principali dirigenti di Sinistra Italiana».
A 29 anni, malgrado la politica, lei riesce a laurearsi.
«Passo le notti a scrivere una tesi su Luis Dumont».
Su cosa?
«Dumont è un antropologo francese che ha studiato le caste indiane e scritto due libri straordinari su questi temi: “Homo hierarchicus” e “Homo aequalis”. Ma pensi che arrivo alla discussione vivo solo per miracolo».
Cioè?
«Era il 21 agosto del 2001. Stavo andando a fare un dibattito con Giuliano Giuliani, padre di Carlo, e un dirigente del Siulp. Non ci arriverò mai».
Perché?
«Un signore ci viene addosso. Io sono seduto accanto al guidatore, proprio dove veniamo colpiti».
Risultato?
«Femore distrutto. Addirittura in cinque pezzi. Qualcuno dice che si vede da come cammino. Per fortuna posso ancora giocare a pallone, con mio figlio Adriano».
Finisce in ospedale per venti giorni, poi sedia a rotelle e una lunga riabilitazione.
«E mio padre – il solito – mi regala un portatile e mi dice: “Hai una grande occasione! Un po’ di tempo per scrivere la tesi! Questa è una fortuna”».
Un genio.
«E aveva ragione: laurea in stampelle con 110 e lode, lui con le lacrime agli occhi».
Lei dice che il G8 di Genova, che c’era stato pochi giorni prima dell’incidente, è il suo romanzo di formazione.
«All’epoca ero responsabile nazionale organizzazione dei Giovani Comunisti, e lì sarebbe dovuto esserci anche un giovane Alexis Tsipras».
E non arrivò?
«No, Alexis e il suo gruppo furono intercettati sul traghetto al porto di Ancona, manganellati dalla polizia e rispediti in Grecia senza poter manifestare».
Era con i Black Bloc?
«Macché: con i giovani del Synaspismos, la coalizione dei movimenti di sinistra. Da lì, anni dopo, è nata Syriza, il partito con cui Alexis ha vinto e governato».
E in quei giorni c’era anche Pablo Iglesias.
«Siamo la stessa generazione: una sinistra radicale, ma che si pone il tema del governo per cambiare».
Cosa le accadde a Genova?
«Ero nello stadio Carlini, il giorno prima della morte di Carlo Giuliani. Ed ero a via Tolemaide quando Placanica gli ha sparato. A neanche 500 metri da lui. Quel giorno, per ovvi motivi, è cambiato il mio modo di vedere la vita».
Cosa accadde dopo quello sparo?
«Ci riunimmo al Carlini. Forse in 20mila. Ci fu una assemblea drammatica con gente che gridava: “Usciamo e vendichiamoci!”. E altri che rispondevano: “Se dovesse succedere sarà un massacro”».
Chi?
«Ad esempio Daniele Farina del Leoncavallo, che poi è diventato deputato di Sel con me. Se quel giorno avesse vinto l’ipotesi “vendetta”, quella sera sarebbe stata una catastrofe. È stata la più grande lezione della mia vita. Anche quando parlo della guerra in Ucraina lo faccio sapendo cosa può produrre l’ansia di vendetta».
Ha dato una delusione a Salvini, scegliendo il servizio civile.
«Esperienza fantastica».
Associazionismo, buonismo…
«Tutto il contrario: a Fauglia, in Toscana. Il sindaco era un medico, ex paracadutista di Forza Italia».
Che la indottrina su Berlusconi?
«Macché. Mi fa accompagnare a scuola i disabili. Finito con i bimbi andavo a fare il bibliotecario».
Ma con il sindaco come va?
«Ah ah ah… Tutto bene finché un giorno la sua segreteria convoca noi obiettori e ci consegna dei rotoli dei suoi manifesti, di Forza Italia, da attacchinare per le elezioni provinciali».
E lei aderisce per non creare problemi?
«Rispondo che non posso farlo, perché la legge me lo impedisce».
Come finisce?
«Il sindaco mi manda una lettera scrivendo: “Lei provoca grave nocumento all’immagine del Comune”».
Perché non attaccava i manifesti?
«Perché avevo barba lunga e i pantaloni non stirati».
Sembra un secolo fa.
«Gli rispondo per lettera dicendo che non c’erano vincoli di dress code per gli obiettori».
E lui?
«Mi ricusò. Pensando di farmi un torto mi fece un piacere. Pensi che finii per due mesi in “Lisa”».
E cos’è?
«Un acronimo all’italiana. Sta per “Licenza illimitata senza assegni”».
Ovvero?
«Due mesi senza fare nulla. E poi all’Uisp, l’Unione italiana sport per tutti di Pisa».
In soli tre anni lei diventa dirigente giovanile. Ma Migliore, il suo leader di allora, poi organizzerà una scissione quando il coordinatore di Sinistra Ecologia e Libertà diventa lei.
