“Sa chi sono quelli più incazzati con la sinistra? I dipendenti pubblici entrati con la raccomandazione. È paradossale ma è così: più sono raccomandati, e qui ci sono intere famiglie entrate nell’amministrazione pubblica tramite raccomandazioni negli ultimi 30-40 anni, più sono avvelenati. È un fenomeno sociologico, da studiare”.
Stefano Zuccherini è un ex senatore di Rifondazione Comunista. Operaio, partito dal sindacalismo, ha vissuto in prima persona il funzionamento della politica umbra anche in qualità di consigliere regionale.
Ora è in pensione ed è presidente del circolo Arci di Ponte d’Oddi, periferia nord-ovest di Perugia. Le sue parole affrontano un argomento che risuona ovunque ci si muova nella regione.
Che il tuo interlocutore sia un politico, un medico, un rappresentante di un’associazione, un semplice cittadino, sarà impossibile durante la conversazione non sentir pronunciare il termine “clientelismo”.
Nell’Umbria che si prepara ad affrontare, il prossimo 27 ottobre, le elezioni regionali più importanti di sempre, primo banco di prova dell’alleanza PD-M5S e di conseguenza decisive anche per gli equilibri politici nazionali, ciò che risulta più complesso è fare i conti con un sistema che nessuno rivendica con orgoglio ma che nessuno è pronto a rinnegare del tutto.
Un sistema costruito in 70 anni di amministrazioni pubbliche, ormai giunto al capolinea, ma che illustra meglio di ogni altra cosa ciò che è davvero in ballo nella sfida tra l’imprenditore Vincenzo Bianconi, candidato civico scelto da dem e penstastellati, e Donatella Tesei, ex sindaca leghista di Montefalco a capo dello schieramento salviniano.
“Anche il senatore Zuccherini aveva una figlia che poteva piazzare”, ci dice un socio del circolo Arci. “Del resto, lo facevano tutti, ma lui ha preferito lasciar perdere”.
“Mia figlia invece – continua – è dovuta andare in un’ospedale di Ancona. Perché? In Umbria senza raccomandazione non entravi”.
Clientelismo o welfare?
Che il clientelismo sia una pratica diffusa capillarmente (e in maniera sostanzialmente “democratica”) sul territorio italiano è cosa abbastanza nota. Che sia per certi versi a-partitico, o meglio pan-partitico, anche, perché è difficile trovare forze politiche che nel corso della storia si siano sottratte a questo meccanismo di costruzione del consenso.
Qui però siamo in Umbria, ed è inevitabile che la raccomandazione del politico di turno venga istintivamente colorata di rosso. Per ragioni storiche, molto più che legate all’attualità. Se, però, la giunta in carica è caduta in anticipo a causa di un maxi scandalo nella Sanità, con il PD locale commissariato, un ex segretario arrestato e una ex presidente di Regione indagata, ecco che certi nodi storici tornano dolorosamente al pettine.
Chi ieri traeva vantaggio da quel sistema, che gli aveva permesso magari di sistemare mezza famiglia, oggi lo biasima. Chi lo accettava per inerzia, oggi ha capito che senza un nuovo modello di sviluppo la regione è desinata al collasso.
“Così han sempre fatto tutti” è il motto che sentiamo più di frequente parlando con la gente di Perugia. “L’unica differenza – ci dice un piccolo commerciante del centro – è che ora è scoppiato questo scandalo nella Sanità. Ma il meccanismo è sempre stato quello, da decenni, e in qualsiasi ambito del settore pubblico”.
“Si trattava di welfare, più che di clientelismo – spiega ancora l’ex senatore Zuccherini – c’era l’idea per cui la politica servisse ad aiutare le persone in difficoltà. Attraverso la politica, in altri termini, si sosteneva l’occupazione, che però non riguardava solo gli iscritti a determinati partiti, riguardava le condizioni sociali della popolazione tutta”.
Sia come sia, era un modello che poteva essere finanziato con risorse economiche che oggi non esistono più. Ma se la torta si è ristretta, chi era abituato a bussare ai palazzi della politica continua a farlo come un tempo. Di fronte all’impossibilità di soddisfare certe richieste come in passato, la rabbia monta. I posti una volta garantiti per sé non sono più garantiti oggi per i propri figli, ed ecco che la rivolta dei raccomandati si compie.
“In Regione bandi spesso blindati”: la testimonianza di un ex funzionario
Una prima significativa testimonianza in questo senso ci arriva da un ex funzionario della Regione ora in pensione, che sceglie di rimanere anonimo e che qui chiameremo A. M.
