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    Barca a TPI: “La dote ai 18enni è stata spiegata male. Draghi? Un conservatore. E il suo Pnrr non ha visione”

    Intervista all'ex ministro Barca, coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità: "Letta ha aderito a una proposta di Anthony Atkinson rilanciata da noi del Forum. Non c'entra nulla con la patrimoniale. E mi ha deluso il fatto che siamo rimasti al sì o no senza entrare davvero nel merito della questione. Questo perché siamo un Paese che fatica a discutere delle cose concrete. Mi aspettavo invece la bocciatura da parte di Draghi, perché è sempre stato un conservatore. Lo conosco, abbiamo lavorato tre anni insieme al Mef. È uno dei più grandi negoziatori che io abbia mai visto. Capace di non far trasparire ciò che pensa. Ma se alla Bce è riuscito a salvare l'Europa deve ringraziare il Governo Monti. Il Pnrr? Manca un disegno, un'anima"

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 15 Giu. 2021 alle 16:59

    “Draghi? È un conservatore. E, del resto, lo è sempre stato”. Fabrizio Barca non è sorpreso del fatto che il presidente del Consiglio abbia immediatamente stroncato la proposta della dote ai 18enni da finanziare con una riforma della tassa di successione. Lanciata sul tavolo dal segretario del Pd Enrico Letta, l’idea era stata avanzata per la prima volta in Italia dal Forum Disuguaglianze e Diversità, di cui Barca è coordinatore. Deluso dalla bocciatura di Draghi? “No”. Se l’aspettava? “Sì”. Barca è però tutt’altro che rassegnato: “Questa cosa va fatta davvero”, sottolinea.  Ex ministro per la Coesione territoriale (Governo Monti), ex dirigente della Banca d’Italia e del Ministero dell’Economia, in questa intervista a TPI l’economista spiega perché la dote ai 18enni è stata spiegata male nel dibattito pubblico italiano.

    Partiamo dalla campagna vaccinale. In questi giorni ci sono grandi polemiche per il nuovo cambio di rotta su AstraZeneca. Lei che idea si è fatto?
    “Mi limito a dire che la pandemia ci ha costretto, per la prima volta nella storia, a fare una sperimentazione su dei popoli, anziché su dei campioni. E che i cambi di rotta sono tipici di ogni sperimentazione, anche di quelle campionarie. Non a caso in ogni singolo paese a livello internazionale abbiamo visto vicende simili”.

    Passiamo a temi più “politici”. Con la cosiddetta tassa di successione, Letta ha fatto propria una proposta che era stata formulata in origine da voi del Forum Disuguaglianze e Diversità.
    “Volendo essere precisi la proposta l’ha fatta per primo Anthony Atkinson. Ma, per noi che pensiamo che l’accesso alla conoscenza debba essere accresciuto, non esistono brevetti (ride). È sicuramente positivo il fatto che questa idea circoli: l’idea, cioè, che vadano riequilibrate le condizioni che derivano dai trasferimenti generazionali della ricchezza. La proposta, inoltre, ha messo in luce chi sono i veri liberali – penso all’opinione positiva di Mario Monti – rispetto a coloro i quali si dice siano liberali ma che poi, alla prova dei fatti, faticano a esserlo”.

    Per esempio chi?
    “Penso al presidente del Consiglio. Ma la proposta è stata anche utile a stanare coloro che parlano ora continuamente di ‘disuguaglianze’ o di ‘uguaglianza di opportunità’ per poi trincerarsi dietro al fatto che va migliorata l’istruzione scolastica, magari per preparare meglio un po’ di lavoratori che ci servono nei settori utili”.

    Ragionamento sbagliato?
    “Ma certo che ai giovani serve l’istruzione! E siamo contenti che il Governo abbia stanziato più fondi per le borse universitarie e per gli alloggi studenteschi. Aumentare il numero delle persone che vanno all’università è fondamentale, così come eliminare gli squilibri nell’accesso alla scuola d’infanzia. E anche su questi interventi, peraltro, noi lavoriamo”.

    E allora?
    “Se, davanti alla proposta della dote per i 18enni, si obietta che quel che conta davvero è l’istruzione, significa che, in definitiva, non si vogliono livellare le condizioni di opportunità finanziaria. E si difendono gli interessi di quell’1% privilegiato del Paese. Il ragionamento di fondo è: agli ‘altri’ diamo l’istruzione, poi pazienza se a 18 anni una persona non ha i mezzi per fare il salto, ad esempio poter frequentare un’università lontana da casa o avviare con altri una micro-impresa. Questo non interessa. Chiariamo: la dote non serve a migliorare il livello dell’istruzione, ma a migliorare la libertà dei giovani di scegliere la via che sentono più adatta alle loro corde”.

