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    Esclusivo TPI: Draghi non ha cancellato alcun segreto di Stato: ecco perché non vedremo mai i documenti scottanti NATO su Gladio e P2

    Di Simona Zecchi
    Pubblicato il 4 Ago. 2021 alle 10:26 Aggiornato il 4 Ago. 2021 alle 10:53

    Caccia matta

    Dall’Archivio Russomanno proveniente dal Ministero dell’Interno e conservato a parte, inerente tra le altre cose alla struttura Anello (organizzazione occulta sulla quale si è indagato e archiviato subito a Roma) passando per le stragi degli anni 69-84, fino ad argomenti correlati. Ma anche contenuti che riguardano terrorismi esteri e, non ultime, le stragi del 92-93. L’Archivio centrale dello Stato è il posto giusto per chi va a caccia di indizi, qualche prova e molti elementi che uniti ad altri, reperiti magari altrove, possono aiutare a ricostruire i periodi bui della nostra Repubblica. Lo frequentano ricercatori, storici e (pochi) giornalisti. Sono tutti lì presenti all’Eur nel palazzone che guarda la Basilica dei Santi Pietro e Paolo a Roma e abbraccia un quartiere intero. Per andarci basta attraversare il Piazzale degli Archivi come indica la toponomastica. Ma molte cose sono anche conservate presso archivi più periferici situati in altre città.

    A permetterlo tre direttive che negli anni, dal 2008 sino all’ultima emanata dall’attuale Presidenza del Consiglio, hanno rilasciato via via alcune declassificazioni per poter permettere poi con un iter molto lungo l’accesso a chi lo chiede. Ha iniziato Romano Prodi in occasione del trentennale dell’omicidio Moro. Anche se, paradossalmente, dopo 5 processi, 2 commissioni parlamentari e altre che l’hanno attraversato, proprio all’Eur alcuni documenti che riguardano il caso sono tuttora impossibili da visionare.

    L’iter di accesso alla “verità”

    Si manda prima una e-mail in cui si chiede appuntamento per consultare determinati argomenti racchiusi in documenti, si ottiene l’appuntamento e gli archivisti, efficientissimi e gentili, fanno di tutto per orientarti nella ricerca. Loro sono un po’ lì tra l’incudine e il martello: conoscono l’importanza della libertà di stampa e della ricerca ma seguono istruzioni specifiche. Una volta che si entra in questo mondo di carte apparentemente vecchie ma con tutto il sapore dell’attualità, oltre che di valore storico, si fa richiesta della documentazione che interessa, la quale poi passa sotto un controllo preventivo di ciò che si può fotocopiare (e pagare), citare o pubblicare e a volte soltanto leggere. In alcuni casi, nonostante quelle carte siano lì proprio per questo, non è possibile ottenere alcun nulla osta. È quindi una roulette al contrario questa ricerca della verità dove a vincere non sono né il rosso né il nero ma il grado di classificazione delle carte che va da “riservato” e “riservatissimo” a “segreto” e “segretissimo” – e che inoltre ha un limite: se i fatti che interessano sono ancora trattati in processi o inchieste non sempre sono disponibili. Spesso per un unico foglio devi fare lo slalom: “questo sì, questo no” e soprattutto per un giornalista (che in teoria dovrebbe pubblicare quello che non si vuole diffondere) diventa tutto arduo visto che prima firma un protocollo dove diritti e soprattutto doveri di chi fa ricerca sono ben indicati. Pena l’esclusione per un futuro accesso. È anche vero che spesso certa documentazione, che presso l’Archivio è accessibile solo in parte o punto, altrove, magari attraverso altre fonti, si riesce a ottenere senza incorrere in problemi legali. Insomma un ginepraio pubblico.