“Mi è capitato più di una volta, nel corso della mia esperienza quasi trentennale nella pubblica amministrazione umbra, di assistere a bandi pubblici di concorso blindatissimi. Erano in certi casi posizioni di studio e ricerca che afferivano a fondi europei. Progetti ben pagati, ma che vincevano sempre i raccomandati. Poteva capitare che le persone designate dall’inizio per vincere quel bando dovessero terminare un ciclo di studi, ad esempio un dottorato, e che quindi il bando stesso venisse ritardato di un anno per ‘aspettarle'”.
“Più in generale – continua A. M. – tra gli anni Settanta e Novanta la Regione ingrossò le proprie fila di dipendenti pubblici in modo abnorme. In quegli anni furono messi dentro tutti: non c’era una famiglia che non avesse un proprio membro (ma spesso anche 2 o 3) nella pubblica amministrazione. Era un sistema che accontentava tutti i partiti, anche le minoranze, che avevano la loro ‘quota’ di posti”.
“Negli anni Novanta, ad esempio, furono assunti centinaia di consulenti, poi stabilizzati in seguito. Ci furono infornate tali da rendere l’organico regionale composto da circa 2.500 persone, su una popolazione di 800mila abitanti. In alcuni casi c’erano talmente tanti impiegati che era difficile trovare delle mansioni da svolgere durante la giornata”.
“Col tempo però – spiega A. M. – lo scenario si è ribaltato. Ora le risorse sono poche, l’organico regionale negli anni si è molto ridotto e il problema è diventato quello opposto. C’è carenza di personale, gli impiegati hanno fin troppo lavoro da dover sbrigare e a volte non ce la fanno”.
Si tratta, appunto, di quel cambio di paradigma che descrivevamo, con la spesa pubblica che per ragioni di necessità si contrae e il vecchio sistema che non ha più le risorse per restare in piedi. Con richieste dal basso, però, che spesso restano le stesse, come se vivessimo ancora nel secolo scorso.
Quelle commistioni pericolose tra politica e sanità
Lo scandalo che ha decapitato la giunta Marini e ha portato l’Umbria a elezioni anticipate, come è noto, ha a che fare con la sanità. I dati del ministero della Salute parlano di una regione che garantisce buoni livelli di prestazioni mediche.
I Lea (livelli essenziali di assistenza), secondo la sperimentazione avviata dal ministero vengono garantiti in Italia da appena otto regioni: tra queste, appunto, c’è l’Umbria (al settimo posto), che ha quindi superato il test, in particolare per quanto riguarda la prevenzione (terzo posto in Italia) e l’assistenza ospedaliera (settimo posto). Meno bene sul versante dell’assistenza distrettuale (undicesimo posto), ma il quadro nel complesso può dirsi positivo.
La vicenda Sanitopoli, però, non poteva non avere effetti sul modo in cui il sistema viene percepito dai cittadini. Nel nostro viaggio raccogliamo una testimonianza forte, quella di un padre al cui figlio, affetto da un banalissimo disturbo, è stata diagnosticata una grave patologia, in realtà inesistente. Per tutelare il bambino, il testimone preferisce non rivelare la propria identità né la specifica patologia che era stata diagnosticata al figlio.
“È avvenuto in una struttura sanitaria dell’Umbria – ci spiega – Quando abbiamo iniziato a sospettare sulla validità della diagnosi ci siamo rivolti all’ospedale di un’altra regione. Lì ci hanno detto che non c’era nemmeno l’ombra della patologia che era stata diagnosticata a nostro figlio. Per fortuna questa seconda diagnosi ci ha permesso di cambiare in tempo il corso delle cure”.
“Resta il fatto – aggiunge con amarezza – che quei medici hanno fatto passare un inferno a me e alla mia famiglia. Da quanto so, ci sono altre segnalazioni analoghe pervenute a medici legali della regione”.
Decidiamo di seguire questa traccia e contattiamo alcuni medici legali dell’Umbria. Uno di questi, il dottor Walter Patumi, ci spiega di aver ricevuto nel corso del tempo molte segnalazioni di diagnosi sbagliate (“ma accade ovunque, non solo in Umbria”, precisa) ma non riferite alla patologia riferitaci dal nostro testimone (e che, come detto, non specificheremo per tutelare il bambino).
“Quella patologia – ci spiega Patumi provando a contestualizzare il caso che gli presentiamo – purtroppo oggi è diventata un minestrone in cui vengono messe alcune malattie che non si riescono a classificare. Non ci sono dei parametri fissi e oggettivi in grado di identificarla, e questo dà luogo in diversi casi a diagnosi errate”.