    Quindi bene che se ne parli, ma male che se ne parli così?
    “È positivo anche che la proposta abbia fatto prendere consapevolezza del fatto che l’Italia è una anomalia a livello internazionale nella tassazione delle eredità”.

    Da alcuni suoi tweet, però, mi è sembrato che il modo in cui Letta ha presentato l’idea non le sia piaciuto molto. Ho inteso male?
    “Letta ha richiamato nel suo libro il fatto che la dote serve. E questo è positivo. Mi ha deluso il fatto che nel dibattito pubblico successivo, nonostante il suo stesso tentativo, siamo rimasti al sì o no senza entrare davvero nel merito della questione. Questo perché siamo un Paese che fatica a discutere delle cose concrete”.

    Proviamo a entrare nel merito della proposta, allora.
    “Affinché possano camminare, le proposte devono essere precise, puntuali, meditate. La nostra lo è. Le questioni fondamentali sono tre”.
    La prima.
    “La dote deve essere universale, cioè deve essere destinata a tutti: il figlio del ricco e del meno ricco, una volta tanto, sono uguali per davvero. Non è una cosa fatta per chi ha meno.

    Secondo.
    “Non è una patrimoniale, è totalmente privo di senso chiamarla così. È una riforma della tassa su successioni e donazioni che esenta – sottolineo: esenta – dalla tassazione chiunque riceva a qualunque titolo meno di 500mila euro ed è progressiva per chi riceve di più”.

    Terza questione.
    “È fondamentale quella che noi chiamiamo la fase dell’apprendimento. Ogni adolescente dai 14 ai 18 anni deve essere coinvolto in tutti i luoghi istituzionali pubblici, privati e privati sociali – e noi prevediamo dei fondi per farlo – in un lavoro di confronto che favorisca in lui un processo di maturazione. Proprio perché la nostra proposta è libera, incondizionata, ognuno può fare della dote quello che vuole. Speriamo che ora, dopo aver capito i titoli, si passi a esaminare i contenuti di questa proposta, perché questa cosa va fatta davvero”.

    Draghi, però, l’ha subito stroncata.
    “Ha mostrato la sua posizione conservatrice”.
    Deluso?
    “No”.
    Se lo aspettava?
    “Sì”.

    Lei Draghi lo conosce bene.
    “Per tre anni siamo stati capi dipartimento, di due dipartimenti diversi, al Ministero dell’Economia”.
    Che ricordo ha di lui?
    “Era un conservatore”.
    Insomma, non l’avete mai pensata allo stesso modo.
    “Direi proprio di no”.

    Passiamo al Pnrr. A detta di molti, il piano del Governo Draghi è molto simile a quello del Conte II. Però quello aveva attirato molte critiche, mentre su questo – a parte voi del Forum e pochi altri – nessuno ha obiettato nulla. Perché?
    “Quelle al Pnrr del Governo Conte erano certamente critiche strumentali e poco focalizzate sui contenuti. Ottenuto l’obiettivo di far cadere il governo, non c’era più nulla da obiettare. Una brutta rappresentazione”.

    Nota nel dibattito pubblico italiano un generale appiattimento in favore di Draghi? Anche dall’opposizione i toni sono abbastanza morbidi.
    “C’è molta tattica sia da chi appoggia sia da chi critica, che ritiene che – attaccando – non incasserà. Il Paese sente di non avere un’alternativa politica, e per certi versi è anche vero. C’è in generale poco interesse ai contenuti, poca voglia di andare alla sostanza, all’operatività. Anche sulle parti positive”.

    Ad esempio?
    “Abbiamo apprezzato molto la centralità ridata alla Pubblica Amministrazione dal ministro Brunetta, anche se poi abbiamo visto alcuni atti che non ci hanno convinto. Il pubblico dibattito è molto disattento sia alla parte positiva sia, a maggior ragione, ai punti più critici”.

    Come Forum Disuguaglianze e Diversità, avete elaborato un documento che evidenzia molti punti critici nel Piano. Qual è a suo avviso il problema principale?
    “Il piano – come quello del precedente governo – ha più o meno tutti i titoli giusti. E alcuni svolgimenti convincenti: penso alla parte sulle infrastrutture per il digitale o alla novità significativa dell’impegno per una legge delega sugli anziani non autosufficienti che metta finalmente insieme salute e cura, tornando sul tracciato dell’Italia degli anni Settanta”.

    Tuttavia…?
    “Complessivamente è un piano senz’anima. Non c’è un disegno dell’Italia, non c’è una valutazione delle ragioni per cui l’Italia è bloccata. Le cito tre punti”.

