«Non ci hanno visto arrivare!». Forse, della lunga notte elettorale di domenica 26 febbraio, questa frase di Elly Schlein resterà agli atti: un ruggito di orgoglio da vincitrice che si dichiara, come Giorgia Meloni, anche lei “underdog” (cioè sottovalutata). Questo sentimento, forse – insieme al fatto di essere donna – è una delle pochissime cose che accomuna la nuova segretaria del Pd a Giorgia Meloni. L’altro è un legame “generazionale”. La Schlein ha 38 anni, e ha sempre detto di essere cresciuta nel mondo del “dopo muro”, aggiungendo in un celebre botta e risposta con Lilly Gruber: «Non posso dirmi comunista: quando è finito il comunismo non avevo ancora la licenza elementare».
I commentatori conservatori la accusano di essere “radical chic”, i giornali di destra la irridono, Laura Cesaretti su Il Giornale denuncia: «È stato un golpe, l’ha votata il M5S!», Vittorio Feltri, su Libero, scrive: «Con lei i dem, per apparire falsamente moderni predicano i concetti sdruciti del politicamente corretto, la lode degli omosessuali e delle lesbiche, i vari Ius. Sono morti!». (Sempre elegante e allusivo, come è noto).
Alle radici di un leader
Ma Elly, nel suo primo messaggio da leader cita una donna di un altro secolo, Dolores Ibarruri, “pasionaria” della guerra di Spagna: «Non passeranno». Però la Schlein è non ideologica, a-ideologica, o meglio ancora post-ideologica. Dettaglio illuminante. Al microfono di Dejan Cetnikovic – il geniale “Karaoke reporter” che fa cantare tutti i politici, e che voleva farle interpretare una canzone di Francesco De Gregori – lei chiese invece di eseguire “Occhi di gatto”. Non “l’Internazionale”, ma la sigla di un cartone animato che ha subito trasformato in un grido di battaglia di genere: «Oh Oh Oh, occhi di gatto!/ Oh Oh Oh, Occhi di gatto!/ Un altro colpo è stato fatto!». Di fronte allo stupefatto Dejan, la neo-segretaria spiega: «Questo è il vero inno del cambiamento. E io sono Sheila!» (La protagonista di “Occhi di gatto”, ndr.). Quale discontinuità più grande rispetto a Enrico Letta? A farle da corista, nell’improvvisato karaoke, c’era una sua cara amica – anche lei “anomala” – Giulia Anania, “cantautrice Indy” lontana dal mainstream. Tuttavia, tra i suoi supporter impensabili c’era anche un mostro sacro come Francesco Guccini, cantautore venerato della sinistra: «C’è un’aria nuova. Elly è una donna, ha grinta, è giovane, mi ricorda…un’altra» (ancora una volta, la Meloni). Bisogna partire dunque da questo piccolo miracolo che alla Schlein è riuscito nelle urne delle primarie, per capire se funzionerà nel Paese: tenere insieme ex sessantottini e ragazzi cresciuti con i manga, sessantenni e trentenni, i borghesi garantiti delle Ztl (che hanno votato in massa per lei) e la generazione dei precari (di cui Elly è figlia), la vittoria in tutte le grandi città con percentuali tra il 60% e il 70% (Roma, Milano, Torino, Bologna, Venezia) con la conquista di regioni come l’Emilia Romagna, ma anche la Sicilia. Ha sconfitto Stefano Bonaccini fuori casa, ma anche “in casa”.
Questo perché anche il mondo di Elly è complesso, sorprendente, come la sua biografia, e miscela la formazione eclettica con il segno forte di una famiglia intellettuale, una identità di provincia e il tocco cosmopolita. È figlia di due professori, con un nonno ebreo nato in Ucraina ed emigrato in America, un altro che è stato deputato socialista, padre della legge sul diritto familiare. Elly Schlein è cresciuta in Svizzera, in un piccolo paese vicino a Lugano, ha una madre toscana, un padre cresciuto in America e trapiantato in Europa, e il suo stesso cognome è una semplificazione dell’originario “Schleyen” corretto all’ufficio dell’anagrafe di Ellis Island per essere più orecchiabile negli states. Sui social si scrivono fantasticherie sulle ricchezze di famiglia, ma nonno Schleyen-Schlein gestiva un piccolo negozio.
