A Porta a Porta, nel tempio del melonesimo, sotto gli occhi compiaciuti del porporato maggiore, Padre Maurizio Patriciello ha dato la sintesi anticipata delle elezioni europee del prossimo 9 giugno: «Vidi la premier e le dissi che noi avevamo un grande desiderio di applaudirla: per cortesia, presidente, si prenda i nostri applausi».
Ecco quello che Meloni attende dalla consultazione che porterà a eleggere i 76 membri italiani del Parlamento europeo: un plebiscito che la confermi salda sulla poltrona di Palazzo Chigi e mostri ad alleati e oppositori chi davvero comanda in Italia.
Una congiuntura internazionale obiettivamente difficile, un governo altrettanto obiettivamente in ritardo su tutti i temi che aveva promesso di risolvere, un’immagine appannata e appesantita, le inchieste che stanno inquinando la campagna elettorale potrebbero non bastare a fermare l’idillio tra gli italiani e il presidente del Consiglio. Meloni veleggia alta nei sondaggi e chiede un referendum su se stessa. Riuscirà, forse. A scapito, però, dei suoi alleati di governo.
La maggioranza
Da quando il suo competitor naturale, Silvio Berlusconi, è passato a miglior vita, il duello è con Matteo Salvini. Il “Capitano” ha dovuto puntare tutte le sue fiches su questa campagna elettorale: o la va o la spacca.
Contestatissimo dai suoi dirigenti, da Giorgetti a Fedriga, passando per Zaia e Fontana, Salvini ha estratto dal cilindro dell’irrealtà il generale Roberto Vannacci. Un candidato che più divisivo e spiazzante non si può. Un colpo ai gay, uno ai neri, uno ai disabili, il generalissimo riesce a intercettare le nostalgie coloniali dell’anima nera italiana, delusa dalle politiche morbide e politically correct di Giorgia Meloni, dal suo atlantismo eburneo e dalle posizioni della premier, molto più moderne e progressiste dell’area che Salvini vellica.
Nei sottovoce e nei corridoi del Palazzo, i colonnelli della Lega non fanno mistero a TPI che daranno indicazione ai propri elettori più fedeli di votare Forza Italia, allo scopo di indebolire Salvini così tanto da poter poi chiedere un cambio alla segreteria federale. Ha cominciato a sussurrarlo ai cronisti il vecchio Bossi e ha seguito Roberto Castelli. Le prime file dei governi regionali, con prudenza veterodemocristiana, tacciono. Ma è uno di quei silenzi eloquenti.
Riuscirà il vannaccesimo a equilibrare i conti e a portare al salvinismo i voti che mancano? Di certo non potrà che andare meglio delle performance esibite dalla Lega nelle ultime elezioni regionali sarde, abruzzesi o lucane. Ma è dallo scontro con gli amici-avversari di Forza Italia che dipende il futuro politico di Salvini e dei molti che si sono accomodati sulla riva del fiume, in attesa che transiti il corpo malconcio del vicepremier.
La competizione interna al centrodestra, incredibilmente, favorisce proprio Forza Italia, il partito con la buonanima del fondatore che campeggia sui sei-per-tre elettorali. Dai muri di tutta Italia un Berlusconi già stanco infonde la mano sulla spalla di Tajani, il successore, rassicurante fino al letargo.
Chiunque avrebbe scommesso su un declino (neanche troppo lento) del partito azzurro. Invece, i seguaci del Cavalierato di Arcore hanno retto bene nella tornata delle regionali e contendono a Salvini lo scettro di second best del fronte destro e si preparano al conguaglio di poltrone e poltroncine.
Il centro
Ma dove tutto ribolle è l’area da sempre più affollata della politica italiana. Quel centro che si appella al moderatismo, ma litiga come le bande di adolescenti del Bronx, e si rifà al pragmatismo politico della miglior tradizione italiana, pur essendo campione di velleitarismo.
Renzi spariglia, manco a dirlo. Prima convince la Bonino e i suoi a un’alleanza di scopo (correranno sotto un unico simbolo), assicurando che lui non si candiderà, ma poi si piazza in lista. Ultimo in tutte le circoscrizioni elettorali, inaugurando un nuovo luogo elettorale: il Chiudilista.