    I livelli di riservatezza a cui è soggetta questa massa di carta e cavilli, è bene sottolinearlo, non includono il famoso Segreto di Stato che, come recita la legge 124/2007 dei servizi di sicurezza è opponibile solo all’autorità giudiziaria dal Presidente del Consiglio e non può riguardare strettamente stragi o terrorismo, perché in teoria in questo Paese segreti su questi fatti non possono applicarsi. In teoria, poi, il gioco delle carte che si innesca, affini a quei fatti, rende tecnicamente possibile secretarli per chiudere così il lucchetto un altro po’. Il “segreto” in sé dovrebbe al contrario avere un limite (un primo limite di 15 anni e un secondo, il massimo, di 30) e una volta caduto tutto va inviato alla magistratura e non reso pubblico.

    La Direttiva Draghi e il niet sulla Nato

    La documentazione oggetto della direttiva Draghi, che riguarda l’organizzazione Gladio e la Loggia massonica P2, tutti argomenti trattati in processi e inchieste attuali, paradossalmente diverrà pubblica solo una volta che gli enti che possiedono i documenti (Aise, Aisi, Dis, Carabinieri, Finanza, Ministero Interno e la stessa presidenza del Consiglio, ecc) la invieranno all’Archivio centrale, che a sua volta li digitalizzerà e li renderà accessibili con il sistema prima esposto. E soltanto così. Un iter lungo che costa tempo, personale e pazienza.

    Ogni volta che la Presidenza del Consiglio emana una direttiva in tal senso partono i grandi titoli a segnare la vittoria italiana della trasparenza. Il 2 agosto, giorno dedicato alla commemorazione della strage di Bologna, quando le agenzie hanno lanciato la notizia della Direttiva Draghi è accaduto di nuovo: “Draghi toglie il segreto di Stato su Gladio e P2” così i maggiori media. Ma così non è come anche appurato, sentendo in esclusiva chi quella direttiva l’ha letta e avuta tra le mani, come Ilaria Moroni, direttrice del Centro documentazione Archivio Flamigni, e componente di un comitato di controllo istituito dopo che l’ex premier Renzi nel 2014 aveva a sua volta emanata un’altra direttiva dello stesso tipo. Moroni riferisce in esclusiva a TPI: “Sarà l’Aise, il nostro servizio segreto per l’estero, a inviare la documentazione più consistente riguardante Gladio perché da lì maggiormente proveniente”, mentre se si incorrerà in “documentazione Nato o di altro soggetto estero, non solo – continua Moroni – sarà esclusa dal versamento, ma dovranno essere interpellati prima la stessa Nato o chi per lei”. È questa la vera notizia e insieme il vero vulnus.

    In questo modo, infatti, se si considera che Gladio, la cui esistenza è stata confermata da Giulio Andreotti solo nel 1990 (a pochi giorni di distanza dalla scoperta delle “carte Moro” di Via Montenevoso a Milano) aveva diramazioni in quasi tutti i paesi della NATO, attraverso una rete segreta paramilitare conosciuta come Stay Behind; e che la loggia P2, tramite il venerabile Gelli, ancora oggi protagonista di processi da defunto, era legata agli Stati Uniti, tutto diventa un paradosso.

    Il Comitato di controllo, di cui fanno parte associazioni dei familiari delle vittime di stragi, archivisti ed esperti, creato proprio per far sì che la direttiva Renzi sia applicata al meglio, ha contribuito a questa nuova iniziativa della presidenza del Consiglio e insieme al DIS (l’organo di controllo dei nostri servizi), in un procedimento durato alcuni anni, ha preparato il terreno per la nuova direttiva.

    Tra gli elementi che non si potranno mai conoscere sicuramente, ci conferma ancora la direttrice dell’Archivio Flamigni, saranno “i dati identificativi degli operatori istituzionali” come è naturale. Intanto Ilaria Moroni che, insieme ai componenti del Comitato, ha incontrato e audito referenti dei vari ministeri e l’allora direttore del Dis, Gennaro Vecchione, affinché la declassificazione si allargasse anche a documentazione riguardante P2 e Gladio (sorta di sottotemi rispetto alle stragi specifiche) si augura che la volontà politica sia davvero tale e che il rebus delle consultazioni in archivio venga sciolto, per una vera trasparenza.

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