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    La notte in cui è morto il M5S (di Giulio Gambino)

    Illustrazione: Emanuele Fucecchi

    Il Movimento Cinque Stelle deve cambiare leader e le elezioni in Umbria lo dimostrano. L'editoriale del direttore di TPI Giulio Gambino

    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 28 Ott. 2019 alle 17:34 Aggiornato il 28 Ott. 2019 alle 19:14

    Le elezioni in Umbria e la sconfitta del M5S

    Potete girarla come volete la fotografia scattata alle 23:01 di domenica 27 ottobre 2019. Il risultato è sempre lo stesso: Matteo Salvini e Giorgia Meloni asfaltano tutto e tutti. Trionfano sul Pd e sul M5S, anche quando questi corrono insieme. Uniti.

    Quote bulgare come non se ne vedevano da tempo, un’affluenza mostruosamente alta (64,4 per cento, 9 punti in più rispetto al 2015) per un’elezione regionale dal fortissimo valore politico nazionale. Trasformata in un referendum il cui quesito recitava: volete l’inciucio e i poltronari affezionati al Palazzo (leggi élite) o chi davvero è vicino alla gente e “fa cose” per essa (leggi popolo). Ovvero PD-M5S vs Centrodestra. Meglio: contro Salvini.

    Sia chiaro, perché è così, che la scelta di Salvini dello scorso agosto post-Papeete e con qualche mojito di troppo è stata scellerata. Aveva il paese in mano e se lo è fatto fregare in tre notti di metà agosto. Ha fatto tutto da solo.

    Lo davano per spacciato, “provato”, fortemente ridimensionato. Quasi tre mesi di punizione ed ecco là che rispunta più forte di prima, quasi non fosse cambiato nulla. Perché in effetti è proprio così: non è cambiato assolutamente nulla.

    Politica di palazzo e politica sul campo. Una partita parallela: la prima ha fatto sì che ad agosto cambiasse il governo e si instaurasse questa bizzarra alleanza PD-M5S; la seconda ha continuato a coltivare il suo seme in Matteo Salvini premier. Tre parole magiche che, finché ciò non accadrà davvero (Salvini presidente del consiglio), il consenso del leader leghista non farà che aumentare. Per una banale legge della fisica-politica.

    Uno smottamento, questo tra paese di palazzo e paese reale, che ha servito il suo conto in maniera spietata proprio durante la notte elettorale umbra, in un weekend di fine ottobre. Clamorosa la vittoria della coalizione del centrodestra in una regione storicamente rossa.

    Venti e passa i punti di distacco sugli avversari del PD-M5S, un’alleanza-misto fritto come non si vedeva da tempo, con un candidato apolitico che ha tentato di sfidare quanto di più polarizzante, e quindi politico, oggi ci sia; un imprenditore con presunti conflitti di interessi divorato, ancor prima di partecipare, dallo scontro ideologico élite vs popolo oggi ben più forte di destra e sinistra; un candidato che non ha niente del PD e molto dei 5S, specie in quanto a improvvisazione, un’accozzaglia di cui forse si sarebbe fatto volentieri a meno.

    Del resto, c’era da aspettarselo: nella regione colpita dallo scandalo concorsopoli in Sanità (che ha costretto Catiuscia Marini, la ex presidente della regione Umbria, quota PD, a dimettersi anticipatamente rispetto alla fine del suo mandato, prevista per il 2020) il sistema welfare di una regione virtuosa fondata su accoglienza e servizi pubblici efficaci è crollato, lasciando spazio alle paure e ai timori di una società che antropologicamente sta cambiando molto, e persino virando verso destra, come ha spiegato Stefano Mentana nel nostro speciale sulle elezioni in Umbria andato in onda su TPI ieri notte.

    Seme, quello conservatore, che germoglia da anni in tutto il centro Italia devastato dai terremoti degli ultimi 10 anni, a cui nessun governo, di alcun colore politico, ha saputo rispondere con adeguata fermezza, né per quel che riguarda la fase prevenzione e la messa in sicurezza del territorio, né per quanto riguarda la fase post-sisma e la ricostruzione. Tutto fermo, tutto tace. I cittadini riflettono. E poi votano.