    Primo punto.
    “Non c’è la necessaria consapevolezza che il tema delle disuguaglianze – e, attenzione, anche quello del blocco della produttività – si giocano sul terreno del non accesso alla conoscenza. Il tema è centrale: oggi più che mai chi opera nell’economia della conoscenza ha vinto e chi ne resta fuori ha perso. Su questo non un segnale di un cambiamento radicale”.

    Secondo punto.
    “Vengono destinate molte risorse al Welfare, ma non c’è un impegno per un Welfare universale nuovo. Lo si avverte in particolare su alcuni temi come la casa”.

    Terzo.
    “Non c’è quasi per niente il tema dei ‘buoni lavori’. Sul tema del lavoro il piano è intriso di un ritorno alla flessibilità. Si vede che dietro c’è un pensiero neoliberista, vecchio. Il parlamento, con una buona iniziativa, ha fatto inserire delle condizionalità al lavoro. Speriamo le mettano davvero nei bandi. Poi, c’è il punto su cui noi del Forum ci siamo giocati tutto, scrivendo anche a Bruxelles”.

    Il tema del metodo.
    “Salvo alcuni ministri, nella definizione del piano non c’è stato dialogo sociale. Il Governo ha addirittura mancato di rispettare uno dei requisiti previsti dal Consiglio europeo: ovvero che i governi dovessero dare conto di come avevano condotto il dialogo sociale e di quali proposte dei partner sociali fossero state adottate nel piano. Si sono proprio dimenticati di scriverlo. Ed è rivelatore del modo vecchio di concepire il dialogo sociale, un metodo neoliberista”.

    Lei insiste molto sul tema del monitoraggio dell’attuazione del Pnrr.
    “Su questo il Governo ha preso impegni che ci piacciono. Il monitoraggio descritto nel piano sembra convincente, fissa dei milestone, dei target e delle procedure e assegna al Mef il compito di ‘valorizzare il patrimonio informativo … anche attraverso lo sviluppo di iniziative di trasparenza e partecipazione indirizzate alle istituzioni e ai cittadini’. Il successo del Piano (per il 60% attuato a livello locale) dipende da questa partecipazione. Noi staremo molto addosso al Governo perché il monitoraggio sia accessibile e aperto sul modello Open Coesione, cioè visibile da ogni cittadino da Catanzaro a Bassano del Grappa”.

    Perché è così importante?
    “Nonostante le critiche, noi questo piano dobbiamo farlo funzionare, perché su di esso ci giochiamo molto come Paese. Ma, per poterlo far funzionare, serve che i livelli amministrativi comunali siano investi di una missione di rinnovamento e che ai cittadini organizzati e alle organizzazioni sindacali territoriali sia consentito di stare addosso in tempo ai soggetti attuatori. Per questo la partita delle elezioni amministrative d’autunno è importantissima:16 milioni di italiani saranno chiamati a rinnovare gli assetti amministrativi che avranno in mano il Pnrr”.

    Il piano assunzioni del ministro Brunetta la convince?
    “Mi convincono i suoi obiettivi. E considero il concorso per i 2.800 tecnici al Sud l’ultimo del vecchio mondo. Una operazione sbagliata, come dimostra il fatto che hanno scelto di riammettere i 70mila partecipanti esclusi. Anche sulle assunzioni dei tempi determinati per il Pnrr l’iscrizione al portale per appartenenza agli albi non convince. E tutto dipende dalla qualità delle ‘prove’ o ‘colloqui’ previste: che valutino motivazioni, attitudini, competenze… non solo conoscenze. Vedremo”.

    La convinceranno gli obiettivi, ma sta facendo critiche pesanti.
    “Ma, scusi: questo governo quanto ha rinnovato i vertici delle amministrazioni? Quanti capi di gabinetto? Cosa ha rinnovato?”.

    Sta dicendo che l’operazione Governo dei Migliori si sta rivelando una mossa gattopardesca?
    “Dico che è stata una operazione molto limitata nell’impatto sugli apparati. Se non cambi la macchina è difficile…”.
    C’è chi lo chiama Governo della Restaurazione. Condivide?
    “Mi sembra un’espressione greve. Diciamo un governo della necessità, conservatore”.
    Di destra?
    “Conservatore può essere anche di sinistra. È un governo senza colore e conservatore”.

    Draghi però è favorevole allo sblocco dei licenziamenti, contrario alla tassa di successione, ha fatto un mini-condono fiscale e per poco non ripristinava il meccanismo del minimo ribasso sugli appalti. È un premier di destra?
    “Lui anticipa le cose che sono il punto di mediazione tra i partiti che lo sostengono. Basta vedere cosa ha deciso sulla riforma fiscale”.

