Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 1969 su L’Espresso.
Dal pomeriggio di mercoledì 12 febbraio uno dei volti familiari che ogni osservatore aveva imparato a cercare e a riconoscere, all’inizio di ciascuna seduta, era scomparso dalla prima fila del palco della presidenza del 12esimo congresso comunista: il volto scuro ed accigliato di Enrico Berlinguer. L’ex capo della gioventù del Pci si era infatti ritirato nella sua stanza all’albergo Garden per scrivere la lunga relazione di chiusura dei lavori dell’assemblea bolognese. La riapparizione di Berlinguer nella sala del Palazzo dello Sport è avvenuta tre giorni più tardi, la mattina di sabato. Ed è stata qualcosa di più della pubblica conferma, da parte della base comunista, della sua designazione (già fatta, non senza difficoltà, nel dicembre scorso, dal gruppo dirigente delle Botteghe Oscure) a principale collaboratore di Luigi Longo.
L’uomo che fino a pochi giorni prima era apparso ed era stato unicamente un perfetto funzionario di partito, il pupillo ma non l’erede di Togliatti, l’esecutore preciso e taciturno (fino a meritare il soprannome di “sardo-muto”) delle direttive della segreteria, è tornato di fronte all’assemblea deciso ad affermare in pieno la sua posizione di leader del partito. L’applauso che ha accolto la fine del suo discorso (la platea in piedi per due minuti, i dirigenti stretti intorno alla sua figura sottile e ricurva) dimostra che gli 820 delegati comunisti hanno capito il senso di quanto stava avvenendo davanti ai loro occhi, hanno intuito che il Pci non aveva solo scelto un vicesegretario ed un probabile successore di Longo, ma che aveva chiuso definitivamente una fase (togliattiana e post togliattiana) della sua storia e che questo nuovo periodo aveva trovato il suo capo.
È stato lo stesso Berlinguer a sottolineare l’importanza storica del 12esimo congresso, paragonandolo al quinto (il primo dopo la Liberazione, che vide prevalere la tesi del “partito nuovo” e portò alla liquidazione di quasi tutta la vecchia guardia prefascista e clandestina) e all’ottavo (quello che seguì di poche settimane l’intervento armato sovietico in Ungheria). E mano a mano che i minuti trascorrevano assemblea ed osservatori hanno avuto modo di rendersi conto che non si trattava di un’affermazione affrettata e generica. Ciò che ha distinto il discorso di Berlinguer dalla relazione di apertura di Longo non è stato tanto la differenza di giudizio su taluni problemi concreti (che pure non è mancata, specie per quanto riguarda il governo) quanto lo sforzo che il nuovo vicesegretario comunista ha compiuto per dare un inquadramento teorico alle posizioni del Pci, per collegare i singoli aspetti, presenti e ancor più futuri, della politica comunista ad una precisa visione strategica ed ideologica. Della necessità d’insistere su tale tema, egli si è scusato con gli ascoltatori all’inizio dell’intervento. Ma evidentemente convinto dell’«importanza politica, rilevante ed attuale» di una simile ricerca in apparenza astratta, ha continuato senza incertezza sulla sua strada.