    Ma non solo: come anche altre regioni italiane, l’Umbria ha subito in questi anni un grosso contraccolpo dalla globalizzazione: intere attività commerciali medio piccole e altre realtà imprenditoriali spazzate via completamente da un mondo di grandi (vale per i supermercati e per le botteghe). E così perde la sua anima, il suo folklore, la sua unicità. Lo ha chiamato effetto Ohio, Roberto Bertoni, nella nostra diretta no-stop di ieri notte.

    Ma non è vero che siamo al Day 0 di una nuova era politica, alla prima partita di un campionato appena iniziato. Il campionato di cui stiamo parlando, quello a cui abbiamo assistito ieri notte, è iniziato il giorno dopo le politiche del 4 marzo 2018. Oltre un anno e mezzo fa. Salvini ha scalato in 20 mesi quasi 20 punti di consenso, passando dal 17 al 37 per cento. Una cavalcata impressionante. Insieme alla Meloni di Fratelli d’Italia, che supera il 10 per cento, e senza considerare nemmeno Berlusconi, i due insieme sono quasi al 50 per cento (ieri in Umbria la coalizione del centrodestra unito ha ottenuto quasi il 60 per cento!).

    Il PD non perviene da anni nel senso che non solo è spaccato dentro, di natura, ma non ha uomini che dettano l’agenda in grado di dare voce alle istanze della popolazione italiana: un partito seriamente troppo distante per capire come funzioni oggi il mondo. I dem sono indietro di 10 anni. Chi indietro non è, almeno anagraficamente parlando, ma lo è invece terribilmente in termini di elettorato è il M5S. Un partito che passa dal 32 per cento del 2018 a meno del 10 per cento (!) in un anno e mezzo non è un movimento politico destinato a durare. Le elezioni locali non sono mai state il punto forte dei pentastellati (per tutte le elezioni amministrative ha dovuto allearsi perché non abbastanza radicato sul territorio con una struttura da partito tradizionale) ma l’impressione è che siano in una eterna rincorsa (con il fiato molto corto) a tentarne una più del diavolo per rimanere aggrappati al potere, quasi fossero convinti non potesse tornargli mai più indietro.

    Ma è anche una sciocca sfida personal-politica quella di Di Maio e dei 5s contro l’ex alleato Salvini, e infatti pur di batterlo si alleano con il partito che più hanno insultato per anni, quello per le cui mancanze e incapacità sono nati, quello della casta che hanno cavalcato per un decennio. Non c’è più battaglia civica, lotta agli sprechi e ambientalismo nelle corde del M5S, ma giochi di Palazzo. Questo ciò che traspare e appare agli occhi del pubblico e dell’elettore medio.

    Senza considerare poi che il M5S oggi è tutto e niente: tre correnti in un unico movimento, tanto mal di pancia interno e una discutibile gestione del partito tramite una piattaforma online che abbatte la democrazia rappresentativa ed eleva quella diretta a simbolo del futuro. Di Maio, Fico, Di Battista. Tre uomini, tre correnti. Tre persone diversissime fra loro. Che la pensano in modo distinto su quasi tutto. Non mi viene in mente più di un solo tema sulla base del quale sia possibile formulare una linea politica comune a tutti e tre. Addirittura anche chi è ormai uscito dal M5S auspica a una scissione del movimento, come la senatrice Paola Nugnes che in un’intervista rilasciata ad Anna Ditta per TPI spiega che sarebbe l’unico modo “per salvare la parte più vicina allo spirito ecologista, egualitario e anti-liberista”.

    Il M5S è un’azienda privata guidata da un privato con interessi privati. Ed è anche la prima forza parlamentare. E la base riflette. Sì, perché i deputati e i senatori M5S, così come gli elettori, non è che proprio non si accorgano di questo conflitto interno, questo scontro che sta lentamente portando alla deriva il movimento. Dopo le Europee, ve lo ricorderete, con il primo governo Conte ancora in sella, si era parlato molto della necessità che Di Maio lasciasse la leadership. Parte di quella base era favorevole affinché lo facesse.