“Queste diagnosi – aggiunge – a volte vengono fatte per incompetenza, altre volte per un sentimento di falso pietismo. La patologia viene diagnosticata, ad esempio, a bambini figli di extracomunitari che non parlano l’italiano, così che possano avere un’insegnante di sostegno a cui non avrebbero diritto se il medico attestasse una normale difficoltà ad integrarsi, non dipendente da specifiche patologie”.
Poi, però, si riaffaccia lo spettro del clientelismo: “Non credo che il problema delle diagnosi sbagliate sia più accentuato qui in Umbria rispetto ad altre regioni. Ci sono però altri problemi gravi. Lo scandalo Sanitopoli evidenzia un malcostume presente ovunque in Italia, e che ha a che fare con la commistione tra sanità e politica”.
Torna il tema, già segnalato da altri interlocutori, della “malleabilità” delle persone che occupano posti di rilievo: “Io esercitavo qui in Umbria già ai tempi del Partito Comunista. Ci sono stati anni in cui il sistema aveva ancora una sua tenuta morale. Le cito il caso di un chirurgo, Ugo Mercati, nominato primario per le sue indiscutibili capacità. Al tempo aveva adottato provvedimenti che definirei ‘fascisti’, come quello di mettere a pagamento le camere al sesto piano dell’ospedale Silvestrini. Poiché, però, anche i membri del PCI si facevano operare da lui, personaggio giustamente stimato da tutti, nessuno fiatava”.
“A un certo punto però il meccanismo si è rotto: altri medici dopo Mercati sono stati scelti perché dovevano obbedire al politico di turno. E fra i potenziali raccomandati, spesso veniva scelto il più scemo, proprio perché più manovrabile dalla politica”.
“Tutto questo ha generato un livello complessivo di prestazioni sanitarie tutt’altro che rassicurante. Se devo far operare un ragazzo di appendicite qui in Umbria, spesso devo fare lo slalom tra i colleghi per trovarne uno affidabile. Si tratta di un problema non solo collegato, ma strettamente dipendente dal clientelismo. Per riassumere la situazione si può dire che quando un primario è bravo e se lo litigano, va nel posto dove sta meglio. Quando un primario non lo vuole nessuno, va a Perugia”.
Un quadro diverso della situazione, sebbene non privo di criticità, ci viene fornito da Lucio Patoia, primario dell’ospedale di Foligno che contattiamo per analizzare le principali problematiche della sanità umbra.
“Dal punto di vista professionale la regione ha avuto picchi di eccellenza. Non vedo problemi quanto a competenze, né in tema di spesa sanitaria regionale, che nel corso degli anni si è mantenuta costante. Lo stesso non si può dire di altre regioni, e questo è un punto a favore dell’Umbria”.
“Questo non vuol dire però che vada tutto bene – precisa – Ci sono problemi che la prossima giunta regionale, di qualsiasi colore politico sia, sarà chiamata ad affrontare, primo fra tutti quello della carenza di medici, un’enorme criticità che va risolta al più presto. C’è poi il tema delle liste di attesa, che vanno accorciate e soprattutto ricalibrate a seconda delle patologie. Per un problema al menisco posso anche aspettare qualche mese, ma per una mammografia decisamente no”.
Patoia, nella sua carriera, oltre all’aspetto clinico si è occupato di gestione e allocazione di risorse economiche in relazione ai farmaci e alle apparecchiature degli ospedali: come spendere i soldi, cosa acquistare, come gestire un budget.
Anche per questo è persona particolarmente indicata per spiegare perché, a volte, in Umbria i soldi che pure ci sono non vengono spesi in maniera adeguata. Ed è qui che la politica fa di nuovo capolino.
“Un problema della regione – spiega – è che vengono mantenute in piedi delle strutture carenti dal punto di vista tecnico e organizzativo. Bisogna chiedersi ad esempio: ha senso mantenere 13 ospedali, non tutti in grado di assicurare prestazioni adeguate? Non credo che qualcuno di noi prenderebbe un taxi privo delle cinture di sicurezza”.
Ma perché non avviene un efficientamento delle strutture cliniche, una riorganizzazione che permetta di fondere alcune realtà e risparmiare risorse? “Ci sono miei colleghi che hanno proposto loro stessi un ridimensionamento delle strutture in cui lavorano – chiarisce Patoia – Quando, però, si tratta di chiudere un punto nascita, o un piccolo ospedale, scendono subito in campo le Pro Loco e i sindaci, e si scatena una rivolta popolare. Succede con i sindaci di destra come con quelli di sinistra, il colore politico non fa alcuna differenza”.