“Una così nasce ogni 10 anni”
Dicono che la neosegretaria abbia vinto «senza avere in tasca la tessera del Pd». Vero, ma solo in parte. Fino all’agosto del 2022 Elly Schlein era un personaggio noto a livello nazionale solo agli addetti ai lavori. Faceva la vicepresidente dell’Emilia Romagna (ironia della sorte: la vice di Stefano Bonaccini), eletta in quota della lista “Coraggiosa”, storica casa della sinistra libertaria bolognese. Veniva da “Possibile”, scovata nel vortice dei movimenti – quando ancora portava la frangetta – da quel talent scout di Pippo Civati. Infatti, nel Pd, Elly Schlein c’era – esattamente come lui, ma con lui ne era uscita, sbattendo la porta, durante l’eta renziana. Il trauma del complotto dei 101 contro Romano Prodi aveva spinto quei ventenni del 2013 a occupare le sezioni, il jobs act l’aveva spinta ad uscire. Una scelta che forse ha pesato più di quanto non si creda nel voto delle primarie: la sua carta di identità.
Oggi Elly è tornata all’ovile dopo otto anni, e – soprattutto – dopo la candidatura con il Pd alle politiche da indipendente, grazie ad una modifica dello Statuto che ha riaperto i termini di iscrizione. «Una come lei nasce ogni dieci anni», ammonisce il suo grande (e sorprendente) sponsor, Dario Franceschini gridandomi per strada: «Vi sorprenderà!». Aveva ragione.
Ma a convincerlo è stata la moglie, Michela De Biase, quarantenne e deputata pure lei: «È l’unica che può salvare il Pd».
A settembre, intervistandola, capii subito che Elly Schlein era convinta: «Guarda – mi aveva sorriso – voi avete capito male. Io non sono la sparring partner! Io ai gazebo, vincerò!». Anche Francesco Boccia, capo della sua campagna elettorale mi sfidò in un camerino de La7. Stefano Bonaccini aveva appena vinto con 18 punti di distacco tra gli iscritti e lui scuoteva il capo: «Vuoi scommettere soldi? Cena di aragosta? Vince Elly». Il suo portavoce, Flavio Alivernini – il decisivo spin doctor era altrettanto granitico: «I segnali che ci arrivano sono potenti». Passione, entusiasmo “Schleinismo” messianico. Al comitato si erano convinti di potercela fare studiando i voti nei seggi urbani, che (tra gli iscritti), anticipavano la tendenza.
A settembre, mentre le chiedevo della sua storia, Elly mi aveva spiazzato con questa battuta: «Cominciamo dal mio naso». Voleva dire che quel naso era due cose insieme: «Prima un simbolo. E subito dopo un bersaglio. “Naso giudeo”, scrivono ossessivamente sui social contro di me. “Sei stata finanziata da Soros, e dalla grande lobby ebraica internazionale per scalare il Pd”». In una intervista a TPI aveva aggiunto una punta di amarezza: «Si è attivato un esercito di odiatori che usano il naso per ignobili sentimenti antisemiti». Ma aggiungeva: «Gli stereotipi sono sempre ingannevoli. Per quanto sia orgogliosissima del lato ebraico della mia famiglia paterna, io non sono ebrea, la trasmissione avviene per linea matrilineare, e mia madre non è ebrea». Pausa teatrale: «Il mio non è un “naso ebreo Schlein” ereditato da mio padre, come scrivono i razzisti in rete, ma tipicamente etrusco. Mi arriva, come riprodotto da una fotocopiatrice, da mia madre: un naso toscano». Mai avremmo potuto immaginare che di questa battuta si sarebbe discusso per due giorni, e che fra tanto dichiarazioni di solidarietà sarebbe arrivata persino una critica di Ruth Meneghello («Alimenta gli stereotipi che vuole combattere»). Ma era la riprova che Elly “bucava” sui media, qualsiasi cosa facesse, anche solo per la sua faccia e per le sue giacche a doppiopetto policrome, tutte con doppia fila di bottoni oro: gialle, celesti pastello e rosse. Elly era sicura di superare gli altri sfidanti al primo turno, e anche di vincere nei gazebo.