    Dieci giorni dopo è misteriosamente e inspiegabilmente diventato ministro degli Esteri, senza che conosca bene l’inglese (non è un modo per fare ironia, ha detto lui stesso di non conoscerlo e che lo avrebbe studiato). Come fa il partito della trasparenza, della competenza, del no alle poltrone a mantenere la faccia di fronte a una scelta simile? Tutto questo, limitandosi alla narrazione che il M5S dà di se stesso, perché in realtà è pieno di contraddizioni politiche interne.

    All’indomani delle elezioni in Umbria, Di Maio ha annunciato che l’operazione alleanza con il PD finisce con la debacle di Bianconi in terra umbra e che non è più praticabile. Charlotte Matteini ha commentato su TPI che il problema del M5S non è l’alleanza con il PD, ma proprio Luigi Di Maio. E quella dell’attuale ministro degli Esteri e capo politico dei 5S è una posizione scomoda. Perché a dirla tutta il M5S deve rispondere innanzitutto di questo catastrofico calo dal 32 al 7,4 per cento: è evidente che quella in Umbria non è stata una elezione nazionale, ma il bilancio parla di meno 14 punti, quasi 1 al mese. E scendere sotto la soglia del 10, della doppia cifra, deve far suonare il campanello d’allarme in casa M5S.

    Di Maio deve dunque assumersi una responsabilità politica. E poi deve anche rispondere di tutti i provvedimenti adottati con la Lega che hanno reso il movimento un partito incoerente, senza linea, senza un popolo da rappresentare (se non appunto quello della piattaforma digitale che etero-dirige). E infatti il popolo se ne è andato, in una fuga di massa che non lascia spazio ad alibi. Nell’era dei leader di breve durata, Salvini resiste così alto tra l’elettorato e nei sondaggi perché leader non è ancora mai stato proclamato. E soprattutto perché ha un’idea e solo quella, e 5 argomenti chiari. Dice “datemi pieni poteri” o fate voi, altrimenti che ci sto a fare; non dice “datemi pieni poteri” altrimenti rimango lo stesso a palazzo Chigi.

    Che è esattamente quello che ha fatto il M5S, riuscendo in una serie di magheggi politici senza precedenti, passando dalla Lega al ”partito di Bibbiano”. Una follia senza pari. Ci vuole coerenza e serietà, ci vuole una linea e solo quella, ci vuole tempo e pazienza, per consolidare il proprio elettorato sulla base delle idee che un partito si propone di mettere in atto, altrimenti questo è trasformismo politico allo stato puro senza arte né parte.

    Che ora Di Maio dica che il M5S è la terza via tra due poli fa ridere. E non ha importanza se alle prossime 8 elezioni regionali che si terranno entro la fine del 2020 PD o M5S si presenteranno coalizzati o avranno la meglio. Serve un’idea di politica chiara e di come concepisci il mondo. Se è giusta, nell’interesse comune pubblico degli elettori, verrai ripagato; altrimenti non lo era.

    Ma è impensabile adattare la propria politica, plasmarla a seconda del momento e per interesse di mantenere il potere. L’alleanza con il PD ha definitivamente divorato quel senso di verginità che un tempo il movimento manteneva, e ha iniettato nel M5S un élitarismo da perdenti. Il movimento del popolo partito dal basso si è fatto grande, è diventato maturo, ha cambiato il suo linguaggio, ma ha tradito se stesso. Il partito dei grandi con il voto dei pochi. E in questo senso l’alleanza PD-M5S sfavorisce molto più i pentastellati che i dem.

    Il M5S è morto ieri notte. A meno che… non rinsavisca da questa folle sete di potere, non si faccia 3 anni di opposizione, si ricostituisca “parte civile“, recuperi alcune delle sue battaglie storiche e ammetta i suoi errori alla propria base elettorale nel tentativo di recuperarne almeno una parte. Ma soprattutto: a patto che cambi leader.

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