Dall’analisi di Berlinguer, l’intera dottrina ufficiale comunista, quale ci è apparsa fino ad oggi, è uscita scossa e rinnovata. In particolare su due punti, i rapporti tra il Pci e la Russia e la situazione delle forze di sinistra in Occidente, la svolta che egli ha impresso alle posizioni del suo partito è stata profonda e radicale. Sul primo tema il discorso di Berlinguer è partito, come era inevitabile, dalla Cecoslovacchia. Ha confermato la condanna per l’intervento armato sovietico, ha chiarito che esso non poteva essere considerato un «incidente» o un «errore», ha affermato che le cause di questa iniziativa andavano cercate, oltre che nelle valutazioni sbagliate di taluni uomini, «nelle contraddizioni e difficoltà oggettive del mondo socialista». Era già un grosso passo avanti, perché sinora solo Ingrao e la nuova sinistra avevano tentato un simile approfondimento. Ma da questa piattaforma il nuovo vicesegretario si è mosso ancora più avanti per chiedere, più in generale, un nuovo atteggiamento «dei comunisti italiani di fronte alle realtà dell’Unione Sovietica e dei Paesi socialisti». Modo nuovo «che si ispiri al concetto di storicità del socialismo, come di ogni altra azione politica e sociale, e alla congiunta storicità del marxismo stesso», e per aggiungere: «Una tale coscienza è sempre, in tutti i casi, la condizione prima di ogni condotta politica che non voglia essere sterile e velleitaria. Sarebbe davvero singolare che il marxismo, sorto oltre cento anni or sono come superamento di ogni visione utopistica del socialismo, proprio nel giudizio sulla realtà della società sovietica e socialista ricadesse in atteggiamenti utopistici».
Con poche parole pronunciate senza enfasi, davanti a una platea di cui certo solo una parte capiva cosa stava accadendo, era l’intera visione mitologica dell’Unione Sovietica, riassunta popolarmente nell’attesa messianica per l’arrivo di “baffone”, erano anni, anzi decenni di discussioni tese e violente su cui s’era divisa la sinistra italiana ed occidentale, che venivano improvvisamente cancellati e superati. Né Berlinguer si è fermato qui.
Declassata la rivoluzione di Ottobre a momento iniziale di una nuova epoca ed a punto di forza per tutti i movimenti democratici e progressisti, ma non più a modello per ciascuno di loro, Berlinguer ne ha tratto la conseguenza che dal «modo nuovo di collocarsi di fronte all’Urss», i comunisti dovevano ricavare «la piena autonomia» del loro partito. Autonomia non solo «organizzativa e politica», per elaborare, date le particolari circostanze e caratteristiche della situazione italiana, una via nazionale al socialismo; ma in primo luogo «piena autonomia di giudizio per ciò che riguarda la realtà dell’Unione Sovietica e dei Paesi socialisti e i singoli atti di questa politica».
«Noi distinguiamo», ha aggiunto il vicesegretario del Pci, «ciò che ci sembra positivo e ciò che ci sembra negativo e cerchiamo di cogliere l’intreccio dei vari elementi di questa realtà, le contraddizioni e le tendenze di sviluppo. Nel fare ciò, vorremmo guardarci dal far la lezione a chicchessia, a guisa di provinciali, presuntuosi e pedanti. Ma non vogliamo rinunciare al tempo stesso a dire la verità, quella che a noi sembra la verità, senza accorgimenti diplomatici. Giacché questo è nostro dovere, di fronte alla classe operaia, alle masse popolari, ai giovani, i quali vogliono sapere come stanno le cose. La fede nel socialismo si alimenta di verità, di rigore nell’indagine storica e critica. Questo è lo stadio di maturità a cui il nostro movimento è giunto». Anche qui, con una spallata priva di apparente sforzo, era un muro maestro della decennale posizione comunista che veniva improvvisamente abbattuto. Quel muro a cui, fino a poche settimane fa, si era appoggiata l’intera destra del partito, quando aveva negato la possibilità di «entrare nei problemi interni dei partiti fratelli» i quali, avendo conquistato il potere, operano in condizioni del tutto diverse dal Pci; quello stesso muro maestro che anche Giancarlo Pajetta aveva pensato di dover difendere quando, ancora pochi anni fa, affermava che tra “verità” e “rivoluzione” (cioè tradotto in termini concreti: tra verità e Urss) non aveva esitazioni a scegliere la seconda.