L’album di famiglia
Ma torno all’album di famiglia: «È meno complicato – dice lei – di quello che sembra. Mio nonno era di Leopoli. Ancora impero austroungarico, quando lui era nato. Poi quei territori sono diventati Polonia, oggi Ucraina». Niente ricca famiglia ebraica alle spalle: «Figurarsi! Lui si era spaccato la schiena per dare un futuro migliore ai suoi figli». Anche la sua odissea lavorativa era figlia di questa inquietudine: «All’arrivo era sarto, a New York. E poi aveva gestito un chiosco di generi alimentari vendendo caramelle e giornali. Quindi si era trasferito nel New Jersey. E – aggiungeva Elly con una nota di malinconia, purtroppo non aveva più rivisto i suoi parenti più cari». Perché? E lei: «Tutti sterminati dai nazisti dopo le leggi razziali». Una vicenda che ha segnato molto Elly: lei e suo padre, nel 2018, erano andati in Polonia a cercare i sopravvissuti “Schleyen”, letteralmente con le foto in mano, come in un bel un romanzo di Jonathan Safran Froer, “Ogni cosa è illuminata”. Non avevano più trovato nessuno.
Il figlio del sarto-droghiere, il padre di Elly, cresciuto in America, diventa professore e dopo la laurea torna in Europa. Studia in Austria, Germania e Italia. «Poi, negli anni Settanta, ad un convegno sul federalismo, pensa! – mi ha raccontato la Schlein – conosce mia madre, Paola Viviani, insegnante a Milano».
Per questa via, dal lato materno, Elly Schlein ha un nonno che è stato un senatore, socialista, antifascista. Ha fatto in tempo a conoscerlo, Agostino Viviani, da bambina: «Lo ricordo, monumentale, affettuoso ma severo». È morto a 98 anni, quando lei aveva otto anni, e non dimenticherà mai un suo regalo solenne: «Tieni! Questa è una copia della nostra Costituzione, rilegata, e questi sono i quattro codici commentati. Gli strumenti che rendono libero ogni cittadino». Dialogo fantastico tra un avvocato che aveva fatto del diritto la sua religione e una bambina che non avrebbe mai giocato con le bambole: «Mi portavano da lui, una volta a settimana, e io mi ritrovavo tra le macchine da scrivere, i timbri, i libri in pelle rilegata».
Regista di se stessa
Anche dall’accento di Elly Schein si può ricostruire la sua personalità: «Nessuno ascoltandomi capisce mai di dove io sia». Spiegazione: «Sono nata e cresciuta in un paesino vicino a Lugano, lì ho fatto le mie scuole elementari, medie e superiori, con l’esperienza bellissima della pluralità e del multiculturalismo nelle classi miste del canton Ticino».
E ancora: «In quegli anni ho capito sulla mia pelle che siamo tutti “meridionali di qualcuno”. In Svizzera ero comunque percepita come “italiana”, una serie B rispetto ai ticinesi doc. Mi capitava così di parlare a scuola con l’accento ticinese e a casa con quello toscano di mia madre, nel tentativo di sentirmi più inclusa. Dopodiché – ride – visto che vivo in Emilia Romagna dal 2004, ogni tanto mi capita di prendere la cadenza emiliano-romagnola».
A Elly Schlein non piace essere definita “secchiona”, ma poi racconta la sua carriera scolastica così: «In Svizzera ho preso il massimo dei voti in tutte le materie, tranne ginnastica. La media del sei, in quell’istituto, non si vedeva da parecchio tempo». Elly ha due fratelli, entrambi fuoriclasse, nei loro rispettivi campi: la sorella Susanna oggi è una diplomatica (nota alle cronache per aver subito un attentato all’estero nel 2022). Il fratello Benjamin – il più intellettuale dei tre – insegna fisica.
Oggi Elly confessa: «Ero una aspirante regista, per questo mi iscrivo al Dams». Il bello è che non ci ha ancora rinunciato: «Continuerò ad aspirare alla regia per tutta la vita. Volevo emulare i grandi classici italiani come Monicelli. amavo Quentin Tarantino, impazzivo per Kim Ki Duk». Ma alla sospirata laurea al Dams non è arrivata mai: «Alla fine ho ripiegato su giurisprudenza. Però vado tutti gli anni al festival di Locarno» (dove è stata persino in giuria). Aggiunge: «Ho fatto l’assistente alla regia in un piccolo film che si intitola “Anja la Nave”, sull’emigrazione degli albanesi».