    Mi spieghi meglio.
    “Tutti sapevamo fin dall’inizio che un governo così non potrà fare una riforma fiscale, perché per farla serve un governo eletto dal popolo. Draghi, però, aveva detto una cosa interessante. E cioè: metterò in piedi una commissione che produrrà dei dossier che io regalerò al prossimo governo. Adesso invece vediamo che gira la partita al parlamento. Che, stante gli equilibri di governo, nulla di profondo potrà concordare. Un vero peccato. Ma almeno non chiamiamola più riforma”.

    Lei che lo conosce, che tipo è Draghi?
    “Una persona con un forte senso di responsabilità, di grandissimo rigore, con una capacità negoziale straordinaria che gli ha consentito di fare passi importanti anche come presidente della Bce. È uno dei più grandi negoziatori che io abbia mai visto. Capace di non far trasparire ciò che pensa. È la figura ideale che una persona di sinistra vorrebbe trovarsi a capo del fronte opposto”.

    Più chiaro di così… E come presidente della Bce come ha operato, secondo lei?
    “Ha operato con l’europeismo che lo contraddistingue e, con una capacità negoziale straordinaria, ha portato a casa un risultato che ha salvato la tenuta dell’Unione europea. Mi lascia solo aggiungere una cosa”.

    Prego.
    “Se ci è riuscito, è anche grazie ai risultati raggiunti dal Governo Monti (di cui Barca era ministro della Coesione territoriale, ndr). Attenzione: il Governo Monti non aveva un’agenda propria. Fu chiamato ad attuare gli impegni che il precedente esecutivo, guidato da Berlusconi, aveva concordato con l’Europa. E fu chiamato proprio perché l’Europa non si fidava di quel precedente esecutivo. Ma la fattibilità del ‘Whatever it takes’ era subordinata alla realizzazione di quella agenda”.

    Perché?
    “La Bce poteva procedere all’acquisto dei titoli italiani solo se poteva argomentare che i prezzi dei titoli erano irragionevolmente bassi e che, quindi, il loro riacquisto era conveniente, come poi è stato grazie ai provvedimenti assunti dal Governo Monti, alcuni dei quali certo criticabili e di cui sono corresponsabile anche io. Ma, senza quei provvedimenti, il ‘Whatever it takes’ non ci sarebbe stato”.

    C’è qualcosa di cui si è pentito dell’esperienza del Governo Monti?
    “Mio padre mi ha insegnato che il pentimento è un rifugio facile e improduttivo tipico italiano. Credo però che abbiamo sbagliato, a partire dal 15 agosto 2012, a pensare che potevamo avere un’agenda nostra. Avevamo completato il nostro lavoro, mettendo a posto i conti. Non c’era bisogno di fare la manovra d’autunno e invece decidemmo di provarci. Lì abbiamo travalicato il senso del nostro mandato, che era quello di raddrizzare l’Italia e poi amministrare”.

    Fu lì che si ruppe qualcosa con gli italiani?
    “Su noi italiani sono più severo. Abbiamo una memoria molto corta. Quella mossa può non aver aiutato, ma la sintonia con gli italiani si ruppe perché, da noi, la scarsa qualità del dibattito politico fa sì che abbiamo sempre bisogno di re e poi di abbatterli. È stato così per Monti, Renzi, Salvini, e forse avverrà anche per Draghi. È il frutto dell’assenza di un confronto politico, culturalmente solido. Non riusciamo ad avere una visione”.

    All’estero la qualità del dibattito è migliore?
    “Sì”.
    E perché in Italia è peggiore?
    “Perché siamo l’unico Paese del mondo occidentale che ha smantellato tutti i partiti del dopoguerra, coperti dal pentimento. I comunisti si sono pentiti di non aver rotto a sufficienza con l’Urrs, gli altri di aver rubato… Si sono pentiti, anziché analizzare e distinguere. E sotto al pentimento è stata distrutta anche la ricchezza che c’era dentro quei partiti. Il pentitismo italiano ha prodotto l’arresto di un confronto politico-culturale”.

    Ha detto che Draghi è un conservatore. Lei invece nel 2013 si definì comunista.
    “Non sfuggo. La mia matrice è social-comunista. Ma, se mi chiede cosa penso oggi, diciamo che mi ritrovo in quella meraviglia che è l’articolo 3 della Costituzione, punto di incontro dei tre grandi straordinari pensieri di sinistra italiani: il liberal-azionismo, il social-comunismo e il cristianesimo sociale”.

    Ma di fare un partito non se ne parla?
    “Ci sono tentativi interessanti dentro ai partiti che già ci sono. Noi guardiamo con attenzione a tutti e intanto produciamo contenuti”.
    Non lo esclude però?
    “Non escludo mai nulla, ma non ci penso proprio”.

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