L’altra novità fondamentale della relazione conclusiva di Berlinguer è il modo in cui egli giudica l’attuale spinta rinnovatrice in Occidente. Nei mesi che hanno preceduto la convocazione del congresso, era stato su questo tema che più netta si era manifestata la divisione all’interno del Pci: tra chi riteneva che nel 1968 nulla di fondamentale fosse in realtà avvenuto (in primo luogo per quanto riguarda il maggio francese e il movimento studentesco) e quindi vedeva l’avanzata verso il socialismo nelle società di capitalismo sviluppato come un processo lento ed affidato ad una lotta politica di tipo tradizionale (in Italia, alla battaglia contro il centro-sinistra) e chi vedeva nell’anno chiusosi due mesi fa uno spartiacque con l’improvviso esplodere, dopo un lungo periodo di stasi e di bonaccia, di una spinta rivoluzionaria di base.
Longo, di istinto, già nella primavera si era sostanzialmente schierato con gli studenti, smentendo una larga parte del gruppo dirigente delle Botteghe Oscure. Sabato scorso Berlinguer, in quello che è forse il passo più importante di tutto il suo discorso, ha detto molto di più: «Probabilmente siamo solo agli inizi. Certo il movimento operaio e democratico dell’Europa capitalistica non ha dinanzi a sé un cammino rettilineo e facile. Tutt’altro! Ma una tale ripresa (delle lotte operaie e studentesche) sembra sgorghi da processi profondi, abbia un particolare significato e un particolare valore: per l’Europa stessa e per la funzione cui la classe operaia europea e l’Europa democratica possono assolvere nel processo rivoluzionario mondiale e, quindi, nel progresso della civiltà, colmando uno squilibrio storico apertosi, dopo la prima guerra mondiale, con la sconfitta dei movimenti operai nei Paesi capitalistici dell’Europa occidentale». Parole nelle quali è contenuta implicita, ma chiarissima, la convinzione che proprio nel 1968 un periodo storico, caratterizzato dallo scoraggiamento e dalla mancanza di iniziativa delle forze progressiste europee occidentali e quindi della loro sudditanza nel confronti dell’Urss, si è concluso, e che quello ora iniziato ha al centro il risorgere d’una spinta rinnovatrice nata autonomamente in queste società, senza riferimento (e molti giovani direbbero anche, in contrasto) con quanto avviene in Russia.
Su queste premesse era logico che la totale autonomia da Mosca, rivendicata da Berlinguer per il Pci, finisse con l’acquistare contorni precisi, s’arricchisse d’un richiamo alla superiorità ideale della tradizione socialista europea. «Pensiamo», dice infatti Berlinguer, «non solo al valore del contributo che il movimento operaio dei Paesi capitalisti più avanzati, e segnatamente dell’Europa, può dare alla lotta generale antimperialista, ma anche al contributo specifico, qualitativo che esso è chiamato a dare ad un avanzamento di tutto il movimento operaio e comunista internazionale, sia sul piano politico, sia di pari passo su quello teorico, nella direzione di una restaurazione, di uno sviluppo del marxismo». Sottolineata l’importanza del discorso di Enrico Berlinguer, la svolta che esso rappresenta rispetto alla relazione iniziale di Longo e, più in generale, nella storia del Pci, rimane da chiarire in quale sfondo esso s’inserisce. Le vicende della dinamica congressuale (la sorpresa per l’iniziale spostamento a destra del segretario generale, la necessità di reagire ad Amendola che nel suo intervento si era presentato come il vero leader della maggioranza ed il “grande elettore” dello stesso Berlinguer) non sembrano avere un peso eccessivo. Più importanza ha sicuramente avuto l’atmosfera della platea del Palazzo dello Sport bolognese. Nonostante il setacciamento delle forze più aperte e spregiudicate avvenuto nei dibattiti provinciali, tutti i segni indicavano che la composizione del 12esimo congresso era ben differente da quella di tutti i congressi precedenti. Non mancavano, naturalmente, aspetti di confusione e di tensione, e questi sentimenti si esprimevano spesso in grandi applausi ad ogni appello all’unità della “lotta anticapitalista”. Ma la loro importanza marginale era stata provata dalla freddezza, mano a mano crescente, con cui era stato accolto il discorso di Amendola, imperniato tutto sulla difesa della tradizione del partito e sulla continuità; dall’ovazione prolungata e generale che aveva invece salutato la fine del discorso di Ingrao; dall’alone di interesse e di simpatia che, al di là della divisione tra le varie tendenze, suscitavano le tesi della nuova sinistra; o infine dagli ostentati silenzi che avevano accolto le affermazioni inquietanti del russo Ponomariov e degli altri rappresentanti del blocco socialista. Gli atteggiamenti dell’assemblea comunista rivelavano insomma che qualcosa di importante era successo, qualcosa di fondamentale era mutato.