Buffo che una appena eletta leader mediti già di abbandonare in futuro. Ma in questo Elly ha qualcosa dei grillini prima maniera: «Ho un contratto a termine con la politica: prima o poi ritornerò al mio amato cinema». Ma perché, allora, laurearsi in giurisprudenza? Mi ha risposto così: «Mio nonno era avvocato, mia madre insegna diritto, e io ho sempre avuto questa idea che ballava intorno a me: usare la legge per battersi contro le ingiustizie».
Un’idea comune
La passione della Schlein per i migranti ha segnato “le” sue tesi: due. Una in Diritto costituzionale sulla criminalizzazione degli stranieri. E una sulla “sovra-rappresentazione dei migranti nelle carceri”. Entrambe 110 e lode. «Ebbene sì, in effetti un po’ secchiona lo sono. Studio all’ultimo, sono poco disciplinata, con l’ansia di essere impreparata».
Ma una delle esperienze politiche più importanti, nella storia di Elly Schlein, è tornata utile nella sfida con Bonaccini. Quella da volontaria nella prima campagna di Obama (nel 2008, a Chicago nella sua città). E nel 2012, quattro anni dopo. «La prima: una esperienza pionieristica. Mi è rimasto impresso lo sforzo titanico di Obama di trasmettere agli americani una visione di Paese che tenesse dentro tutto». Segue spiegazione plastica: «Avevo al mio fianco pensionate nere a fare chiamate, insieme a ragazzini del liceo che si battevano per non indebitarsi tutta la vita per poter studiare. Mai si sarebbero trovate vicine, quelle persone, se non per Obama. E per lo stesso motivo, in quel comitato, trovavi tutto il mondo! La comunità Lgbt, le comunità ispaniche, i portoghesi, gli asiatici…».
E con questo stesso spirito torna quattro anni dopo: «Era cambiato tutto. Nel 2008 in una specie di scantinato facevamo telefonate con elenchi cartacei. Ma nel 2012 era una macchina del tempo: avevamo meccanismi automatizzati e programmi per le telefonate, cento al minuto! Feci qualsiasi cosa: il porta a porta e il car pooling dall’Illinois all’Ohio». Ed ecco la lezione di Obama per le primarie italiane: «Quando si vince non c’è mai un leader solitario: ma una nuova comunità che spinge una idea comune».
La Schlein torna in Italia, si butta nella politica: «Faccio la campagna della coalizione di Vendola e Bersani. Era il 2013, l’anno del complotto dei 101: per una reazione quasi rabbiosa a quello sfregio contro Prodi occupai le sezioni del Pd con Pippo Civati». Un gesto che, quando si è candidata le hanno rimproverato in molti. Risposta della Schlein: «Non si capisce occupy Pd se non si spiega che avveniva, subito dopo quel killeraggio. Tre delitti, pur di assicurare la tranquillità delle larghe intese. La leadership di Bersani, la candidatura Prodi e il centrosinistra in quella legislatura. Ci chiamavano irresponsabili: ma avevamo ragione».
Nel Congresso del Pd in cui si sfidano Renzi, Cuperlo e Civati, la giovane ribelle sostiene Pippo, con cui si era creato un sodalizio politico: «Volevano una autoriforma del Pd, l’unica alternativa possibile alla stagione renziana».
In quel clima che Elly Schlein abbandona il cinema per diventare eurodeputata: «I ragazzi di Occupy Pd mi avevano chiesto di candidarmi. Non avevo un euro. Non avevo speranze ma…. Mi ci buttai dentro, con tutta me stessa. Grazie alle preferenze, sfatando ogni pronostico, venni eletta».
Come era riuscita a competere con candidati che erano supportati da correnti e apparati? Di nuovo il noto orgoglio “secchione”. Sorriso: «Immodestamente sono una macchina. Ho fatto viaggi a tappeto in giro per il Paese. Durante le primarie ho fissato strani record a cui tengo: cinque iniziative in cinque regioni in due giorni». Dopo l’elezione, Elly lascia il Pd, è il 2015: «Scelta dolorosa. Imposta dal mio disagio per Renzi: mi era impossibile difendere jobs act, Buona scuola, referendum. Usciamo dal partito e fondiamo Possibile».
A Bruxelles Elly Schlein matura un’altra esperienza decisiva: «Mi occupavo, in commissione, del contrasto all’evasione delle multinazionali. Mi piace una immagine a cui mi sono affezionata: in Europa abbiamo paradisi fiscali senza palme. I grandi gruppi con schemi elusivi perfettamente legali, sottraggono ricchezza ai poveri».
