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    Ma l’Italia non ha mai smesso di fare affari con il regime in Egitto

    Credit: AGF

    Patrick Zaki è libero e i genitori di Giulio Regeni aspettano ancora la verità. I rapporti tra Roma e il Cairo però sono sempre stati strettissimi, soprattutto dal punto di vista economico. E intanto il popolo egiziano è ridotto alla fame

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 29 Lug. 2023 alle 08:00 Aggiornato il 31 Lug. 2023 alle 19:30

    Malgrado la mancata collaborazione per trovare la verità sull’omicidio del giovane ricercatore friulano Giulio Regeni e il caso di Patrick Zaki, l’Italia ha proseguito la cooperazione economica con l’Egitto. Il nostro Paese è infatti uno dei maggiori partner commerciali del Cairo nell’Unione europea. Un business però che non sembra arricchire il popolo egiziano.

    Rapporti eccellenti
    Secondo gli ultimi dati disponibili dell’istituto statistico egiziano Capmas, gli scambi bilaterali hanno raggiunto i 5,8 miliardi di dollari nel 2021, in sensibile aumento rispetto ai 4,5 miliardi di dollari del 2020. Gli investimenti italiani nel Paese sono cresciuti del 40,3% fino a 448,8 milioni di dollari nel primo trimestre dell’esercizio 2021-22 (luglio-settembre), rispetto ai 320 milioni dell’ultimo trimestre dell’anno precedente (aprile-giugno 2020-21).

    Stando all’agenzia Ice, nel primo trimestre 2023, gli scambi tra i due Paesi sono cresciuti di un ulteriore 11,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La maggior parte dell’interscambio commerciale, secondo l’Ice, riguarda prodotti petroliferi, chimici, elettrici, siderurgici, tessili, agroalimentari e macchinari industriali. In Egitto operano infatti alcune delle maggiori aziende italiane, come Eni, Snam, Intesa Sanpaolo e Sace.

    Priorità all’energia
    Ma la cooperazione energetica rappresenta la priorità per entrambi i Paesi, che sono infatti membri dell’East Mediterranean Gas Forum (Emgf) con sede al Cairo, costituito nel 2019 per istituire un mercato regionale del gas nel Mediterraneo orientale. Non a caso, a fare la parte del leone negli investimenti italiani in Egitto è l’Eni.

    Il cane a sei zampe è presente dal 1954 nel Paese nordafricano, da dove proviene circa il 23% delle sue riserve di gas e in cui dal 2016 al 2021 ha investito 11,6 miliardi di euro. Qui l’attuale produzione di Eni ammonta a 28 milioni di barili di petrolio e condensati, 126 milioni di barili equivalenti di petrolio e circa 12,6 miliardi di metri cubi di gas. E proprio sul gas si concentrano anche gli interessi di un’altra partecipata dello Stato, Snam, che gestisce la rete italiana. Nel 2021, l’azienda ha acquistato il 25% della East Mediterranean Gas Company (Emg), holding proprietaria del cosiddetto “Gasdotto della Pace” che collega Arish, in Egitto, ad Ashkelon, in Israele. Non finisce qui.

    Gli investimenti energetici hanno bisogno di fondi e così entra in gioco il settore bancario con in prima fila Intesa Sanpaolo. Dal 2006 infatti l’istituto torinese controlla Bank of Alexandria, partecipata anche dal governo egiziano, e risulta il quinto gruppo bancario del Paese con 1,5 milioni di clienti e 179 filiali.

    Fra il 2018 e il 2019, come riportato dall’ong Recommon, attraverso Alex Bank Intesa Sanpaolo ha concesso un prestito da 140 milioni di dollari alla Egyptian General Petroleum Company, coinvolta in vari progetti energetici. In più, secondo una ricerca di Profundo B.V., tra il 2019 e il 2020 l’istituto avrebbe prestato ai ministeri egiziani delle Finanze e della Difesa rispettivamente 1,2 miliardi e 235 milioni di dollari.

    Gli affari tra Italia ed Egitto non riguardano infatti solo l’energia ma anche le armi. Nel 2020, l’Italia ha venduto due fregate multiruolo Fremm, 24 caccia Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346, oltre ad altre 4 navi e 20 pattugliatori marittimi. Un affare da 9 miliardi di euro, che coinvolge Fincantieri (impegnata anche nel raddoppio del Canale di Suez) ma anche Intesa Sanpaolo e Sace.

    L’acquisto delle fregate è stato possibile anche grazie a un prestito dell’istituto torinese e a un finanziamento garantito da Sace, agenzia di credito controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, che nel decennio di potere di Al-Sisi ha garantito al regime egiziano quasi 4 miliardi di euro di garanzie finanziarie. Tutto questo mentre il popolo egiziano deve far fronte a un costo della vita sempre più elevato.

    Ridotti alla fame
    Una delle principali promesse del regime egiziano alla presa del potere nel 2013 fu quella di salvare l’economia. In questo senso, Al-Sisi ha effettivamente rivendicato dati positivi: l’anno scorso il Pil del Paese è cresciuto di circa il 4% rispetto a un tasso del 2,2% di dieci anni prima.

    Ma la maggior parte degli egiziani non ha goduto dei benefici di questa crescita: in un decennio il tasso di povertà è salito dal 26,3% al 27,9% dopo aver raggiunto un picco del 32% nel 2020. Il Paese conta oltre 30 milioni di poveri su 109 milioni di abitanti, di cui il 3,8% vive con meno di 1,9 dollari al giorno. A peggiorare tutto c’è l’inflazione, cresciuta in dieci anni dal 7% al 36,8% annuo registrato a giugno.

    La guerra in Ucraina non aiuta: nel 2020 l’Egitto, il più grande importatore di grano al mondo, importava l’86% dei cereali da Kiev e dalla Russia mentre oggi, a causa del conflitto, è costretto a trovare fornitori alternativi per il suo programma di sussidi alimentari, che sfama ogni giorno quasi 72 milioni di persone. Intanto, dall’inizio dell’invasione, la sterlina egiziana ha perso oltre il 50% del suo valore e le riforme richieste dal Fmi per finanziare il regime hanno provocato ulteriori tagli alla spesa sociale, mentre il bilancio per la Difesa è aumentato da 4,5 a quasi 5,2 miliardi di dollari in dieci anni.

    D’altronde, nel 2018, Al-Sisi chiese al suo popolo di non preoccuparsi troppo dell’aumento dei prezzi alimentari che affamava i poveri: «Volete costruire un Paese forte o mangiare patate?!». Una scelta assurda, tra fame e armi, ma che sembra convenire ai Paesi – come l’Italia – che vendono armamenti al Cairo. Lunga vita agli affari!

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