Tale mutamento si è espresso oltre che nella notevole libertà del dibattito, nell’andamento delle elezioni per il comitato centrale. Ancora a metà del congresso appariva certo che la piccola pattuglia della nuova sinistra avrebbe perduto due dei suoi quattro membri (Luigi Pintor e Massimo Caprara, mentre fuori pericolo sembravano Aldo Natoli e Rossana Rossanda). Poi, sia Longo (sul quale aveva fatto un deciso intervento Riccardo Lombardi, sconsigliando un provvedimento disciplinare che avrebbe gravemente infastidito la sinistra non comunista) sia Berlinguer avevano deciso la conferma di Pintor.
Nella seduta a porte chiuse, svoltasi venerdì sera, questa decisione aveva provocato una vivace reazione della destra (federazione campana, emiliana, ecc.). Ma ormai il segretario e il vicesegretario del Pci non erano più pronti a cambiare opinione. Inoltre, a rispecchiare lo stato d’animo prevalente nella assemblea, sono stati chiamati a far parte del comitato centrale alcuni esponenti che, sia pure in maniera più sfumata, sono vicini alle posizioni della nuova sinistra (Chiarante, Borghini, ecc.). In tal modo, da un primo calcolo approssimativo, il massimo organo dirigente del Pci, appare composto, dopo Bologna, da una maggioranza centrista di 90-100 membri, da una destra di 40-50 e da una sinistra forte, nelle sue varie sfumature, di 25-30 esponenti. Berlinguer ha saputo cogliere l’atmosfera presente nel Palazzo dello Sport di Bologna e darle un contenuto politico e un ancor più preciso inquadramento teorico. Non meno delle sue parole ha avuto importanza il tono con cui sono state pronunciate: pacato e definitivo, e per questo assolutamente nuovo. Per comprendere questo atteggiamento, non si può trascurare un elemento personale. Il vicesegretario del Pci che rivendica ai comunisti italiani uno «stadio di maturità» tale da affermare la piena autonomia dall’Urss e da impegnarsi in una «restaurazione» del marxismo è un uomo che, a quarantasette anni, non ha conosciuto le crudeli lotte interne dei primi venti anni del movimento comunista (le quali hanno invece segnato profondamente Togliatti, Longo e tutta la vecchia generazione) e che da tempo, e specie dall’agosto scorso in poi, ha alle sue spalle una storia significativa di duri scontri con i dirigenti sovietici. Un congresso è sempre un momento particolare nella vita di un partito: esige cautela nei giudizi e ancor più nelle previsioni. Bisogna ancora vedere, ad esempio, fino a che punto il nuovo vicesegretario riuscirà veramente ad affermare la propria autorità su tutto il Pci e a trasformare certe affermazioni di principio in effettiva realtà politica. Quello che, alla chiusura del congresso bolognese, appare tuttavia certo è che, con Berlinguer ed i suoi coetanei, sta arrivando alla guida del comunismo italiano una generazione per la quale l’indipendenza da Mosca è una realtà psicologica prima che una scelta politica e che sembra decisa ad affrontare con originalità, al di là degli schemi precedenti, il problema della trasformazione sociale dell’Occidente.
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