Ancora oggi, dice, è una grande battaglia di equità: «Sono soldi sottratti all’istruzione, a sanità, pensioni, infrastrutture, investimenti sul futuro: 800 miliardi di euro persi».
Un’onda crescente
Un giorno Elly arriva a inseguire Matteo Salvini in stile Gabibbo, in un celebre video, per la revisione del trattato di Dublino: «Ero relatrice del gruppo socialista. E li ho smascherati: in ben 22 riunioni negoziali, la Lega non ha mai partecipato a una sola seduta». Questo Elly gridava a Matteo: «Lui era sorpreso, guardava in silenzio il telefonino. Cercava risposte su Google. I leghisti sono così: forti con i deboli e deboli con i forti». Riflessione: «Non vogliono cambiare Dublino». Un tema che ha recuperato anche la notte delle primarie, dopo il drammatico naufragio di Cutro: «Su questo daremo battaglia ogni giorno». Elly è convinta che i migranti non siano un punto di forza ma di debolezza della destra: «Hanno paura di Orbán. Il bluff di un sovranista finisce quando incontra un altro sovranista».
Ed ecco come Elly Schlein ha vissuto le primarie: «Durante la mia campagna ho sentito un’onda crescere. Non mi interessava contendere alle correnti un po’ di consensi, ma vincere portando a votare un pezzo di società che non c’era più». Ed è questo quello che oggi la neo-segretaria vuole ripetere a livello nazionale. Anzi, è più ambiziosa: «Questa è una sfida per costruire una nuova sinistra nel mondo. Noi oggi siamo divisi, mentre i conservatori sembrano avere una visione condivisa. Noi stiamo subendo l’internazionalismo dei nazionalisti, è un paradosso. Però Le Pen, Farage, Trump, Salvini, Meloni e Bolsonaro, anche se parlano la stessa lingua hanno interessi confliggenti». E i progressisti, le chiedo, hanno interessi comuni? «Non stiamo facendo abbastanza. Penso al congedo paritario per tre mesi, appena approvato in Spagna, pienamente retribuito, per entrambi i genitori. Noi non ne abbiamo neanche discusso. O alla riforma del lavoro anti-precarietà, di Sanchez. Era giusto combattere il jobs act. Renzi ha liberalizzato i contratti a termine, ma finiti gli incentivi, malgrado il blocco dei licenziamenti della pandemia si sono continuati a perdere posti di lavoro. A me – aggiunge la Schlein – interessa soprattutto dove: giovani, donne e sud, che dopo il jobs act, hanno i contratti più precari». Ed ecco ciò che le sta più a cuore: «Limitare i contratti a termine. Favorire assunzioni a tempo indeterminato. Stabilizzare i precari e allargare le garanzie. Imporre il salario minimo, tema su cui tutte le opposizioni sono unite. Tutte le altre ricette sono fallite».
La sua generazione: «Se entri precario nel mondo del lavoro, e ci resti, resti da precario. Ed ecco perché gli italiani emigrano. La fuga dei cervelli non è il problema di una élite, ma di una generazione. Questa destra è così ossessionata dall’immigrazione degli altri che non vede l’emigrazione dei suoi figli».
Il Pd di Elly Schlein sarà più facilmente alleato dei Cinque stelle, che se avesse vinto Bonaccini: «La sinistra unita è più forte». E poi l’opposizione: «La destra ha un’analisi vecchia della società: non parla di precariato e sembra che non veda il lavoro povero. Sono partiti con la parola d’ordine di azzerare il reddito di cittadinanza, e invece sono in difficoltà perché non hanno consenso al loro interno nemmeno su questo». La Schlein ha il pallino «dell’equivalenza sociale e ambientale», parte dall’idea che questa battaglia sia un tema di attualità: «Dobbiamo dire un no forte alla liberalizzazione delle trivelle, ribellarci al ricatto dell’emergenza energetica». Di più: «Ci sono italiani che non riescono a pagare il riscaldamento. Sono in cima ai miei pensieri. La somma di crisi energetica e pandemica ha creato un esercito di nuovi poveri che ha un reddito – conclude – ma non riesce a garantirsi cibo, alloggio e servizi. Io riparto da qui».
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