“Il motivo? In primo luogo identitario: si pensa che tenere in piedi quella struttura, anche se non ha sufficienti standard di sicurezza, nobiliti in qualche modo la città. Poi c’è l’indotto economico: se chiudo il piccolo ospedale o il punto nascita, ne risente ad esempio il barista che ha il suo locale lì nei pressi della struttura. Infine c’è chi vuole avere l’ospedale sotto casa: sia i pazienti, sia i medici che preferiscono non spostarsi per andare a lavorare”.
“Il problema generale, in ogni caso, è che la politica non è in grado di fare scelte coraggiose, magari impopolari, e preferisce inseguire il consenso facile dei cittadini. Tenendo in piedi strutture che non servono o che funzionano male, non si hanno però le risorse per assumere nuovi medici. Si dà peso agli aspetti politici e non a quelli tecnico-scientifici, la spesa diventa improduttiva e il sistema si inceppa”.
“Se ci fossero le risorse per avere gli ospedali sotto casa e per fare tutto – conclude – io sarei la persona più felice del mondo. Ma quelle risorse non ci sono”.
Cosa c’è in gioco alle elezioni del 27 ottobre: un nuovo modello di sviluppo per l’Umbria
La coalizione civica formata da PD e Movimento Cinque Stelle attorno all’imprenditore Vincenzo Bianconi è un’operazione che in Umbria tanti elettori di sinistra valutano come necessaria, l’unica vera opzione disponibile. Per fermare l’assalto leghista, certo, ma anche come forma di repulisti storico e politico che, attorno al civismo, saldi il progetto di un modello di sviluppo diverso rispetto a quello che ha segnato 70 anni di storia regionale.
Che lo si nobiliti come welfare o che vi si veda dietro la voracità della politica, quel che è certo è che, venendo meno i soldi, quel modello ha finito per scontentare tutti. È scontento chi si è sentito fuori dal giro dei garantiti, e che ha visto nella politica locale un potere opaco che gli ha sbarrato la strada. Ma è scontento, come detto, anche chi ha creduto che l’essere garantiti dal potere pubblico fosse un diritto inalienabile.
A un comizio di Salvini a Bastia Umbra incontriamo alcuni militanti leghisti. Per quanto si provi a sollecitarli anche su altri temi, il ritornello alla fine è sempre lo stesso: “Ci sono stati professori a Perugia che avevano vinto concorsi, ma che venivano da altre parti d’Italia e non avevano agganci politici: non hanno preso il posto, li hanno sbattuti a nelle Marche, in Emilia-Romagna o altrove”, ci dice uno di loro, Bruno, un militante di Todi.
“A Terni fior di professori sono andati via perché la politica era anche dentro al water dello scarico del bagno. È una mentalità generazionale, quella che ci ha corroso, la mentalità di quello che vuole trovare il posto fisso e non fare un cazzo, e chiede alla politica di soddisfare questo bisogno”.
Andrea, altro attivista di Bastia con un passato a sinistra e un presente salviniano, sostiene che “un ricambio è necessario, troppi meccanismi si sono incrostati con una classe dirigente che è stata al potere troppo a lungo”.
La destra, a dire il vero, ha iniziato da qualche anno a governare in diversi comuni, tra cui proprio Perugia e Terni. E se, una volta al governo regionale, dovesse replicare il modus operandi che viene imputato al ceto politico di sinistra?
“Siamo tutt’altro che sicuri che le cose cambierebbero”, ammette candidamente un gruppetto di persone che ha assistito al comizio di Salvini a Bastia. “È un rischio, ma bisogna provare. Se va male, resta solo la rivoluzione”.
Il “così fan tutti”, col quale il dirigismo umbro come modello politico viene derubricato da molti a vizio endemico (e in parte scusabile) che affligge tutta Italia, non ha comunque la possibilità di sopravvivere a un ciclo economico che lo ha condannato al fallimento, all’inattualità.
La sfida non tanto del 27 ottobre, quanto dei successivi cinque anni, si gioca soprattutto su questo, sulla capacità di chi vincerà le elezioni (chiunque sia) di saper proiettare l’Umbria nel futuro, di farla competere nel capitalismo del terzo millennio e post crisi economica.
Da ciò che si saprà costruire sulle ceneri dell’assistenzialismo si gioca il destino di una regione in cui ad essere ingombrante ormai non è più il potere pubblico, quanto piuttosto i fantasmi che non smette di evocare.