Il fratello-coltello Carlo Calenda guida la sua Azione nello stesso campo politico del renzismo d’annata, ma chiede consensi sulla qualità del personale politico con critiche, mai velate, ai cuffariani annidati nelle liste della Rosa nel Pugno. Si candida anche lui, ma anche di lui non si sa se occuperà mai il seggio di Strasburgo, abbandonando il più comodo Parlamento nazionale. Problema comune a tutti gli schieramenti. O a quasi tutti, in realtà.
L’opposizione
Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha addirittura presentato una curiosa proposta di legge che ha, almeno, il merito di essere assai chiara: «Non possono essere candidati e non possono ricoprire la carica di membro del Parlamento europeo coloro che ricoprono la carica di deputato, di senatore e di componente del governo alla data della pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi elettorali». Giusto un’allusione, leggerissima, alla rivale vera della sua competizione. Quella Elly Schlein con la quale Conte duella per la posta in palio, quella più interessante dei seggi, quella finale: la leadership della sinistra, divisa per tradizione e litigiosa per vocazione.
Il Partito democratico è un partito tritasegretari, si sa. Otto leader in dieci anni sono stati innalzati agli altari e poi sbattuti nella polvere. Dopo il 9 giugno si prepara l’ingresso nel frullatore di Schlein, se non si dovesse perlomeno superare la soglia psicologica del 22,7%, cioè la cifra elettorale raccolta dai dem nelle ultime consultazioni europee.
Certo, non si può dire che la prima segretaria donna del Pd non ce la stia mettendo tutta per raccogliere ovunque e comunque consensi. Nelle liste del suo partito l’elettore può trovare risposte per ogni esigenza: dall’antimilitarismo militante di Cecilia Strada all’atlantismo di Pina Picierno, che ha votato (e rivoterebbe) l’invio di ulteriori armi e sostegni all’Ucraina. Dalle posizioni filopalestinesi di chi dichiara che Israele sta conducendo «una pulizia etnica», come Marco Tarquinio, al leader della comunità ebraica Emanuele Fiano, figlio del compianto Nedo, sopravvissuto alla Shoah.
Poi gli antisistema: la sardina (o ex-sardina) Jasmine Cristallo nella stessa lista di uomini delle istituzioni come Antonio Decaro, il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, città sottoposta all’attività di una commissione di inchiesta per valutare un’eventuale infiltrazione criminale in un intreccio (presunto) tra mafia, politica e affari. Insomma, il veltronismo ha lasciato i suoi strascichi culturali in un partito che contiene tutto e il suo contrario.
Riuscirà Giuseppe Conte a strappare alla leader esanime lo scettro del socialismo italiano? Per farlo dovrà almeno superare il 17% raccolto dal mai troppo compianto Gigino Di Maio alle europee del 2019. Senza questo risultato, anche la sua pochette rischia di sgualcirsi.
Raggiungere l’agognato 4%, il quorum che garantisce la sopravvivenza politica, sarà sufficiente, invece, per i combattivi esponenti di Alleanza Verdi e Sinistra. Fratoianni e Bonelli hanno avuto il coraggio di candidare Ilaria Salis e di rendere un simbolo la donna detenuta in Ungheria in condizioni degradanti per qualsiasi essere umano. Simbolo della piaga delle galere, che da Lisbona a Roma, da Parigi a Budapest accomuna l’Europa sotto la bandiera della vergogna.
Ma le candidature simboliche abbondano nelle liste di Avs: Ignazio Marino, Mimmo Lucano, Leoluca Orlando sono alcuni dei nomi che si contenderanno i (pochi) posti nel Parlamento europeo.
Insomma, non c’è che l’imbarazzo della scelta, nelle oramai uniche elezioni in cui gli italiani possono esprimere la loro preferenza: 34 simboli depositati, oltre 700 candidati per 76 che saranno eletti. Allora, forza e tutti alle urne, cittadini!