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    Enrico Letta a TPI: “Altro che Europa assente. Dall’Ue grande reazione all’emergenza Covid”

    L’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, intervistato per TPI da Maurizio Carta, traccia quello che deve essere un percorso comune di uscita dalla crisi e verso un Europa solidale e coesa, senza dimenticare le responsabilità italiane: “Basta incolpare gli altri, è una scorciatoia, un alibi per non cambiare”

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 6 Mag. 2020 alle 08:51 Aggiornato il 6 Mag. 2020 alle 15:38

    Buongiorno Presidente, come se la passa? Dica la verità, le manca la politica?
    No, perché mi sono dimesso dal Parlamento, esattamente nel 2015, non certo dalla politica. Con la Scuola di Politiche che ho fondato allora – e che ha offerto gratuitamente in questi anni occasioni di apprendimento e scambio a centinaia di ragazzi in tutta Italia – faccio politica. Attraverso il dialogo continuo e gli interventi nel dibattito pubblico faccio politica. Oggi lavorare sulla formazione della classe dirigente è peraltro un impegno impellente: per il nostro Paese e per l’Europa. Nel suo estremizzare tutto la pandemia mostra ancora più chiaramente l’impatto delle decisioni politiche sulle vite di ciascuno di noi.

    Alla luce dei recenti sviluppi sull’emergenza pandemica, le istituziuoni europee pare abbiano trovato quantomeno un denominatore comune, realizzando che se certi paesi affondano se ne trascinano altri dietro per effetto domino. E’ vera solidarietà e unione oppure è paura e interesse per il mercato comune di cui hanno sempre beneficiato?
    Tutti dipendiamo da tutti: vale per le persone come per gli Stati. È questa la grande lezione della crisi che viviamo. Dobbiamo superare la falsa dicotomia tra solidarietà e interesse: non sono principi in contraddizione, si rafforzano a vicenda e, insieme, determinano interdipendenza. La visione dell’Europa come una comunità di destino che condivide un futuro comune si realizza appunto soprattutto attraverso l’interdipendenza.

    In una celebre fotografia del 1984 Mitterand e Kohl si tengono per mano a Verdun in un immagine davvero emblematica. Due giganti della storia, insieme, a simboleggiare “Mai più guerre fra di noi”. Lei è sempre stato un convinto europeista. In un evento di queste dimensioni, quantomeno, appare che sull’Unione “vera” ci sia ancora tanto da fare. A che punto siamo?
    Tanta strada resta da fare, non c’è dubbio. Ma in questi mesi abbiamo fatto un allungo che non è stato raccontato come merita. In febbraio, nella stessa settimana della scoperta del presunto paziente 1 a Codogno, gli stati europei dopo ben 48 ore di negoziato non erano riusciti ad accordarsi sull’entità del nuovo budget europeo post-Brexit. Le percentuali della discordia erano nell’ordine degli “zero virgola”. Otto settimane dopo, il 23 aprile, il Consiglio europeo ha dato mandato alla Commissione di lavorare su un fondo europeo per la ripresa che sarà almeno il doppio del budget europeo. Entità mai neppure considerata in precedenza. Se pensiamo che nella precedente crisi ci vollero decine di Consigli europei e quattro anni per arrivare al fondo salva stati e al “whatever it takes” di Draghi, è evidente che l’Unione ha avuto una capacità di reazione e decisione stupefacente. Capacità che ora deve confermare e anzi rafforzare. Lo stesso vale, a parte l’inciampo iniziale, per la BCE, grazie alla quale siamo al riparo da attacchi speculativi che farebbero letteralmente venir giù tutto.

    Si è parlato tanto del Mes, che presenta la caratteristica di essere l’unico strumento pronto. Tra l’altro, se utilizzato solamente per il 2% del Pil sulle spese sanitarie, il tasso è prossimo allo zero. Ma la sola parola incute terrore pensando alla sua applicazione “estrema” in Grecia. Eppure diversi Stati fra cui Spagna, Irlanda e Portogallo ne hanno tratto largamente beneficio. L’Italia può permettersi di fare la “schizzinosa” considerato che non ha le risorse?
    Il dibattito sul MES è schizofrenico. Troppe falsità, troppa ipocrisia. Per ora si è deciso solo di dare la possibilità, a chi ne facesse richiesta, di utilizzare una nuova linea di credito per le spese sanitarie. Questo non ha niente a che vedere con il caso Grecia, la Troika e tutti gli errori della crisi precedente. Dannoso e inutile che si sia scatenato, peraltro solo in Italia, un dibattito così violento e poco oggettivo. Quando tutti i dettagli saranno chiari, si valuterà l’opportunità di utilizzarlo, meglio se con altri grandi Paesi. Di certo, se vogliamo un futuro da paese prospero e indipendente, il nostro posto è in Europa. Non possiamo continuamente metterlo in discussione. Farlo, a maggior ragione in un momento come questo, è ancor più  irresponsabile.