(Ride). «Le scissioni a sinistra sono una tassa obbligata. Ne abbiamo fatta una insieme, per uscire da Rifondazione, e ne ha fatta una lui per lasciare noi. La somma algebrica è zero. Mi spiace che Gennaro sia diventato renziano. Ma gli voglio un gran bene lo stesso. Poi la politica è un’altra cosa».
Cioè?
«In questa campagna elettorale il terzo polo è un equivoco che aiuta la destra».
Si è sentito tradito?
«Da Calenda? Io proprio no. Però osservo che si possono fare tutte le scelte politiche, ma se tradisci un accordo appena preso non ci fai una bella figura».
Nel 2004 lei lascia l’organizzazione giovanile.
«Fausto Bertinotti mi chiede: “Cosa vuoi fare?”».
E lei?
«Gli dico: “Vorrei occuparmi di cultura”. Lui mi spedisce a fare il segretario regionale della Puglia».
Ah ah ah.
«Ma io amavo il Sud, ed è stata la fortuna della mia vita».
Perché organizza le prime primarie della storia, candidando Vendola?
«Molti di noi erano perplessi: “Così si legittima il Pd che vince sicuro, perché ha il doppio dei voti”. Il solito massimalismo ottuso».
Perché?
«Io dissi a Nichi tre cose: “Le dobbiamo fare, ti devi candidare e devi vincere”».
E lui cosa rispose?
«“Tu sei matto, e poi non so se voglio fare il presidente”. Eppure vincemmo sia quelle sia quelle che si tennero cinque anni dopo. In entrambi i casi, quando partimmo, ci davano per morti».
La prima volta contro i Ds, la seconda contro il Pd.
«Che storia! Nel 2005 votammo sotto la neve. Si diceva che ai seggi non sarebbe andato nessuno, ma trovammo le code ai gazebo».
E nel 2010?
«Con quella vittoria di Vendola iniziò la stagione dei sindaci arancioni, da Pisapia a Doria, a Zedda. Grandi prove da amministratori. La Puglia con Nichi è cambiata, anche gli avversari lo riconoscono».
Però poi Sel non è andata oltre il 3,2%.
«Quella speranza di cambiamento fu sconfitta da destra, con delle operazioni di Palazzo».
Quali?
«Prima il montismo. Poi il renzismo, e il colpo di mano contro Letta. Quella mossa ha spostato a destra l’asse della politica italiana, anche sul piano culturale».
Mi faccia due esempi?
«Solo due? Non dimentichiamo che Renzi è quello della “Buona Scuola” e del Jobs Act».
E Draghi?
«Abbiamo partecipato, con convinzione, al governo giallorosso: un governo che ha difeso il reddito di cittadinanza, salvato il Paese dalla pandemia e ribadito la centralità del pubblico sul privato, a partire dalla sanità».
E poi?
«Poi è arrivato l’ultimo “ismo”, il draghismo, e si è imposta una maggioranza che andava addirittura oltre la Ursula. Il primo strappo è stato imporre la presenza di Salvini e della Lega. Il secondo imporre una linea ultra-atlantista che ha fatto dell’invio delle armi in Uncraina il suo punto simbolico».
Lei fa motivo di vanto di aver votato contro Draghi. Calenda ricorda che lei lo ha fatto per 55 volte.
«Ribadisco che dovrò ringraziare Calenda per avermi fatto una parte della campagna elettorale».
Addirittura?
«Per il punto di coerenza di non votare la fiducia ho subito molti addii, anche tra persone di cui mi fidavo e che non volevano, ma sono venuti da me a dirmi: “Ma come facciamo?”».
Cosa intendevano?
«La pressione mediatica. Ma forse anche l’idea, che considero sbagliata, che lo spazio della politica sia solo nel governo. Ad un certo punto mi sono girato e mi sono accorto che alla Camera ero rimasto solo. Ho pagato un prezzo enorme, e molti giornali scrivevano che solo Fratelli d’Italia era all’opposizione».
Il partito era con lei, gli eletti no.
«La coerenza costa».
Lei ha rotto anche con il suo maestro, Bertinotti.
«Penso ancora che la sua leadership fosse stata di grande innovazione. Ma tutto quello che ho fatto spiega perché noi vogliamo combattere la battaglia senza gettare la spugna. E poi si può dissentire senza per forza rompere i rapporti».
E Vendola, il suo fratello di sangue?
«Mi ha sostenuto in questa battaglia per portare Sinistra Italiana nella coalizione».
Se ne potrebbe pentire dopo il voto?
«Io? Nel momento più duro del nostro dibattito, prima del voto, ho messo sul piatto le mie dimissioni. Se l’accordo non fosse passato mi sarei dimesso».
E lo avrebbe fatto davvero?
«Certo. Potrò avere molti difetti, ma non quello dell’incoerenza. Ho creduto che fosse necessaria un’alleanza per non consegnare il Paese alla destra. Ne sono convinto».