    Mes per Sanità, Sure per i lavoratori e Bei per le imprese. Ma il Recovery Fund è il vero piatto forte. Circa 1.500 miliardi per rimettere in piedi il malato Europa. Vedremo quanti saranno sussidi e quanti presiti, che poi questi ultimi sarebbero ulteriore debito pubblico. Per lei è un buon passo o si può fare di meglio?
    Come dicevo, per la sua entità e per il tempo record in cui ci si è arrivati, il Recovery Fund può essere un enorme passo in avanti. Poi c’è un altro aspetto, passato in sordina. L’approvazione di Sure, il fondo europeo contro la disoccupazione, rappresenta il più grande progresso nella storia dell’Europa sociale. In questo ambito siamo sempre stati frenati dai britannici, che hanno sempre posto il veto su avanzamenti significativi. In sintesi, saltano molti tabù e questo è positivo. D’altra parte, il passaggio d’epoca che viviamo crea due categorie di attori: chi torna indietro e chi si muove in avanti. L’Europa oggi è in questo secondo gruppo.

    Prima che scoppiasse l’emergenza pandemica, possiamo dire che l’Italia ancora faticava a riprendersi dalla crisi di oltre un decennio fa. Poca produttivà e crescita economica fiacca. In decenni non abbiamo mai avuto un piano di crescita di lungo periodo e fatto le riforme di cui l’Italia necessita. Più a rincorrere il consenso elettorale immediato che politiche di vera crescita. Pensiamo allo sperpero permanente e storico di denaro pubblico, baby-pensioni, nepotismo e riforme mai fatte. Non sarà ora di smetterla di dare sempre le colpe alla Germania e all’Europa?
    Basta incolpare gli altri, è una scorciatoia, un alibi per non cambiare. Sul debito dobbiamo dirci la verità. Se guardiamo al suo andamento negli ultimi cinque anni, notiamo che non siamo riusciti a ridurlo nonostante lo scudo BCE. Bisognava riparare il tetto quando c’era il sole. Ora piove e il debito sarà una ulteriore penalizzazione. Questa è una nostra responsabilità: non sono stati né Berlino né Bruxelles a chiederci, ad esempio, di introdurre una misura costosa e sbagliata come quota 100.

    Spesso l’elettorato italiano vive di tifoseria e faziosità, come nel calcio. Si approva o disapprova un’iniziativa in base al gruppo che la propone e non alla sua validità nel merito. Lei viaggia spesso per lavoro. Sono tutti “tifosi” della politca anche negli altri paesi?
    È sicuramente un fenomeno diffuso: pensiamo a Brexit, dove il dibattito si è trasformato in uno scontro tra tribù, che ha di fatto paralizzato per quasi quattro anni una delle democrazie più antiche del mondo. Come in ogni cosa, anche le tecnologie hanno lati negativi, anch’essi amplificati oggi dal momento che dipendiamo ancora di più dal digitale. Penso, ad esempio, ai social media e alla doppia minaccia posta dalle eco-chambers e dai processi di de-umanizzazione. Le prime sterilizzano il pensiero critico perché non ci espongono a idee diverse e amplificano le nostre convinzioni. Nel secondo caso, lo stare chiusi in casa e ragionare continuamente in termini di statistiche rischia di far dimenticare i drammi che si nascondono dietro ogni numero. In questa nuova fase nella quale il pericolo non è ancora alle spalle, dobbiamo evitare di cadere in questa tentazione come è già accaduto per le stragi di migranti nel mediterraneo. Non è retorica, è il dovere di rimanere ancorati ai nostri valori non negoziabili: la vita prima di tutto.

    Una cosa di cui va orgoglioso di quando è stato Presidente e una di cui si pente, o si pente di non aver fatto.
    Mare Nostrum, indiscutibilmente. Quanto agli errori, ho scritto un libro per metterli in fila. Ne scelgo uno: non aver reso operativi e sistematici strumenti contro le disuguaglianze sociali.
    Dopo la Brexit, c’è un grande vuoto di potere nell’Ue lasciato da un paese dal peso specifico altissimo. L’Italia potrà coprire questo spazio e ritagliarsi un ruolo da vero protagonista?
    L’interdipendenza di cui parlavo si riflette anche nelle dinamiche tra paesi europei. La forza dell’Italia nel promuovere i propri interessi in Europa e plasmare le decisioni comuni dipende dalla solidità e dalla credibilità delle alleanze che si riescono a formare. E le alleanze si costruiscono attraverso il dialogo e i rapporti umani tra le persone. Sbattere i pugni sul tavolo non solo è inutile,  è  dannoso perché non fa altro che isolare un paese. Saremo protagonisti se sapremo continuare ad avere la saggezza politica di coltivare alleanze strategiche, a partire da quelle con Francia e Spagna.

    Dica la verità Presidente. Ce la faremo?
    Sì, secondo me. La ricostruzione dalle macerie avverrà però solo se ci faremo forti di una identità condivisa, fondata sull’orgoglio di aver messo, come comunità, la difesa della vita al primo posto; se accetteremo la fatica di ricominciare con spirito di sacrificio, tutti insieme;  se avremo davvero il coraggio di immaginare un modello di società e di sviluppo  diverso. Identità, fatica e immaginazione: sono gli stessi tre fattori che hanno animato la ricostruzione dopo i traumi della guerra. Dallo spirito di quella fase, e dall’esempio della generazione che ne fu protagonista – la stessa purtroppo decimata  in questi mesi dal virus – dobbiamo trarre ispirazione e insegnamento.

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